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per gli scribi

Toulouse en érasmienne

venerdì 12 marzo 2010

Un pomeriggio




di cinema, di storia, di discussione, di racconti, di metà del Novecento che passa davanti agli occhi: il dopoguerra, maccartismo, il femminismo, l'incontro tra USA e Francia, un matematico che ti riempirà la vita amorosa e soprattutto la prediletta storia del "menu peuple", le classi subalterne, le donne senza voce e senza scrittura, le carte d'archivio, le fonti letterarie, il taglio antropologico negli studi storici, la storia delle mentalità.
Oggi Le Mirail ha celebrato Natalie Zemon Davis, affascinante donna dai tratti di comédienne, allegra, energica, curiosa, intelligente, entusiasta, vispissima, tra i più grandi storici del nostro tempo. (Anche le biblioteche si sono date da fare.) Codesto portento, saputo che nella mia tesi di dottorato c'è una parte in cui compare una donna che gestisce una libreria nella Lione del XVI secolo prorompe in una esclamazione gioiosa come se le avessi fatto un vero regalo e mi mette in mano il suo indirizzo email frugando in tutta la borsa per trovare un biglietto da visita superstite.
Che bel pomeriggio. Concluso da una lunga conversazione sulla lingua algonchina e le lingue nella Francia del XVI secolo con un professore francese attualmente all'università di Toronto.
"Non sono i re, o ricchi ad avere bisogno di me", dice, "sono i poveri, gli altri, ad avere bisogno delle mie parole". Lasciamole, a questo punto, la parola.
P.S.: qualcosa mi dice che il libro - la foto è presa da wikipedia - faccia parte della sua collezione.
I libri scritti da lei li trovate, ad esempio, qui

in edicola - La politica torni a parlare di lavoro

Già. Insisto tanto perchè a mio avviso qualunque altra questione passa in secondo piano davanti alle condizioni di lavoro, cioè alla fonte della sopravvivenza. "Prima viene lo stomaco poi viene la morale" scriveva il poeta. Con lo stomaco è complicato fare i conti e anche solo dialogare razionalmente, da ciò tutta una serie di affascinati conseguenze sulla vita di tutti. A parte ciò, da questa intervista al segretario della categoria del pubblico impiego della CGIl, Carlo Podda (e uffa! Ma quando ci sarà qualcun altro a riflettere su queste questioni?), veniamo a sapere che nel disegno di legge sul lavoro presentato dal governo non si parla solo di art. 18, giudici del lavoro e precari con falsi contratti parasubordinati.
No, ci sono anche questioni che riguardano i dipendenti pubblici e quindi anche le condizioni di lavoro di noi che siam bibliotecari. Più precisamente, tra l'altro, permessi e part time. Qualcuno è interessato, per caso?

Perché?

A chi mi chiede perché sono così contenta di essere all'estero rispondo con questo articolo sempre dal Manifesto, del 9 marzo. E aggiungo: perchè sugli altri giornali, anche i più attenti agli strappi giuridici che in questo momento non son rari, non viene pubblicato nulla di simile?
09.03.2010

* COMMENTO | di Luigi Ferrajoli
ARTICOLO 18
Il colpo di grazia
La sola regola che questa maggioranza sembra capace di rispettare è la sistematica violazione di ogni altra regola, soprattutto se costituzionale. L'aggressione al lavoro compiuta dalla legge approvata al Senato mercoledì scorso va ben al di là dell'aggiramento dell'art.18 dello Statuto che stabilisce il diritto del lavoratore ingiustamente licenziato alla reintegrazione da parte del giudice nel posto di lavoro. Essa equivale a una deregolazione e, di fatto, a una vanificazione delle garanzie giurisdizionali di tutti i diritti dei lavoratori. Il diritto del lavoro era già stato dissestato, nella sua parte sostanziale, dalla precarizzazione dei rapporti di lavoro.
Questa legge è un colpo di grazia anche alla sua parte processuale, dato che vale a esautorare la giurisdizione da tutte le questioni di lavoro. È questa, del resto, la linea di questo governo in tema di giustizia: i processi - il processo del lavoro, il processo penale «breve» o variamente impedito o paralizzato - semplicemente non vanno fatti.
In materia di lavoro questa fuga dalla giurisdizione avviene ora attraverso la violazione del diritto di agire in giudizio a tutela dei propri diritti, stabilito dall'art.24 della Costituzione. Questo diritto non è solo un diritto fondamentale. Si tratta di un meta-diritto alla tutela giurisdizionale dei propri diritti, in assenza del quale tutti gli altri diritti sono destinati a rimanere sulla carta. Ebbene, questa norma-chiave del costituzionalismo democratico è stata da questa legge aggredita, nelle controversie di lavoro, sotto ben tre profili.
Il primo profilo, il più clamoroso e insidioso, è quello espresso dall'art.33 comma 9. Questa norma, inserita in un labirinto illeggibile di 52 articoli dedicati alle materie più disparate, prevede la possibilità che nei contratti di lavoro sia pattuita la cosiddetta «clausola compromissoria», cioè la decisione delle parti «di devolvere ad arbitri le controversie che dovessero insorgere in relazione al rapporto di lavoro». In altre parole, all'atto dell'assunzione il lavoratore potrà vedersi costretto, per essere assunto, a sottoscrivere la rinuncia alla garanzia giurisdizionale e la remissione delle future controversie, incluse quelle relative alla reintegrazione nel posto di lavoro prevista dall'art.18, alla decisione equitativa di un arbitro privato.
Ora, come si sa, l'arbitrato è una forma di giustizia privata adottata di solito da soggetti forti, come le grandi imprese commerciali, che con esso intendono raggiungere una più rapida soluzione delle liti. Per questo, a tutela dei soggetti più deboli, il codice di procedura civile lo esclude in via di principio per tutte le controversie che abbiano ad oggetto diritti indisponibili, primi tra tutti i diritti dei lavoratori. La violazione dell'art.24 e dell'art.3 2^ comma della Costituzione da parte di questa legge è perciò clamorosa. Il diritto di agire in giudizio a tutela dei propri diritti, tanto più se indisponibili come quelli in materia di lavoro, è infatti un diritto fondamentale, inalienabile e a sua volta indisponibile. E non può certo una legge ordinaria consentirne la disponibilità per via contrattuale: che poi vuol dire avallare il ricatto cui i lavoratori possono essere sottoposti al momento del contratto.
Ma nella legge c'è una seconda aggressione al diritto di azione dei lavoratori stabilito dall'art.24 della Costituzione. L'art.32, 1^ comma, riduce «il controllo giudiziale» in tutti i casi in cui le leggi «contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso», limitandolo «esclusivamente all'accertamento del presupposto di legittimità» ed escludendolo dal «sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive» del datore di lavoro. Ora è chiaro che le violazioni dei diritti dei lavoratori riguardano, di solito, non tanto la forma, quanto il merito dei provvedimenti dei datori di lavoro; e che perciò questa singolare limitazione del ruolo del giudice e degli spazi della giurisdizione si risolve anch'essa in una generale limitazione, ovviamente incostituzionale, del diritto dei lavoratori di agire in giudizio a tutela dei loro diritti.
Non basta. L'art.32 2^ comma introduce, tramite un'altra limitazione del ruolo del giudice, un'ulteriore restrizione del diritto di azione del lavoratore: «nella qualificazione del contratto di lavoro e nell'interpretazione delle relative clausole il giudice non può discostarsi dalle valutazioni delle parti espresse in sede di certificazione dei contratti di lavoro di cui al titolo VIII del decreto legislativo del 10 settembre 2003, n.276... salvo il caso di erronea qualificazione del contratto, di vizi del consenso o di difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione». Il giudice, in breve, è vincolato a queste certificazioni rimesse alle speciali «commissioni di certificazione». Riemerge qui, in forme ancor più grottesche, una vecchia aspirazione del centro destra, che già in passato tentò di includere tra gli illeciti disciplinari l'interpretazione del giudice palesemente in contrasto con la lettera della legge. Ben più radicalmente, infatti, l'attività interpretativa del giudice viene ora preclusa dal fatto che queste certificazioni extra-giudiziali vengono dichiarate vincolanti, in aperto contrasto con l'art.101 della Costituzione secondo cui «i giudici sono soggetti soltanto alla legge». Se allora fu coltivata l'illusione che il giudice possa essere «bocca della legge», oggi si vorrebbe che egli fosse ridotto a «bocca delle certificazioni».
Domanda: come è possibile che di questo mostro giuridico, destinato, a me pare, a una sicura pronuncia di incostituzionalità, nessuno - né l'opposizione, né i sindacati - si sia accorto nei due anni della sua gestazione?

Il parere dei giuristi - da Il manifesto 11/3/2010

Una volta si diceva che nessuno può essere distolto dal suo giudice naturale stabilito per legge.


di Piergiovanni Alleva, Giovanni Naccari
Il lavoro al tempo del partito azienda
Siamo alla legge del Comitato d'affari.
Il «Cda» che ci governa ha deciso di festeggiare degnamente i quarant'anni della legge 533/1973 in materia di processo del lavoro, che fu considerata, non solo in Italia, come un modello di garantismo e di civiltà giuridica. Figura centrale di questa legge e del processo da essa istituito era un giudice specializzato, appunto il giudice del lavoro, dotato di incisivi poteri per la realizzazione, e non solo per l'affermazione astratta, dei diritti dei lavoratori. Questa legge viene ora manomessa con un provvedimento legislativo di riforma che ha un senso di classe nettissimo, come emerge dall'analisi già da noi svolta ne il manifesto del 04/03/10 e dall'impegnato articolo di Luigi Ferrajoli di due giorni fa.
Benservito ai «pontieri»
Sembra ora opportuna, e foriera di utili insegnamenti, qualche constatazione e riflessione. Innanzitutto sulle figure di comprimari e protagonisti di quest'operazione, della quale si può dire intanto che ha dato seccamente «il benservito» ad alcuni giuristi «pontieri» che, da posizioni asserite come «progressiste riformiste», hanno da tempo costantemente teorizzato un - malcelato ma evidente - abbassamento delle tutele, per perseguire la conclamata linea della «riduzione del danno».
Linea subalterna, rivelatasi sostanzialmente sintonica a quella neoliberista di smantellamento, da una parte, degli istituti d'intervento e di garanzia nel settore pubblico e, dall'altra, del sistema delle tutele nel rapporto di lavoro. Linea soprattutto fallimentare nel diritto, in economia e in politica, in Italia e nel mondo, come dimostrano gli esiti della crisi globale. Nel caso poi della controriforma in esame, gli esiti della linea sono stati particolarmente disastrosi, perché il «Cda» non ha concesso ai «pontieri» neanche le briciole.
Modernismo riformista
Diversa e coerente con le scelte politiche di cambio fronte sembra, invece, la funzione assunta dai protagonisti dell'operazione «compressione dei diritti». Essendo approdati alla destra berlusconiana da una nobile tradizione socialista, essi esercitano nella nuova direzione la loro capacità tecnica legislativa, e lo fanno con quella sottigliezza e con la dose di perfidia già evidenziate nel nostro precedente articolo. Ma ora, di fronte alle reazioni all'operazione, con la caratteristica tipica degli specializzati nei passaggi al fronte opposto non dominano l'impulso ad esaltare i benefici risultati della loro azione. Per essi - delegati dai dirigenti della destra alla tematica lavoristica - l'arbitrato d'equità sarebbe una «ulteriore opportunità» data ai lavoratori. È questo, davvero, il culmine del trasformismo dei concetti, perché la «clausola arbitrale», che ora potrà essere inserita nel contratto di lavoro autocertificato, esclude, una volta apposta, la possibilità di ricorso al giudice. Si tratta di una vera rinunzia al buio che il lavoratore dovrà sottoscrivere nel momento in cui verrà assunto. Calcolare la distanza siderale che separa i protagonisti socialisti della prima stagione di riforme nell'antico centrosinistra, da questi loro epigoni «sfumati» nell'«azzurro» del partito azienda, dà la misura del triste presente.
Le riforme possibili
Riforme del processo degne di questo nome si potevano pensare. Ben diverso sarebbe, ad esempio, se il ricorso all'arbitro, anziché al giudice, nascesse non dalla «clausola arbitrale» di cui sopra, ma da un «compromesso» cioè da un accordo intervenuto tra le parti dopo che è insorta la lite mentre il rapporto di lavoro è già in corso o è finito. In tal caso il lavoratore sarebbe libero di scegliere se andare dal giudice o invece scegliere, d'intesa con la controparte, di sottoporre la controversia a un arbitro. Non si tratta di tecnicismi, bensì di un fatto decisivo e discriminante. In realtà proposte di vera riforma della materia sono state avanzate a suo tempo, ad esempio, dalla Cgil e dalla sua Consulta giuridica; altresì dalla Commissione ministeriale presieduta da Raffaele Foglia. Il progetto della Commissione è stato ampiamente saccheggiato dai cattivi riformisti con lo stravolgimento di tutti i sui contenuti progressivi.
Vaniloqui sull'occupazione
S'impone ora una valutazione generale e conclusiva della legge varata. Di fronte alla gravità della crisi economico occupazionale, dopo i vaniloqui sulle politiche del lavoro e di difesa dell'occupazione sbandierate dalle autorità governative, sono seguite, adesso, le politiche effettive.
Il provvedimento legislativo in esame così le riassume: a) per i lavoratori: arretramento rilevante e complessivo di diritti e garanzie; svilimento della funzione della contrattazione e del sindacato; ridimensionamento della funzione imparziale e specializzata della giurisdizione; sbilanciamento normativo a favore della parte datoriale nei rapporti di lavoro e nelle relazioni sindacali; arroganti normative in contrasto con Costituzione, Carta di Nizza e importanti direttive della Ue. b) Per i datori: un messaggio dissuasivo a quelli consapevoli dell'importanza della responsabilità sociale d'impresa e del rispetto di corrette regole nell'autonomia collettiva; agli altri, un messaggio compiacente: si può abusare del lavoro dipendente e in particolare precario; l'abuso sarà difficilmente impugnabile; e anche nel peggiore dei casi lo scotto da pagare per chi abusa sarà limitatissimo.
Che fare?
La drammaticità di quanto sta accadendo implica una prima risposta di tipo giuridico, sotto il profilo sia del ricorso al referendum, sia del ricorso alla Corte costituzionale e alla Corte di giustizia Ue. Ma una seconda risposta deve essere una riflessione strategica della sinistra culturale, sindacale e politica, per una reazione a questo punto unitaria, urgente e proporzionata alla gravità della situazione. Noi, per quanto e per come possiamo, non ci sottrarremo né alla prima né alla seconda.

giovedì 11 marzo 2010

Si continua con le buone notizie

Che peccato dover in continuazione ricevere notizie devastanti dall'Italia. Non posso fare a meno di registrare anche questa, apparsa il 10 marzo sempre su Il Manifesto:

di Fr. Pi.
Al Quirinale sale per protestare solo la Federazione della sinistra
Sarà una piccola cosa, ma solo una formazione politica ha trovato indispensabile salire le scale del Quirinale per chiedere al Presidente della Repubblica di non controfirmare il «collegato al lavoro». La «legge che cancella le leggi», con cui il centrodestra ha portato un attacco senza precedenti alla condizione dei lavoratori italiani, imponendo procedure conciliative e arbitrato al posto del ricorso al tribunale del lavoro in caso di licenziamento. La Federazione della sinistra (Rifondazione comunista, Pdci, Socialismo 2000) - che invita a partecipare allo sciopero del 12 e a manifestare per portare nelle piazze anche il tema della difesa dell'art. 18 - è stata ricevuta dal presidente lunedì sera e ha potuto argomentare per esteso le ragioni della propria richiesta. «Abbiamo segnalato - spiega Paolo Ferrero, segretario del Prc - la manifesta incostituzionalità di questo provvedimento». Al di là delle formule giuridiche, infatti, «con questa legge ci sarebbe una parte della popolazione che, nello specifico del rapporto di lavoro, non gode più della tutela universale della legge e del magistrato». Viene insomma creata «una sorta di extraterritorialità, all'interno delle imprese, che trasforma tutti i lavoratori in clandestini senza diritti». Sul piano costituzionale, insomma, «si rompe il principio della legge uguale per tutti; è come se un comune decidesse - chessò - che nel suo territorio non c'è più la libertà di stampa».
Ma c'è anche un versante politico immediato. La Costituzione «registra l'esistenza di una disparità di potere, tra imprenditore e lavoratore, e decide di tutelare in diversi modi il più debole. Questa legge, invece, mette formalmente su un piano di parità le due figure, e quindi riconosce il diritto del più forte». Va infatti ricordato che, ad esempio, la «scelta» di ricorrere in futuro all'arbitrato viene fatta firmare al neoassunto al momento della sigla del contratto. Ovvero nel momento in cui è in assoluto più debole (quanti possono essere quelli che, specie in situazione di crisi come l'attuale, possono rinunciare a un'assunzione per tener fermo individualmente un principio che lo stato non riconosce più?). «Una volta fissato il principio della deroga alle leggi esistenti, questa può essere estesa a tutto, anche al salario». L'incontro, riferisce la delegazione, «è stato molto cordiale; abbiamo colto una forte attenzione e sensibilità alle nostre argomentazioni".

venerdì 5 marzo 2010

Fonte di questo post: www.ilmanifesto.it

Lo copio e incollo perchè tra una settimana non sarà più accessibile. Questo sarà il lavoro nell'Italia che ci stiamo costruendo. Il liberismo è l'unica ideologia ancora in grado di far danni, dice qualcuno.
Sottoscrivo.

Francesco Piccioni
Progresso italiano. Licenziamenti liberi, al lavoro a 15 anni
Zitti zitti, contando su un silenzio di tomba mediatico, politico e in buona misura anche sindacale, il governo ha messo a segno un altro duro colpo al lavoro dipendente. Un colpo che può diventare devastante perché consente alle imprese di aggirare completamente lo scoglio fin qui rappresentato dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Quello che impedisce a un datore di lavoro di licenziare «senza giusta causa»: ovvero senza colpe specifiche addebitabili al dipendente. Fin qui, in caso di «controversie» tra lavoratore e azienda, si potevano percorrere due strade: a) l’arbitrato, per i contenziosi meno problematici; b) il ricorso al giudice del lavoro in caso di licenziamento.

Con il decreto approvato con formula definitiva dal Senato il 3 marzo, invece, le aziende potranno imporre a ogni nuovo assunto di firmare ­ insieme al contratto di assunzione ­ un’«opzione preventiva» con cui il lavoratore «sceglie» di rinunciare alla via giudiziaria, accontentandosi del semplice «arbitrato». Ognuno di voi può immaginare la situazione: non trovi un lavoro stabile da anni, oppure la tua vecchia azienda è andata fallita da qualche mese. Ti capita di poter entrare in un nuovo posto; ti mettono davanti quel foglio in bianco da firmare, altrimenti puoi anche andartene. Quanti di voi troverebbero la forza di andarsene e via e rimettersi in cerca di un salario?

C’è anche un secondo modo, ancora più subdolo di importi «l’arbitrato». Nei contratti collettivi i sindacati potranno o no far inserire una formula analoga. Le imprese premono ovviamente perché sia inserita; i «sindacati complici» (Cisl, Uil, Ugl o chiunque altro sceglierà la controparte aziendale come «interlocutore privilegiato») saranno d’accordo. La Cgil si opporrà da lontano, perché intanto è stata esclusa dai tavoli di contrattazione (tranne le categorie più «disponibili» a un compromesso al ribasso). Et voilà! Nessuno o quasi potrà più far ricorso a un giudice per veder riconosciuto il proprio diritto a non essere licenziato. E’ vero, come dice Sacconi, che «l’art. 18 non è stato toccato». Semplicemente non potrà più essere applicato.

Ma non finisce qui. L’art. 52 del decreto stabilisce che i precari (o le finte partite Iva) che dovessero vedersi riconoscere dal giudice «la natura subordinata dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa», invece di essere assunti (come ora) verranno «liquidati» dall’azienda con un indennizzo variabile tra i 2,5 e i sei mesi di stipendio.

Non vi basta? Beh, se avete un figlio all’ultimo anno di scuola dell’obbligo (tra i 15 e i 16 anni, quindi) potrete tranquillamente spedirlo in fabbrica a fare «apprendistato». Varrà «come se» avesse studiato. Potrà dirsi «diplomato alla scuola della vita», come suo nonno.