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per gli scribi

Toulouse en érasmienne

sabato 27 settembre 2014

Ewa

Ebrea polacca comunista. Tutti i requisiti per garantirsi una vita facile e tranquilla nella prima metà del XX secolo in Europa, insomma. E infatti le vicissitudini di Ewa, nata nel 1909, erano cominciate presto. Non potendo studiare nel suo paese, era emigrata a Parigi, chiamata da un fratello trasferitosi già da diversi anni. Marie Curie arrivò a Parigi, qualche decennio prima, con una storia analoga.
A Parigi Ewa era entrata in una scuola di chimica, perché allora, si racconta nella sua famiglia, gli ebrei studiavano queste materie  per poter lavorare in tutto il mondo, ovunque fossero stati costretti a spostarsi dalle persecuzioni rifiorenti. L’ultima era stata dichiarata dalla Russia zarista nel 1905 all’incirca e si parva licet, secondo una (mia) ipotesi non verificata, avrebbe alla fine e dopo ben peggiori conseguenze, dato origine al cheese cake. Ma questa è un’altra storia, e per Ewa e la sua famiglia doveva essere stata una ragione di più per allontanarsi da una regione troppo vicina alla Russia e prepararsi a ogni evenienza. A Parigi, le “studentesse polacche” erano famose allora per avere una vita estremamente libera, vale a dire quella che oggi giudicheremmo normale. Lo racconta Eva Curie nella biografia di sua mamma, mentre Simone de Beauvoir scrive che l’espressione “studentessa polacca” era proverbiale per indicare una ragazza che usciva da sola, andava in giro la sera, frequentava ristoranti e bar senza chaperon. Come un essere umano, insomma…
Ewa raccontava incantata le sue serate con i compagni nei caffè della Montagne dove l’acqua si chiedeva al cameriere con un “De l’H2O, svp”, la dimensione di vita collettiva che aveva sperimentato, le passeggiate per la città, le mille libere discussioni, l’effervescenza culturale di una città capitale cosmopolita. Diplomatasi, aveva trovato immediatamente lavoro come direttrice di un laboratorio di chimica farmaceutica presso una ditta francese, il tutto, giova ricordarlo, negli anni Venti del XX secolo. Si era sposata e avevano avuto una bambina.
Poi arrivò la guerra, e soprattutto l’occupazione. Suo marito era lontano, sarebbe ritornato a casa molti anni dopo, avendo fatto il giro del mondo dietro alle vicende belliche. Erano venuti a cercarlo, un giorno. Non l'avevano trovato e se n'erano andati. "Per fortuna", diceva, "erano venuti solo a cercare un comunista. Fosse stato per cercare un ebreo, sarebbero rimasti." Militanti politici entrambi, rischiavano come tali, come ebrei e come abitanti di un paese occupato.  Lei si ritrovava sola, nella Parigi occupata dai nazisti tedeschi, con una bambina di pochi anni. Ewa mandò la bimba in Bretagna nella speranza che si salvasse. A quell’epoca molti ebrei si fecero passare per bretoni, perché i cognomi bretoni somigliano ai cognomi tedeschi. O almeno, nell’impotenza e nella paura, lo si voleva credere, perché i tedeschi ci misero poco a decifrare l’onomastica regionale. Rimase a Parigi. Ma come vivere? Passò quattro anni chiusa nella fabbrica di medicine, con la complicità dei suoi padroni, lavorando alle sue polveri e ai suoi dosaggi chimici, come sempre. Arrivò la Liberazione. E si salvò. Anche la bimba si salvò. Non tutti si salvarono. Diciassette morti nei lager nazisti contò la famiglia, più simpatici danni collaterali ad alcuni sopravvissuti all’Arbeit macht frei e ad altri variamente perseguitati e dispersi.
Nel frattempo Ewa si ritrovò senza documenti. Non era infatti tornata in Polonia, perdendo così la cittadinanza. Divenne apolide, con un documento delle Nazioni Unite che la dichiarava tale. Lei e suo marito, peraltro, erano entrambi convinti comunisti, il che per l’epoca e per il luogo significava senza mezzi termini stalinisti.  Si ricordano confusamente negli annali familiari terribili discussioni con i parenti polacchi venuti in visita quando tentavano di raccontare che non andava poi tutto così bene… e altre terribili discussioni in polacco inframmezzato da yiddish con i parenti emigrati in Israele, con valigie impacchettate di fretta quando il livello di dissenso sulle politiche interne di quel paese aveva raggiunto un punto che rendeva impossibile passare la notte sotto lo stesso tetto, a costo di passarla à la belle étoile…  perché nessuna scelta, al di là di quel che si vuol far credere, avveniva nel consenso generale e fuori da ogni contesto.
Quando andò in pensione Ewa partì per l’Italia dove aveva legami familiari. Allora la conobbi. Aveva già quasi cento anni, ma discutevamo reciprocamente incantate della politica francese negli anni’30, alla vittoria del Fronte popolare, che avrebbe creato in quel paese il welfare oggi così minacciato. Leggeva tre o quattro quotidiani al giorno e faceva disperare le sue badanti perché non compitavano l’italiano abbastanza bene. Ripassavamo la storia e la letteratura d’Europa in due lingue e mezza. Il suo francese era delizioso, con una ricchezza sintattica scomparsa nelle ultime generazioni. Le raccontavo i miei soggiorni francesi e i miei guai con i docenti italiani, cui lei suggeriva rimedi tutt’altro che banali. Mi invitava a cene che si aprivano rigorosamente con il potage, che amavamo entrambe, come le uova che spesso seguivano.  Non amava, salvo negli ultimissimi tempi, esssere toccata. Al bacio di commiato, spiegava, preferiva una stretta di mano. Fu all’origine di alcuni incontri in Francia che mi hanno permesso di continuare a passare lunghi periodi in quel paese. E chissà.

Erano arrivati i suoi 105 anni, e una lettera d’auguri firmata dal sindaco con bell’inchiostro verde.
Lei l’aveva sentita, l'aveva detto, ma nessuno l'aveva presa sul serio: il primo giorno d’autunno è arrivata anche, quasi nel sonno, la morte.
Ma qui ritorna il famoso ebreapolaccacomunista. Sì, all’inizio del nuovo secolo. Perché la sua famiglia avrebbe voluto cremarla, riunendone le ceneri a quelle del marito sepolto in Francia, anche lui cremato. Ma Ewa da apolide vive e apolide muore. E allora “non si può”.

“Non si può”, dicono i servizi cimiteriali romani: “Bisogna chiedere allo stato polacco.”
“Non possiamo, ripetono dall’Ambasciata, la signora non è più cittadina polacca.” Proviamo con la Francia?
 “Non si può, ribadiscono i Francesi, la signora non ha mai avuto la cittadinanza francese.” Bisogna rivolgersi all’autorità che ha emanato il documento da apolide.
“Noi inumiamo domani”, incalzano i servizi cimiteriali. 
“Ma…” 
“Noi inumiamo entro 24 ore.” 
“Stiamo cercando…” 
“Non si può. Noi inumiamo domani.” 
“Vorremmo…”
“Non si può.”


Shake hands, Ewa. Come dicevi tu.

martedì 16 settembre 2014

La zuppa del demonio

Questa favolosa espressione non è, purtroppo, mia, ma di Dino Buzzati. Lo scrittore chiama così la colata d’acciaio in fusione, ribollente nei nuovi altiforni installati nell’Italia contadina degli anni’50 (Il pianeta acciaio, 1964). E forse allude all’ambiguità di quella zuppa che gli operai recentemente inurbati,  installati in prossimità delle ciminiere che oscurano il cielo di fumi, possono versare nei loro piatti con gli stipendi ricevuti dai padroni dei grandi impianti industriali. 

La zuppa del demonio è un documentario di Davide Ferrario che si propone di indagare l’idea di progresso in Italia nella prima metà del Novecento, sino alla crisi petrolifera del 1973. La cosa più bella e interessante è la scelta del materiale di repertorio con cui è costruito, proveniente da vari archivi cinematografici del cinema d'impresa. Spesso sono reportage di scrittori e giornalisti noti, da Buzzati a Zavattini (più l’immancabile Pasolini: una tassa quando si trattano certe tematiche). Il commento del regista è quasi inesistente, poche parole recitate da una voce fuori campo. Tutta l’interpretazione è affidata a una scelta accurata dei materiali e al montaggio.

  Mi piace di questo film l’attenzione a una dimensione troppo assente e spesso falsata nel cinema: quella dei processi e dei luoghi di lavoro e di produzione. Le fabbriche sono indagate nella loro dimensione di strutture fisiche, nel loro inserimento nel contesto geografico e ambientale (la campagna, la spiaggia, la città), nella loro rappresentazione artistica (Dziga Vertov in primis), poi nelle persone che le fanno funzionare. Una delle sequenze più straordinarie, che da sola vale il biglietto, è l’uscita felice e gioiosa degli operai dalle officine di Mirafiori a Torino nel 1911. In splendido bianco e nero li si vede precipitarsi fuori dai cancelli, ma genialmente la macchina da presa non è piazzata davanti al cancello stesso, bensì perpendicolarmente, all’angolo dell’isolato. Alla sirena del mezzogiorno gli uomini corrono fuori ridenti, si precipitano, si abbracciano. Sono in tuta, camicia, cravatta. Poi escono i capetti, i futuri Quarantamila. Sono in completo, portano l’occhialino, la cravatta, la camicia bianca, la paglietta. Sigaretta all’angolo della bocca e sussiego. Ostentano distacco dalla fretta degli altri, camminano piano, in gruppo, e non li guardano mai. Perfetti.
Mussolini chiamato a inaugurare nel 1924 le nuove officine di Mirafiori e la FIAT chiamata a garantire l’assistenza meccanica con camion attrezzati all’uopo all’ARMIR durante l’invasione dell’URSS insieme all’esercito hitleriano. Fin qui la parte più riuscita, mentre il seguito del film, pur presentando materiale molto interessante – sulla pubblicità, l’arrivo dell’informatica e l’automazione della produzione, la costruzione di grandi infrastrutture come le dighe, dove ho creduto quasi di riconoscere le mie montagne, l'estrazione del petrolio, l’Olivetti – rimane troppo muto sulle reazioni che pur cominciano a manifestarsi in conseguenza di quel progresso. Antagonismo della natura, come nel caso della frana del Vajont, antagonismo di chi fa vivere la fabbrica, cioè gli operai, antagonismo di chi vede nello sviluppo industriale non normato la distruzione di ambiente e salute (quanto attuale quest’ultima!), antagonismo tra industrie e nazioni (Mattei). Tutto questo dal film scompare: sembra che le fabbriche, gli operai e i consumatori vivano sospesi in un limbo meccanico che non conosce altro. Ora, certo che di queste tematiche si è parlato molto di più, ma l’eliminarle completamente non giova alla comprensione dello scenario complessivo. Che si conclude con le “domeniche a piedi” del 1973 (“Che pace!” ricordava sempre mio nonno che ci aveva anche girato un filmino in superotto): una battuta d’arresto, peraltro molto temporanea, dovuta a una causa del tutto esterna e sovraordinata eppure, alla fin fine, come nei grandi sviluppi storici, la produzione delle macchine è continuata, vincente, sopra la testa e il pensiero di chiunque vi fosse coinvolto senza possederle. In Italia dagli anni’80 è arrivata la deindustrializzazione, a cominciare da quella avanzata, poi la delocalizzazione. Non sono più gli operai a passare per i giardini delle palazzine di Olivetti ma l’archivista che custodisce e riordina le testimonianze visive di un’epoca.    

La battuta indimenticabile arriva nell’intervista a due operai della FIAT. Domanda: “Avete trovato difficoltà nell’adattarvi al lavoro in fabbrica? Tempi, orari, movimenti, ambiente, controllati, rigidi?”. Risposta di un immigrato meridionale dal viso infantile, grande sorriso sotto i baffi e l’aria di chi la sa lunga: “No. Ti dico perché. E’ che io ho fatto il militare. E qui, faccio come se fossi sempre militare”.
 

Ah, quella sopra non è la zuppa del demonio, ma la mia zuppa estiva di fagioli freschi… o meglio ciò che ne resta, perché si sa, quel che viene al demonio ha anche la proprietà di scomparire quando più gli aggrada.