«...che sia una nuova patologia». Il chirurgo è un omone dall’aria allegra e soprattutto calda. Ci riceve di corsa e di straforo in ospedale, su raccomandazione di un amico d’infanzia del figlio del marito della mamma (santo subito) in una stanza molto contesa, tra squilli di colleghi che lo sollecitano: «Sì ieri sera ho operato ma stanotte avevo le ossa che mi facevano male», spiega che « questa ragazza » ha un polmone quasi fuori uso ma potrebbe trattarsi del ritorno di un’infezione precedente che le ha lasciato delle broncoectasie che potrebbero avere provocato un ammasso di muco scambiabile per una massa tumorale.
E quindi le dà una terapia che somiglia alla mia, per un mese, al termine delle quali va ripetuta una TAC con mezzo di contrasto.
Quando cerchiamo di pagarlo rifiuta categoricamente: «No, io non mescolo il privato con il pubblico», suscitandomi una risposta di approvazione incondizionata dato che è anche il mio lavoro, sia pure in un diretto settore e la penso esattamente come lui. Mi lancia un’occhiata e al momento dei saluti mi stringe la mano a lungo, con tutta la forza della sua stazza e del suo mestiere.
La mamma ci fa dannare per prendere le medicine perché lei sta benissimo e sono tutte nostre fissazioni, ma cercheremo di tenere duro.
La mia sensazione, anche se lui non vi fa mai cenno direttamente, è che una volta saputo di cosa soffre oltre al polmone, comunque non la opererebbe.
Tutto è rimandato al 13 febbraio.
Grazie a chi mi ha lasciato commenti affettuosi di sostegno che ci vogliono tutti, google, di cui sono sempre più stufa, complica tuttora rispondere: lo faccio qui.
Per ora cerco di coccolare un po’ la mamma, senza pensare al dopo.