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Toulouse en érasmienne

sabato 30 ottobre 2021

Il groppo

 Risveglio nel cuore della notte. Fremito di paura. No, non ho sentito rumori sospetti, anzi sta cominciando a piovere e lo fa sul tetto di metallo delle case parigine. Un fruscio rassicurante sempre e senz’altro nei primi tempi che ero in questa casa.

Eppure sale la paura. Niente di incontrollabile, ma è pur sempre come sentirsi afferrati in uno strano luogo tra il petto e lo stomaco da una contrazione incomprensibile. Orami accade tutte le notti. E’ una novità, mai sofferto di roba del genere, prima. La mente si agita in cerca di una via di fuga. Ma non ne vede. Il giorno purtroppo non va meglio. Sempre attaccata a internet, per ore e ore, senza arrivare da nessuna parte, senza fare quel che vorrei. Senza alcun visibile vantaggio, salvo forse soffocare l’invisibile, qualcosa di vischioso che mi trattiene per i piedi e mi blocca l’anima.

Ho incontrato infine la padrona di casa. Le ho fatto i complimenti per il monolocale. Viene fuori che è italiana, dopo che abbiamo parlato più di un’ora e solo perché ci scambiamo i numeri di telefono. Non aveva capito che lo fossi, il che mi lusinga. Lei è arrivata qui dalla provincia, a diciotto anni dopo la maturità. Voleva studiare qualcosa che in Italia avrebbe richiesto altri punti di partenza. 

Fu suo padre a incoraggiarla a partire, già negli anni ‘80. Qui ha avuto una carriera rispettabile, ha incontrato e studiato con i grandi del mestiere e le loro scuole. Ha voluto e avuto una famiglia, almeno due case in un quartiere da sogno anche se non chic come altri, ma per come siamo fatte, non ce ne interessa poi così tanto, dello chic. Si, comodo, ma anche obligeant, un po’ di bohème allarga i polmoni e apre più orizzonti, alla fin fine. 

I genitori le comprarono il monolocale dove sono adesso io, appena arrivata. Studiare così, a queste condizioni, in pieno centro, con un bello spazio. Andare fuori stabilmente, non come l’elastico cui sono stata sottoposta io.  Costruirsi la propria vita in una città stimolante come poche. Una città dove le cose accadono, si evolvono. Dove si costruisce, si guarda, si pensa a come modellare il futuro. Parigi è questo. Qualcosa di vivo, in movimento. Effervescenza scientifica, culturale, artistica, economica. Roma è immobile. L’Italia è immobile.

Né lei né io sopportavamo l’Italia. Impossibile aderire a quel mondo chiuso, sottomesso. Le persone come le strade ci apparivano soffocanti. Mai avremmo potuto trovarci bene. La sua famiglia però aveva i mezzi per comprarle una casa in un luogo che la facesse sentire realmente parte di questo posto. Mia mamma, al di là di tutte le sue volontà, non l’avrebbe mai avuto. E questa differenza negli anni ‘80 ci sarebbe già stata. La Francia fino a Sarkozy - Macron era un paese che dava futuro e che queste differenze permetteva di superarle. L’Italia lo è stata per un brevissimo periodo. La mia nonna, anche lei figlia di una madre sola, perché era sposata ma il marito era fuggito chissà dove lasciando la moglie con tre figlie sulle braccia, crebbe con i geloni in affitto su una casa di ringhiera, peraltro nel centro di Milano. Con mio nonno finirono con il possedere quattro appartamenti, certo non in centro città. Ma i figli già incontrarono difficoltà a trovare un lavoro. Le uniche che se la cavarono furono le mezzane: tutt’e due dipendenti pubblici, una insegnante, l’altra impiegata credo come quadro. L’ultimo si becco’ in pieno la disoccupazione degli anni ‘80. Dei quattro nipoti, una è emigrata, l’altra vorrebbe farlo e ha avuto una carriera frustrante e una vita sempre faticosa. Un altro ha dovuto chiudere un’attività aperta con passione, con successo - e con tutti i risparmi di una delle zie di cui sopra, il cui marito divenne anch’egli uccel di bosco, perché i capitali vanno solo a chi già ne ha, aiuti UE alle piccole imprese inclusi - e oggi vive con il RDC. L’ultimo anche lui con un diploma specializzato, ha visto chiudere e smantellare il suo settore e vive facendo consegne, abitando insieme al padre. Se due di noi hanno una casa, lo devono a quanto hanno potuto accumulare i nonni. In Francia no. 

Purtroppo nella mia famiglia sono mancati i mezzi, relazionali e economici, per dirmi vai a diciotto anni. Vivere nascosti e protetti, non uscire dal nido: o anche uscirne, ma per tornare indietro alla fine della giornata, della vacanza. Altro sarebbe stato inconcepibile. L’estero non era un orizzonte. Aspettare non si sa cosa « lasciamo che passi questo momento » era la grande risposta di mia madre ogni volta che bisognava prendere una decisione. E io che pensavo si trattasse di qualcosa di grave che non sapevo, smettevo di insistere. Invece non era nessun momento. Era rimandare e respingere il pensiero della scelta. Oppure, i soldi. Non spendere soldi. A lungo ho pensato che i suoi rinvii celassero il segreto desiderio di affrontare tutto ciò insieme a mio padre, il giorno del mai del mese del poi in cui si fosse deciso a lasciare sua moglie come (poveretta, pure lei), come mille volte promesso.

In realtà probabilmente non era così, o almeno non era solo così. Mia madre è stata probabilmente una donna angosciata da mille paure che razionalmente ha tentato di non trasmettermi, ma che devono essere passate per altre vie. Paura degli animali, ad esempio, e per non trasmetterla mi portava da bambina tutte le domeniche allo zoo. Bellissimo, per me, ma la familiarità fisica con un essere vivente di un’altra specie mi è ignota e oggi di fatto neanche la vorrei. O forse vorrei un cavallo. In realtà mi sarebbe sempre piaciuto un elefante. Il cavallo è un ripiego. L’idea di giocare con la sua grossa mole e soprattutto di farmi sollevare avvolta nella proboscide mi ha sempre divertito. Io, comunque, cose economiche, mai. Non voglio darmi delle arie: non mi interessano proprio. Anzi, nemmeno le vedo, tendenzialmente.

Paura di guidare, e per anni mi ha catechizzato con la tiritera del si può vivere anche senza macchina, riconducendo la scelta a qualcosa di vagamente pasoliniano - lei peraltro non amava questo autore e per ragioni più che condivisibili, il suo moralismo, il suo compiacimento morboso per gli ambienti degradati.  Dati i pochi interdetti che mi poneva, tendevo a ricondurli a ragioni importanti, pur se per me incomprensibili in quanto bambina. Raramente insistevo. Mentre in me si radicava la necessità di una automobile, perché i viaggi che avrei amato fare con i mezzi pubblici erano impossibili, con buona pace dei greenismi oggi alla moda, e poi perché in città non hanno mai funzionato. Impossibile dimenticare le attese infinite per tornare da scuola e arrivare a casa spossata, o per andare il pomeriggio a fare attività di qualsiasi tipo, che finivo con l’evitare per non doverli più prendere, lenti, carichi, scomodi.

Nel frattempo arrivati a oggi, a questi ultimi giorni, da ormai tre settimane, non riesco a fare più nulla di studio, men che meno di scrittura. Nessuno mi obbligherebbe a fare certe cose peraltro. Ma vorrei farle. Solo, non ci riesco. Ho provato a riposarmi, a distrarmi, a prendere delle mini vacanze di qualche giorno facendo altro.

Non è servito. Finisco con il passare tutto il giorno in casa davanti allo schermo, cercando non so cosa, perdendo anche il tempo di fare cose che pure m’interessano e vorrei. E’ come se cercassi di riacchiappare qualcosa ancora e ancora, dietro quello schermo. Qualcosa che non so. Un sésame. Una chiave di una porta segreta. Acciuffare il vento che passa. Insensato, inspiegabile, insaisissable. Non capisco cosa sia, cosa possa essere, né quali siano i suoi pregi. In realtà è come qualcosa di vischioso che acchiappa me, inverte il giorno e la notte, mi sprofonda in un’esplorazione, in un tentativo di apprendimento che non esiste, che non mi serve, che non mi rappresenta, non mi soddisfa. E che non voglio. La vischiosità, la permanenza di qualche cosa. Questa è l’immagine che riesco a darne ora. So che è stupido buttare così, per qualcosa che potrei fare ovunque e in qualsiasi momento, gli ultimi mesi in questa città e in questa amatissima casa. Ma non è una scelta volontaria, ovviamente. 

È come se mi mancasse una misura, la misura. Il ritmo. Come se l’avessi perduto. Paura di qualcosa che possa sorgere di colpo dall’ignoto? Ma quale ignoto, dio mio? Retaggio personale, familiare? Non c’è nell’esterno, qui, un pericolo. Ci sarebbe al contrario sia pur con mille economie, la possibilità di gestirsi liberamente le giornate. Che sia quello che sotto sotto mi fa paura? Sfiora un interdetto inconsapevole? Vado contro mia madre? E contro i suoi interdetti inespressi? 

C’è un pericolo non fisico e non immediato in Italia, se non riuscirò ad andarmene. Ma perché riverberarlo sugli ultimi momenti di libertà, di gioia, di soddisfazione, di piacere, per autodistruggermeli? Perché allontanare la riuscita, concludendo i lavori che ho cominciato, per vedere aprirsi un futuro su una realizzazione, non su un incompiuto da rimandare in eterno? Da rimandare come il famoso « lasciamo che passi questo momento »? Non uscire dall’ordine materno?

Guardo la posta istituzionale, belle parole e volontà ossessiva dell’amministrazione. Nausea.

Guardo la casella personale. Silenzio da dove vorrei andare, nessuna risposta ai solleciti da parte mia che chiedo notizie. Nessuna risposta. Ansia. 

Da dove questo impulso incomprensibile di attaccarsi a internet per giornate intere? Bisogno di controllare l’esterno rinchiudendolo attraverso uno schermo, allontanandolo, a causa di un’angoscia interna delle cui cause sono inconsapevole? 

Ricerca almeno di un limite. Che non mi soffochi tutto il giorno. Non mi divori la bellezza.

Poi di notte, di colpo, il risveglio. Notte dopo notte. La paura forma un groppo in petto. Un brivido mi scuote. Controllabile quanto inspiegabile. Mai provato, prima.

Non capisco cosa mi sta succedendo.

giovedì 28 ottobre 2021

Sdegno rabbia dispetto spavento

 Girare li sento e fanno impazzire le giornate.

Credo di star a tal punto soffocando nella rabbia da non riuscire più a vivere nient’altro. Quel che peggiora le cose è la sensazione di solitudine assoluta in cui affronto la situazione lavorativa che somiglia sempre più a una prigione. Anche se fisicamente non me ne rendo conto, la rabbia per le scelte devastatrici dell’amministrazione è a un tale livello da imprigionarmi in un tale viluppo di ansia incompresa, inespressa e inesprimibile, soprattutto irrisolvibile, che per tenerla in qualche modo sotto controllo mi aggrappo all’iPad e ci passo le giornate sopra, in internet, cercando non si sa che.

Il che è stupido. Uscissi almeno e mi godessi Parigi, dove ieri c’era un sole favoloso e dolce - da agosto a ottobre sono i suoi mesi più belli. Le stagioni le hanno definite i Celti: qui il 1 agosto iniziava l’autunno, lontani ormai dalla mezza estate, il 1 novembre l’inverno, e infatti l’aria cambia, e il 1 febbraio la primavera, che è sempre fredda e bagnata, ma a maggio poi arriva l’estate e le sue infinite sere luminose. E mentre da noi, più vicini all’equatore, queste stagioni si confondono molto di più, qui restano quasi sempre molto leggibili e chiare. Io amo questo paese e questa latitudine. E l’altro ieri ho fatto la sera una lunga pacificante passeggiata lungo la Senna, da Hôtel de Ville alla Tour Eiffel e ritorno, in quell’aria a un tempo umida e calda che qui arriva dopo o prima delle giornate di pioggia. 

Ma il guaio è il giorno. Non riesco a combinare nulla, mi angustio, apro gli occhi con l’idea di mettermi sul lavoro, ne ho persino voglia, un piccolo esserino attivo e allegro si stiracchia dentro di me, sorride e non vede l’ora. Poi arriva un’enorme onda nera, mi travolge nella sua confusione, e non lo faccio. Divento un pesce che boccheggia nel suo ricciolo, ma non vede più la luce né il fondo del mare. Sommersa, svogliata, stanca. Bloccata. Scrivo qualcosa che mi riporta là, per questo inane tentativo di opporci a ciò che stanno facendo, sbircio ancora e ancora la posta da cui dovrebbero arrivare notizie dello spostamento, non trovo nulla, ed è fatta. Finita, la giornata passa attaccata a internet, senza uscire di casa, con qualche lavoretto domestico. E non capisco perché. Assurdo sprecare gli ultimi mesi che potro’ passare qui così. Buttando via, oltretutto, i tanti lavori intrapresi con slancio, curiosità e gioia e che questi ultimi mesi e settimane dovevano servire a chiudere, dandogli forma compiuta, permettendo un distacco che non fosse ahimé solo una perdita.

Almeno me li godessi passeggiando gli ultimi giorni, andando in uno dei tanti musei che ancora non ho visto, facendo una gita in uno dei tanti castelli di queste meravigliose campagne. 

Invece no: casa, internet, carboidrati. Perdita degli scarichi e l’agenzia che non manda l’idraulico.

Insomma: stress.

E furia. Soprattutto furia. Perché, come dicevo, ho la sensazione di essere sola a oppormi a forze soverchianti. Ora, lo so benissimo che quanto viene fatto non è diretto contro di me, né contro una persona in particolare, nemmeno contro cio’ che come gruppo siamo. E’ diretto contro i “costi” che la nostra area rappresenterebbe ad occhi profondamente incolti e ignoranti, perché ormai il criterio di valutazione del servizio pubblico è diventato questo, da quando la linea guida è il trattato di Maastricht, cioè la libera concorrenza anche nel settore pubblico, e l’idea di fondo di questa politica è che esso vada tagliato e smantellato finché non sia necessario appaltarlo alle sacrosante aziende per mancanza di risorse e personale, ma per farlo le prestazioni che dà vanno tagliate abbastanza da diventare redditizio per chi lo prenderà in appalto, perché quello che dovrà fornire sarà ridotto a un punto tale da costargli poco e permettergli un livello di profitti tale da soddisfarlo. E’ esattamente quello che sta venendo fatto con le pensioni (anche questo fa parte delle richieste della Commissione UE cui adempiere entro dicembre e Draghi ci sta lavorando, con i media al fianco mentre tutti strillano di vaccinazioni e altre amenità di distrazione). Ma un servizio pubblico non può e non deve essere redditizio come primo scopo: deve portare un beneficio di lungo termine alla popolazione, perché appunto è tutto fuorché un’azienda e soprattutto non deve esserlo. Deve migliorare le condizioni di vita delle persone, anche essendo in perdita a livello immediato se del caso, non fruttare quattrini a un gruppo economico-sociale preciso. E non dovrebbe venire meno alla Costituzione, che prevede pensioni dignitose e rimozione degli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana. Cosa quest’ultima che appunto il servizio pubblico puo’ e deve garantire. 

E’ questo il suo modo di essere redditizio.

Ma di questo ho scritto tante volte e si sa, chi non ha orecchi non intenderà mai né vorrà farlo né vorrà soprattutto saperlo.

Quello di cui non riesco a scrivere è la rabbia di sentirsi prigioniera che sfocia in angoscia e in ansia. Perché potrebbe essere quello a bloccarmi le giornate. 

Sul lavoro... mi fanno ridere quelli che straparlano di “presenza fisica” che sola può sviluppare la solidarietà. L’ilarità che suscitano la batte solo quella riservabile ai sindacati, che hanno firmato il nostro smantellamento con l’amministrazione e ora lo propagandano come un progresso e arrivano a imporre la loro decisione anche ai rappresentanti di categoria nazionali. Di solidarietà tra noi ce n’è ben poca, ci sono quelli che di questo taglio hanno fatto base per la propria carriera e si agitano perché non va abbastanza svelto, ci sono le legioni di indifferenti, ci sono i pavidi, ci sono quelli che si’ capiscono, al limite solidarizzano pure, ma ormai hanno tirato i remi in barca e lavorano solo per sé stessi, perché hanno più chance di farcela anche se sempre poche. Ci soprattutto i caduti dal pero, e sono così tanti ma così tanti che è un miracolo come tutti i peri d’Italia non si siano ancora spezzati sotto tale carico.

E questa cosa dio sa perché mi ammazza. Vedere con chiarezza la direzione che l’amministrazione sta prendendo e ritrovarsi a fare la Cassandra. Imprigionata e inascoltata, salvo poi cadere dal pero perché quel che prevedevo si è toh! verificato. Lottare per lasciare con dolore un posto che vorrei solo veder fiorire, perché ci sono le potenzialità e un solido sostrato e meriterebbe di essere tenuto con la dignità che gli spetta. Il solo vantaggio di questo furor demolitorio della dirigenza è avermi almeno tolto i sensi di colpa per la voglia di scappare, ma il dolore di veder distruggere una struttura costruita in lunghi decenni con sapienza, intelligenza e cultura e che sarà saccheggiata e uccisa non finisce, non scompare ancora, malgrado tutto, non riesce a uccidere il desiderio di darle un destino diverso. Sarà che per me le cose hanno un’anima anch’esse, la loro distruzione non si abbatte su entità prive di sensi, di senso e di dolore.

Se penso alla fuga, le cose non vanno meglio: penso che potrei trovarmi bene dove andrei, non benissimo perché il lavoro che davvero vorrei fare è già preso da altre due persone di cui una più anziana ma l’altra coetanea, quindi me la dovrei sciroppare fino alla pensione e non è detto che mi assegnino a quel servizio. Ma ormai posso anche starci, almeno spero, a non fare mai remunerata quel che avrei voluto e studiato. In questo momento sono così stanca di lottare e faticare che vorrei tranquillità. Soprattutto tranquillità, ma una situazione indegna come Roma non me la puo’ dare. 

Quel che mi angoscia sono i prezzi degli alloggi là dove vorrei andare, l’idea che non troverò mai un luogo dove posare, luminoso, bello, comodo, asciutto, silenzioso, con un ingresso, due stanze, una cucina vera, un bagno, una vasca da bagno, un terrazzo assolato, il riscaldamento non elettrico e davanti il verde e magari se ci fosse il mare. A distanza di passeggiata dall’ufficio. Come chiedere la luna. 

Davvero dobbiamo pensare che sia troppo? Che non rientri nell’esistenza libera e dignitosa?



 

martedì 26 ottobre 2021

La situazione è anche peggio di quel che avevo previsto

 Se non fossi un dipendente pubblico oggi avrei vissuto la stessa cosa che hanno vissuto i dipendenti della GKN, della Whirlpool, dell’Alitalia, del Monte dei Paschi di Siena o del Sole24Ore, per non citare che i più recenti.

Alcuni di loro peraltro complici delle politiche che hanno portato a questo disastro. Per non averle denunciate. Per averle propagandate. Per aver sostenuto chi li aveva portati sull’orlo del baratro e oltre.

Nella mia amministrazione i ritmi di smantellamento si accelerano.

Qualsiasi spiraglio di soddisfazione professionale, se ancora l’amarezza e l’impotenza ce ne avessero lasciati, viene spento dall’alto in una politica il cui unico senso è tagliare, probabilmente poi per esternalizzare.

Io non malediro’ mai abbastanza gli artefici di questa demolizione dei servizi pubblici da Prodi in poi. Con la UE dietro a incalzare perché i servizi pubblici devon aprirsi alla concorrenza, e perché come scrisse la BCE bisogna diminuire i salari dei dipendenti pubblici, e loro, da Prodi in poi in perfetta consonanza bipartisan, vili o interessati, chini a obbedire al bastone del capo.

Mai mai mai ci saranno parole sufficienti.

 Stiamo vivendo la cosa più vicina a un licenziamento e a un taglio del salario che si possa vivere nella pubblica amministrazione, almeno con la normativa attuale. Ma con Draghi, Franco e Brunetta si può solo migliorare.

La cosa più straziante è che non ti lasciano andare.

Ti disprezzano, ti degradano, ti impoveriscono, ti avviliscono. Ti mostrano ad ogni istante e con ogni gesto che non gli servi, che di cio’ che sei e che sai, perché ti sei dato da fare tu per imparare, non certo loro per formarti, non sanno che farsene, che sei un peso, un costo, un problema.

Quando non ne puoi più vuoi almeno l’onore delle armi e per come sono fatta io, questo può voler dire solo andarsene, per poter continuare a respirare, forse a vivere.

Ma gli servi cosi’: schiavo e incatenato.

Ora, io lo so bene che in queste situazioni mi uccido. Sentirmi bloccata là dove non voglio stare perché è una situazione cui è impossibile aderire e ogni trattativa è spenta, per me è impossibile.

Je peux pas.

Voglio il divorzio e essendo il coniuge più debole, ovviamente con gli alimenti (cioè non posso licenziarmi).

Vediamo se cosi’ è più chiaro.

Vorrei poter passare il tempo facendo altro che architettare piani di fuga. Sarebbe più proficuo per tutti. Il mio primo, bravo, intelligente capo, fuori Roma, lo diceva sempre: “Non si tiene nessuno con la forza”. Appunto.

Chissà se fossi rimasta là cosa sarebbe successo. Mi proposero di tornare. Per varie ragioni, tornai. Altra vita, altri tempi, altre prospettive, altro tutto.

Ora è necessario ripartire, ripercorrere almeno in parte la strada dei miei avi, riavvicinarsi a luoghi più cari al mio cuore, se pure non alla mia anima, che è e resterà per sempre qui, nell’Hexagone amato. E dove non riesco a godermi neppure questi ultimi mesi, tanto sono presa dal fango del borgo selvaggio che schizza fin quassù, ai piedi del Louvre.  


giovedì 21 ottobre 2021

Insonnia, crainte

 Una strana insonnia agita queste ultime notti di mondo.



La luna piena viene a trovarmi e io sono felice a bocca aperta a guardarla. Tornavo a casa l’altro ieri sera mentre si affacciava di fianco a Notre Dame, grande, pulita e luminosa.
Sto vivendo un periodo di ansia e di terrore come mai mi è capitato.
Perdere la Francia è già qualcosa di più che sufficiente a schiantarmi l’anima e ogni equilibrio. Ma è come se su questo si fossero incrostati o sbucati fuori fantasmi fantasie e paure indomabili quanto più ignorati. Ne risulta una sorta di paralisi, come se fossi attanagliata da un mostro di Andromeda, e io legata e immobilizzata dalla mia stessa paura rimanessi a guardarlo avvicinarsi senza essere capace di connettere a sufficienza per strapparmi al terrore o almeno organizzare la più piccola reazione. No, Pegaso non esiste e Persée è una gran bella invenzione, ma non mi soccorrerà qui.
 
Se provo ad analizzare la cosa, l’elemento più reale appaiono i legami che mi si affondano nella carne delle braccia, che mi imprigionano come un viluppo simile a una tela di ragno, a una rete soffocante.
Posso avvicinarli solo alla sensazione di imprigionamento che soffro sul lavoro, dove ogni possibilità di realizzazione mi è stata impedita, ogni possibilità di azione frustrata, ma dove anche la fuga, una volta chiara l’impotenza di lungo termine di quella situazione, viene proibita da color che hanno contribuito, con lassismo prima e con determinata demolizione poi, a rendere professionalmente folle quanto facciamo.
Io non sono capace di sottomettermi a qualcosa cui non posso aderire senza uccidermi con un autolesionismo o l’altro. Ne La princesse de Montpensier, il film di Bertrand Tavernier, una nobildonna consiglia dolcemente alla figlia di accettare il cambiamento di un progetto matrimoniale già fissato in nome dei suoi doveri. « Soumettez-vous »: il ruolo di custodi dell’ordine domestico e della docilità femminile giocato dalle madri si palesa a chiare lettere nel discorso tenuto alla figlia. Che si sottomette senza poter dimenticare chi è né cosa desidera, e malgrado tutti i suoi tentativi e le sue buone intenzioni, finirà per distruggersi di dolore.

D’altra parte, tentare di partire non è cosa facile. Dove vorrei andare il problema dell’alloggio è fortissimo e mi angustia quotidianamente con la possibilità di non farcela. Coabitare no, basta, non sono una ragazzina appena uscita di casa; e di questi tempi poi. Peraltro a Roma come a Milano, conosco persone sole e in teoria indipendenti costrette a farlo: un collega, un amico ex quadro in pensione. Gente con un reddito sicuro, insomma, ma che non puo’ permettersi né di comprare né di affittare una casa in una grande città, neppure in periferia. 
Due giorni fa ho passato al setaccio il sito del comune del luogo sognato. Ed eccole finalmente le case a un prezzo possibile: da tre a cinquecento euro per due o tre stanze, un ingresso, una cucina vera, un bagno vero e un pezzetto di balcone. Peccato che fossero ventinove (!), assegnate nel 2018, e richiedessero una serie di requisiti che io non avrò mai. Non solo: per chi li ha, pagare quelle cifre di affitto sarebbe altrettanto difficile quanto è per me farlo sul mercato immobiliare dove le prime cose decenti, peraltro più piccole e rimediate, partono da settecentocinquanta. Quello che basta a fare la differenza: si’ quei duecento euro e rotti in più. Che in assoluto non sarebbero tanti, ma rappresentano una frattura, un fosso impossibile da saltare, anche con un lavoro considerato sicuro e con un salario che non è dei peggiori in Italia, ma che ugualmente non permette di vivere in libertà e dignità.
Quante volte mi sono ritrovata nella vita a due dita da quello che avrebbe fatto la differenza fra arrangiarsi e rilassarsi, pensare ad altro che alle angustie, lavorare a cuor leggero. Altrettante volte quell’apparentemente piccolo passo non è stato possibile compierlo, quella frontiera non ho potuto passarla, mancava sempre qualcosa, così poco, ma qualcosa.
Leggendo la descrizione di quelle case di fatto modeste e comunque già assegnate, mi sentivo quasi in torto a indugiare su quelle che avevano tre stanze anziché due e nel pensare che certo, una stanza in più avrebbe fatto comodo, ma no, era meglio lasciarla a una famiglia più numerosa. Si riaffaccia il ricordo de Le immagini del mondo dei vinti, là dove racconta che quando moriva una gallina i contadini del Piemonte preferivano buttarla piuttosto che commetter il peccato di gola, abituarsi al gusto. Fino a che punto ci hanno tolto la coscienza della decenza? Tre stanze non sono un palazzo, non sono fasto, non sono uno spreco, specialmente se hai dei libri e in casa scrivi e leggi, o anche solo hai un hobby: erano la norma pochi lustri fa. Eppure oggi sembra fuori luogo persino desiderarle.

E così è per tutto. Anche lasciando perdere i miei gusti costosi, per cui quando vedo una vetrina le sole cose che attirano la mia attenzione partono da quattrocento euro, somma impensabile, ragion per cui ormai compro solo, quando capita e se capita, nell’usato dei mercatini, diventato peraltro triste e sintetico pure lui in questi ultimi anni, perché tanto vale non buttare denaro in ciò che non mi convince, oppure non compro e mi tengo quel che ho fuori di ogni moda e livello di uso, per le spese incomprimibili, quelle che devi fare per forza, il salario oggi non ci arriva. O se ci arriva, lavori per quello e per le bollette, sperando di non aver bisogno di cure. Nient’altro. Non parlo nemmeno di passatempi culturali o creativi: l’opera, il teatro, la pratica artistica, nemmeno sportiva. Stiamo tornando indietro di un secolo, e ancora ci stressiamo con i pretesi consumi eccessivi, egoisti e incompatibili con la salute del pianeta. Ma di chi e dove, bisognerebbe chiedersi, invece di andare dietro alle chiacchiere alla moda.    


 


giovedì 14 ottobre 2021

Quando le beghe soffocano la più bella delle giornate

 Quando.

La domanda da presentare mi ha causato qualche problema di compilazione e è andata per le lunghe, dato il mio terrore ad affrontare burocrazia e informatica congiunte che mi ha sempre provocato fughe autolesioniste. Dopo due andirivieni a distanza di una notte con il centro stampa all’angolo della traversa, notte passata cercando di capire se avrei potuto permettermi un affitto nel luogo dove vorrei spostarmi (risposta: se guardano la mia busta paga e non vogliono superare il terzo probabilmente NO)  ho inviato il tutto, altra cosa angosciosissima dio sa perché, e non mi resta che attendere.

Avviluppata in sensazioni contrastanti giacché, se alcuni personaggi e dirigenti vorrei escluderli dalla mia vita à jamais, per altri nutro invece sentimenti ben diversi: non sul piano personale, sia chiaro, ma professionale. Hanno tentato di aiutarmi, prestandomi ascolto dopo che ho gridato nel deserto per un lustro buono, o almeno di prendere in mano una situazione che, non per mia colpa, anzi mio malgrado, è stata lasciata degradarsi per anni in modo inverecondo. Hanno tentato di aiutarmi, e saranno loro, dato il ruolo ricoperto, a prendere in faccia la mia partenza e a classificarmi tra le rompiscatole che non sanno cosa vogliono. Mi dispiace e mi sento in colpa. Ma sulla cosa principale singolarmente possono fare poco, su quelle pratiche sono troppo lontani, e io in quell’istituzione non voglio più stare neanche se mi facessero papessa. Giocare alla deflazione salariale sulle spalle dei più deboli, distruggere un servizio e non posso dire di più, per la propria miope e rivendicata ignoranza: questo non dipende da loro, ma da scelte più in alto. Sono quelle ad aver creato un inferno là dove c’era  un luogo disagevole ma recuperabile, e recuperabile proprio perché c’era qualcuno dotato di fantasia, capace di ideare e progettare, preparato, altamente qualificato e non indolente e lo stesso dicasi del servizio nel suo complesso. Ma quello che si percepisce è la chiara smania di licenziarci, magari con il pretesto dei giovani disoccupati che toh! per caso, ma proprio per caso, eh - costano meno. Siccome ancora non si può (ma si può sempre contare sull’amato Draghi in prospettiva), tanto vale lasciarci marcire nel posto dove siamo, concentrando tutte le risorse disponibili su altro, e con noi quanto ci è stato affidato. In un servizio pubblico, per una perversa distorsione mentale che riporta alla peggiore mentalità aziendalista volta al profitto, cioè all’antitesi del servizio e del pubblico, siamo un costo, e la spesa corrente dei nostri salari è il male.

Ma non finisce qui.

Per quest’ultimo anno di Francia ho per la prima volta una casina, anzi un monolocale, che adoro, in una posizione favolosa, molto modesto, ma pieno di sole e di luce e relativamente caldo. Avrei voluto restarci fino all’ultimo giorno, ma l’agenzia ha furbescamente giocato sulle date, e quando oggi dopo un mese e mezzo dalla mia prima domanda di prolungamento ho insistito per una risposta definitiva, mi hanno detto che era stato già affittato. Non mi piace neanche questo, e ora ho il problema di dove andare a dicembre. Di sicuro dovrò spostarmi più in periferia, e la cosa non mi garba affatto. Vivere qui è stato avere tutto sottomano, stancarmi di meno, essere circondata di bellezza; e ci voleva, sapendo che sto abbandonando tutto questo per sempre, per soffocarmi nella parte dell’abate Galiani, non per il capriccio di un sire, ma con le mie stesse mani se voglio avere da mangiare - e non molto di più, data l’esiguità dei contributi che quindici anni di compensi cococo dovuti all’amato Prodi hanno creato nella mia pensione - in futuro.

Per gli ultimi decenni della mia vita lavorativa sto tentando di costruirmi una condizione almeno sopportabile, dopo che la carriera mi è stata distrutta per la terza volta, e il salario con essa e il riscatto dei quindici anni a cococo idem. (Grazie, ma grazie grazie, amato Prodi.)

Avrei voluto passare insomma fino all’ultima settimana in un posto che è difficile dire bello, tanto è modesto (per dire, non c’è nemmeno una porta, ma solo una -bella- tenda, tra il bagno e lo spazio cucina che a sua volta è aperto sulla cameretta), ma che di sicuro di bellezza è circondato e che a me, che a Roma vivo senza mai vedere il sole, perché in ufficio non sumus digni, noi che ci viviamo dentro, di avere una stanza dove esso si affacci, quelle sono per chi, lui, si affaccia quando e se buon gli sembra, sembra regale, perché è inondato dai raggi dall’ora di pranzo al tramonto mentre la luna di notte si affaccia al lucernario. 


E invece no, e alloggiare a Parigi per un mese a petit budget è un incubo, semplicemente.

Terza noia burocratica e tutte oggi: avevo dovuto aprire un conto in Francia per ricevere dei semplici rimborsi spese di viaggi e alloggio che le amministrazioni francesi, sia mai! non potevano pagare all’estero. Ho chiesto la chiusura a gennaio, sapendo che non sarebbe più servito. Mi tormentano tuttora sostenendo che, malgrado lettera di disdetta e bancomat restituito, devo ancora dargli dio sa cosa dio sa come. Domani, anziché lavorare con la mente sgombra da beghe burocratiche, devo precipitarmi a tentare di risolvere questa cosa. 

Oggi è la più bella giornata che abbia mai visto a Parigi e avrei voluto godermela come una vacanza, avendo sbrigato un certo numero di faccende noiose quanto ansiogene. Invece sto ancore soffocando nelle seccature, che mi danno sempre un’agitazione infinita, deconcentrandomi totalmente. Soprattutto quando significano spese: e io sto attenta pure a cosa prendere quando vado in pasticceria per comprare la colazione, da fare comunque a casa, i giorni, non certo tutti né tutte le settimane, in cui mi permetto di andarci dopo essermelo vietato per n tempo.

Eh, ma, il costo del lavoro... eh, ma, i dipendenti pubblici quando escono dall’ufficio non hanno più pensieri...

Imbecilli. In modi e per motivazioni diverse, ma imbecilli. Furbi saputelli imbecilli.





lunedì 11 ottobre 2021

Ci sarà un futuro?

 Sta tutto nell’articolo indeterminativo, ovviamente. Il futuro esiste, fino alla morte.

Un futuro consono non è detto affatto.

Anzi, per me finora non c’è mai stato un futuro stabile. Si’, ho il posto fisso che ho voluto con pervicacia, perché avevo visto cosa voleva dire non averlo, in una famiglia monoparentale con genitore unico licenziata tre volte, ogni volta perdendo in salario e contributi rispetto all’impiego precedente - l’ultimo lavoro essendo stato con i magnifici contratti cococo senza contributi regalatici nel 1997 dall’amato Prodi - giacché qualche poveraccio pure lo ama -: finché lo amano i padroni e padroncini, si capisce, i salariati no, i dipendenti pubblici, poi, dovrebbero chiedersi dove sia finito il senso del loro lavoro, davanti a chi i servizi pubblici precarizza sempre più, depauperando formazione, trasmissione, pianificazione e conoscenze, insomma li distrugge. 

Io invece ho iniziato direttamente con il lavoro nero, perché si sa, non bisogna essere schizzinosi e la disoccupazione sparirà. O con il lavoro non pagato: tirocini su tirocini, lavoro intellettuale bello fatto gratis per riuscire a risollevare la mente dalle kapo’ dei centri assistenza telefonici che ti chiedono i titoli di studio per poi scoppiarti a ridere in faccia e ti lasciano a casa dall’oggi a stasera. L’amato Prodi, con le sue belle leggi sulla precarizzazione del lavoro (quelle che la Francia ha respinto compatta per dieci anni, prima che i sindacati cedessero a Macron, e viva la Rivoluzione perché farla serve sempre a qualcosa, non fosse che a liberarsi dalla soggezione feudale), l’ha reso possibile, questo. Seguito in perfetta consonanza da Berlusconi, con la legge Biagi e il concordato Sacconi.  E se noi lo ricordiamo, questo, altri preferiscono ricordare, senza dirlo, dove tali benemerenze lo hanno portato, l’amato Prodi: alla Commissione UE.

Durante uno dei periodi di disoccupazione della mamma, sua sorella mi spiego’ i vantaggi dell’impiego pubblico: li’ il lavoro non si poteva perdere. Anche lei aveva penato un po’ per diventare di ruolo a scuola. Dapprima aveva lavorato in un liceo ribelle all’epoca della contestazione, “il XXII” e le piaceva molto, credo. Poi era finita sui monti della provincia, poi nelle borgate dure che l’avevano per la prima volta fatta disperare e sciogliere in lacrime; proprio non era l’ambiente per lei, poi le cattedre spezzate con intervalli impossibili per spostarsi in una cittadaccia come Roma e non parliamo della qualità del lavoro che si poteva riuscire a dare, ma quella con tutta evidenza non interessava a chi doveva avere i conti in regola, poi negli ultimi decenni, vicino a casa “ma non troppo se no va a finire che incontri tutti i genitori appena esci”. Il suo lavoro non le dispiaceva, credo, ma non esprimeva mai pareri decisi su questo in famiglia. Forse avrebbe preferito rimanere nel liceo di un tempo, per l’ambiente costruito con i compagni di lavoro, che non penso abbia più ritrovato. Forse erano gli anni formidabili l’oggetto vero del suo rimpianto. Ma non so, non ho certezze. Lei non è mai stata una ribelle.

Aveva vissuto sempre con i genitori, perché i suoi amori non ebbero mai quella fine felice che il suo cuore avrebbe voluto. Divenuta a un certo punto molto accorta, era riuscita a comprarsi una casa come le piaceva e a arredarla nel suo stile preferito di Ottocento inglese, pizzi, porcellane di antiquariato da poco prezzo, e qualche pezzo di art nouveau. Mia mamma, con cui i rapporti non erano buoni, lo detestava e io finivo in mezzo perché da bambina a me ovviamente piaceva e avrei voluto anche io possedere oggetti cosi’.

Insomma quel giorno, ero proprio molto piccola, davanti a quel discorso, avevo preso la risoluzione di diventare anche io un dipendente pubblico. Credo sia stata la mia prima decisione autonoma e razionale di lungo periodo, che peraltro non si smenti’ mai. Volevo escludere dalla mia vita quell’angoscia per sempre. E poi, senza averne allora chiara nozione, mi piaceva l’idea di “lavorare per tutti”, in qualche modo, e di potermi spostare su realtà diverse. Sapevo già, pero’, che mai avrebbe potuto essere la scuola: per me la scuola fu sempre un’oppressione infantilizzante, tranne qualche momento delle elementari Montessori, e eccettuata l’insegnante di storia, la “signorina Luciana”, già anziana, magra, alta, grembiule colorato, chignon e trucco, rigorosa si’, ma certo mai sadica né pazza, che mi avrebbe segnata, in positivo, per sempre, indicandomi la strada; ma il resto, dopo la prima elementare, fu un trionfo della banalità, o dell’assurdità, come la prova del nove che a tutt’oggi non ho capito. Variava solo il grado di sopportabilità. Ultimo ricordo di lei, il suo ritorno dopo un periodo di malattia durante il quale un’improvvida supplente tento’ di portare in una scuola sostanzialmente laica il concetto che il prevalere dell’autorità imperiale sul papato avesse spalancato il precipizio di una decadenza morale in cui non ricadere nei nostri tempi civili. Il concetto di egemonia era spiegato in un lungo pannello appeso in classe, scevro da ogni giudizio morale: era un fatto, semplicemente. Ma quando provai a accennare alla signorina Luciana quanto ci era stato insegnato in sua assenza la vidi aggrottare le sopracciglia in modo fosco - e fu l’unica volta. Concluse che il tutto era molto confuso e rimise le cose al loro posto. Del tutto scevra da compiacimento, presumo che in cuor suo stesse ruggendo, piazzando ad ogni buon conto la supplente in una lista di stampo augusteo.

Brava.

Oggi devo fronteggiare l’ultimo atto di Francia; atto ho preso da tempo che qui per me non c’è futuro remunerato. Ma questo è l’ultimo anno, e ho dovuto deciderlo da sola. Non so come sopravvivro’. Vivo per ora in un tempo sospeso: e temo di non riuscire a finire cio’ che devo e vorrei. Sono come stordita. Mi rifiuto fisicamente di prendere atto di cio’ che so perfettamente, e vivo come se non ci fosse un domani.

Per continuare a respirare, forse.

Non posso pero’ tornare da dove venni: perché stanno distruggendo il mio settore, cestinando la graduatoria per la sospirata carriera direttiva, cui appartengo da lustri di fatto se non di diritto, e bloccando ogni speranza di arrivarci mai. Una nuova dirigenza, ansiosa di virtù maastrichtiane e vogliosa di premi di risultato e disponibilità di posti da distribuire per consolidare il proprio novello potere, ha deciso di procurarseli a spese dell’area più debole, stavolta prendendo di mira non solo le strutture ma le carriere delle persone. Anzi, proprio la nostra stessa presenza, perché, dopo dieci anni di pensionamenti non rimpiazzati saremmo, ai crassi occhi dell’ignoranza superba di costoro, cui io non mi permetterei di insegnare a fare un bilancio, mentre loro evidentemente tutto sanno del nostro ruolo, saremmo dicevo: “troppi”. Potesse, la nuova venuta - giacché di femmina si tratta, ma si sa le donne sono diverse come Maggie - ci licenzierebbe, ma ancora non può, malgrado Draghi e i suoi tirapiedi. Pero’ puo’ privatizzare il servizio, grosso modo, cioè usare precari impoveriti al nostro posto (e qui torniamo ancora e sempre all’amato Prodi), e distruggerci la carriera. E lo sta facendo, con gusto.

Per cui vorrei partire, ma stavolta proprio da tutta l’istituzione. Quando ho cominciato a lavorarci ero quasi orgogliosa di essere li’. Oggi non più: non posso più e non voglio più. Prevale un senso di completa estraneità. Il corpo lo ha capito prima. Durante il confinamento avevo ritrovato le mie forme senza pena e senza sforzo, semplicemente perché lo stress era diminuito. Il ritorno in presenza ha rimesso in moto la frustrazione che si sfoga in gola. Passavo l’estate scorsa davanti a quei muri e mi dicevo: qui non ho più niente da fare. Non posso passare il resto della mia vita attiva aspettando lo stipendio. Una collaborazione inattesa ha per un momento occultato la realtà, facendo pensare a una possibilità di passare almeno informalmente il soffitto di vetro dei ruoli. Poche frasi sono bastate a capire come appariva la verità. Lo intuivo, del resto, da certi toni improvvidi. Per cui, via, lasciato l’ultimo ormeggio, se non per una questione pratica che una partenza troppo precoce danneggerebbe, e non mi va. Ma l’occasione non si ripresenterà; afferrare il ciuffo del Kairos per andarmene sarà comunque a rischio perdita, sempre nell’ipotesi, per il momento quasi irreale, che tutto vada bene e che altrove trovi un luogo più arioso.

Ma l’eccellente caporalessa e la sua scagnozza non lasciano partire nessuno, perché certo siamo troppi quando si tratta di rivedere i conti, ma dopotutto le serviamo ancora quando avremmo bisogno di un divorzio civile.

Sto cercando insomma un modo di spostarmi. So anche dove. Sarei anche attesa, a fidarmi di quel che mi si dice. Ma temo che si facciano delle illusioni sulla fattibilità della cosa. Dovrei avere dei santi in paradiso altissimo, ma non li ho. Anche su questo, temo si facciano illusioni.

Vorrei lavorare in un posto bello.

Vorrei andare a lavorare ridendo.

Vorrei farlo divertendomi, senza paura di chiedere l’ovvio. Anzi senza bisogno di chiederlo, perché l’ovvio, ovviamente, già c’è.


 

venerdì 8 ottobre 2021

Riso alle mele

 Ero in una cour su una panca rabbrividendo perché ormai qui il sole cala in fretta, quando mi viene sotto agli occhi il risotto di Poverimabelleibuoni

È venerdì, tempo di riprendere la partecipazione al Clan del risotto del venerdì.

Ma per varie ragioni le idee tardano.

Una stanchezza di lunga data mi abbatte.

Il riso alle mele e sgombro però mi piace tanto.

Lo copio spudoratamente nei suoi spunti.

Ma solo con quello che ho sottomano. Tranne le mele che mangio malvolentieri in questa stagione perché indicano la scomparsa della frutta estiva che mi piace molto di più di quella invernale.

Cristina pero’ spiega che è proprio la loro stagione. Mi lancio a comprarne un paio.

E già che ci sono ne approfitto per fare ancora un risotto ammucchiato.

Perché devo dirlo: a me quel riso spatasciato a mo’ di minestra che va di moda oggi proprio non convince. Lo trovo brutto da vedere e snaturato. La tradizione innanzitutto, in cucina.

Sarà che detesto gli anni ‘80, la Milanodabere et tout ce qui va avec.

Il riso a orlo piatto sarà anche stavolta per la prossima volta (-:


Improvvisazione di un riso autunnale

Soffriggere in 1 cucchiaio d’evo scarso i semi di 4 baccelli di cardamomo; unire poi due foglie di alloro, poi una scorza di limone, infine un quarto di spicchio di aglio saporito - se no aumentare la dose.
Unire due pugni di riso.
Bagnare con uno spruzzo di sidro secco.
Cuocere con brodo di sedano.
Tagliare la calotta a una mela gala... NO, mi correggo. Non era una gala, che non mi fa impazzire perché come le Smith mi sembra una mela finta. Era una cosa meravigliosa come solo in Francia sanno fare, che si chiama Reine des reinettes, e scavarla con un coltellino affilato.
Fare la polpa a dadi, strofinare polpa e mela con mezzo limone.
Fare a piccoli dadi una fettina piccola ma spessa di salmone.
Quando è quasi cotto mettere nel riso i dadi di mela.
Mantecare con 1 cucchiaino di EVO e aggiungere scorzette di limone.
Infilare nella mela, appoggiandovi dadini di salmone e foglie di carota.
Coprire la mela con la sua calotta appoggiata sulle ventitrè.

I prestiti dalla ricetta di Cristina si vedono da soli.
L’idea della mela farcita con il salmone l’ho ripresa da un libro dedicato a frutta e verdura.

L’effetto complessivo, malgrado la fretta, era buono.