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Toulouse en érasmienne

venerdì 16 dicembre 2022

Piangere al cinema

 Non mi viene mai. Due eccezioni: la fine de L’attimo fuggente, quando gli studenti, in un chiaro preludio del’68, salgono sui banchi molto determinati a difendere il loro insegnante e la propria curiosità intellettuale e di vita opponendosi alla brutale e ottusa dirigenza del college, e la fine de Il caso Spotlight, quando i camion carichi delle copie del Boston globe partono per diffondere nelle edicole il numero del giornale dedicato alla copertura data dalla santa madre ai preti pedofili durante almeno la seconda metà del XX secolo.

Sono entrambi due finali e non sono del tutto negativi, anzi, sono liberatori. Sono anche due immagini di rivolta e ribellione di gruppo e vincenti all’ingiustizia e all’oppressione.  

Abito a poca distanza dalla sontuosa basilica dove Woytila, si’, il caro santo, accolse il cardinale Law dopo che lo scandalo lo forzo’ a lasciare Boston, dandogli il titolo di Santa Maria Maggiore. La chiesa è magnifica, ma entrarci richiede uno sforzo.

mercoledì 7 dicembre 2022

S

 Sono un po’stanca.

Tipo un uovo caduto da crudo su un piano più duro.

Il mancato scatto di stipendio rinviato sine die mi ha molto abbattuto: volevo iniziare le pratiche del trasferimento subito dopo e invece non ci sono prospettive.

Poi arriva la polmonite.

Il braccio tirato d corde taglienti come acciaio.

Gridare di dolore per infilare un maglione, io che stupivo un intero studio di FKT per la mia soglia altissima del dolore. Dolore tutto il giorno in qualsiasi posizione, sotto cortisone.

La prospettiva di restare nello stesso posto in perpetuo.

Sentirsi esausta per il minimo sforzo fisico.

Non respirare, spenzolarsi fuori dalla finestra per trovare aria.

Vedere ogni tentativo faticosamente perseguito e cercato di migliorare la mia posizione lavorativa ed economica svanire a un passo più senza orizzonte.

Esser sull’orlo delle lacrime senza avere l’energia di piangere.

Il marito di mia madre che mi incalza ogni giorno, velenoso e letale, facendomi sentire un mostro degenere: « Quanti giorni di malattia ti hanno dato ancora? » perché devo precipitarmi là con un’ora e mezzo di metro come se fossi fresca come una rosa a portare in giro mia madre fuori di casa perché lui non la sopporta più tutto il giorno, ai miei parenti non vuole chiedere niente perché non gli garbano, mentre io riesco a fatica a camminare per cento metri e anelo a qualcosa di bello fatto in modo calmo e che ristori me, anzitutto e non perché tirata da un altro. Badante no, eh, sia mai! Io voglio bene a mia madre. Desidero passare del tempo con lei. Magari portarle un dolce fatto in casa. Programmare la decorazione dell’albero di Natale che lei ama fare come quando ero piccola e farlo insieme. Ma non sopporto di essere considerata da suo marito una turnista da sollecitare con aria scontenta perché non risponde presente ogni minuto in cui non lavora non perché ci sia un’urgenza, ma perché lui non ha voglia di chiamare un aiuto neanche qualche ora a settimana. E adesso, dopo cinquantaquattro giorni di malattia, ho bisogno di riprendermi anche facendo qualcosa solo per me stessa. Eppure mi ha vista cadere quasi per terra poche settimane fa!

Mi sento spegnermi e vorrei tanto ridere.  

Mi hanno chiesto un articolo per una bella rivista: non riesco neanche a connettere un germe di proposta. D’accordo per me il tema libero è sempre stato difficile, ma qui va oltre.

E quest’anno sono in Italia per la prima volta dal 2009 non posso nemmeno ascoltare l’inaugurazione  della Scala perché in casa mia radio 3 non prende e non essendo abbonata alla TV che neanche possiedo non mi connetto su internet. Boris non è certo tra le mie opere preferite ma l’avrei ascoltato lo stesso, non fosse che dopo le follie di questa primavera in cui si volevano censurare gli autori russi e chiunque ne parlasse, andrebbe mandato a reti unificate per tre mesi. L’interruzione di questa bella tradizione mi infastidisce parecchio, mi avrebbe distratto.

Non ne posso più.

Aiuto.

sabato 3 dicembre 2022

Corona e lucette

 Per la prima volta ho comprato una corona natalizia. Cinese, ovvio, ma piuttosto di bell’apparenza. Verde, palline rosso satinato, foglie dorate. Per anni ho sognato di farla da me, amerei creare composizioni e decorazioni naturali e naturalmente profumate, ma con mio gran dispiacere non ho mai trovato gli arnesi giusti per fissare i rami e i frutti. 

Avevo voglia di uno sbrilluccichio e di festa, di Natale mentre il diluvio non si arresta e io sono chiusa in casa con la polmonite - in via di risoluzione apparentemente - a lottare contro le regole dell’INPS (dipendenti pubblici sospetti anche nel fine settimana, guai se ti viene sonno durante tutto il giorno e sei da sola) e l’ottusità sul lavoro da dove con malcelata soddisfazione ti comunicano che i turni che hai chiesto e che poi saresti la sola a fare senza togliere niente a nessuno “non si possono dare per contratto” vale a dire un regolamento interno contorto e malfatto dovuto alla mediocrità incapace, cavillosa, insicura e presuntuosa della dirigenza. Dio come detesto fino alla nausea la meschinità stizzosa che si crede fuuurrrrbaaa e che per sua essenza sa controllare solo sulle quisquilie stupide. Cipolla dove sei.

Come nel lockdown quando non ero malata, sto molto meglio fuori di lì. Stavolta sono malata sul serio e soddisfatta comunque di stare lontano da quel luogo, mezza scassata e squassata dalla tosse, dolorante da urlare letteralmente nelle articolazioni, ma preferisco ancora così al dover stare in quel luogo da dove non posso andarmene perché un trasferimento non me lo concederanno mai. Gli servo sottoinquadrata, sottoutilizzata, ogni avvenire precluso, ma guai se chiedo di andarmene, come tutti quelli che si trovano nella mia situazione, non è una questione personale, anche se l’episodio odierno rappresenta una soddisfazione meschina e malcelata da parte di qualcuno perché sono stata malata piuttosto a lungo e quindi faccio stridere l’insieme complessivo. Che spreco, prendersela con una malattia di qualche settimana per poi non darmi i mezzi per lavorare quando ci sono e vorrei agire come dovrei e so fare. 

Non ho la forza di articolare ragionamenti più complessi, ma sono convinta che questo punto sia cruciale.

Poi ci sono le lucette cinesi comprate il primo anno che sono arrivata qui. Sono un globo rosso che emana una luce rasserenante e assolutamente infotografabile da accesa senza fare discoteca equivoca, mentre dal vivo è molto dolce e calma. Ieri sera dopo gli spiacevoli scambi di cui sopra mi sono rasserenata cenando solo alla sua luce. 

Oggi ho spedito via PEC (ansia!) un’altra domanda di concorso, uno dei pochissimi adatti che escono, un solo posto ovviamente già assegnato a qualche precario o facente funzione da anni. Già, perché ormai i concorsi di un certo tipo sono in realtà sanatorie di situazioni distorte durate per lustri, il che rende impossibile agli esterni partecipare con qualche speranza. Non si dovrebbero semplicemente creare situazioni del genere: se c’è bisogno di un profilo lo si cerca regolarmente con concorso, senza aprire posizioni che poi andranno sanate. Già, ma siccome mammà UE dice che bisogna ridurre il numero dei dipendenti pubblici e tutti in coro a applaudire e fustigarci, o a fare tante belle aziende in house o rivolgerci a “gli operatori economici” degli schiavi, anche le amministrazioni più serie spesso non hanno altra scelta che bloccare per anni le carriere dei non più giovani e non aprire mai veri posti di lavoro di livello appropriato agli esterni. Solo che io sono stanca. La situazione della mamma e ancor più la pressione continua di suo marito, che aspetta il week-end quando io sospiro per tirare il fiato, per piombarmi addosso come un avvoltoio perché io lo dedichi a lei, mi stanno prosciugando totalmente e il lavoro non è di alcun aiuto per staccare da questo pensiero. Io rimango senza risorse per concentrarmi davvero su qualunque cosa, dai compiti casalinghi agli hobby allo studio e alla scrittura che avrebbero bisogno di tempo, concentrazione e tranquillità. Ho pensato che questa malattia fosse una vacanza che il mio corpo o meglio ancora il mio spirito mi imponeva perché razionalmente e logisticamente non ero capace di dargliela da anni. Ma il dolore fisico è stato ed è così forte da impedire una reale distensione.

Devo solo trovare la forza fisica e mentale di studiare, mentre non riesco neanche a riordinare la casa per il dolore alle braccia. Se non altro mi sarò riposata un po’. 



Che brutte foto, se non altro perché dietro c’è il bordello. Auff. Torno ad abbattermi sul letto.


giovedì 17 novembre 2022

Un anniversario collettivo.

Quand l’aristocrate protestera,
Le bon citoyen au nez lui rira,
Sans avoir l’âme troublée,
Toujours le plus fort sera.

Quattro anni fa i Gilet Jaunes decidevano di occupare rotatorie e caselli autostradali per protesta all’introduzione di una tassa sugli autoveicoli. La protesta guadagno’ ben presto la forza necessaria per estendersi alla strada più famosa di Europa e una delle più famose del mondo. Sono cose note e queste note non aggiungono in realtà nulla di nuovo. Ricordano. 

Gli elementi erano molteplici e i partecipanti variegati. Sostanzialmente fu una rivolta contro il caro vita e l’immiserimento di strati sempre più larghi della popolazione a causa dei tagli ai servizi pubblici uniti alla politica economica di controllo dei salari attraverso la disoccupazione o sottoccupazione crescenti, fenomeni sempre più avvertiti al di fuori delle grandi città. Senz’altro ereditò i militanti sindacali sconfitti delle battaglie per la difesa del diritto del lavoro di pochi anni prima.

Coraggiosi da sempre fino alla temerità, i Francesi si batterono a mani nude o quasi davanti a una polizia armata fino ai denti e obbediente a direttive repressione sanguinosa se non mortale nel suo insieme. La vecchia dottrina di evitare lo scontro quanto più possibile non serviva più, fu messa da parte. Macron senza sorprese confermò il suo volto spietato di brutale di affarista che aveva già sfoggiato durante i giorni della casse du code du travail sotto la presidenza Hollande.

Le brutalità poliziesche furono ignorate, si fece uso di vernice invisibile e indelebile per marcare i vestiti di coloro che partecipavano alle manifestazioni per in seguito perseguirli e condannarli in vario modo solo per la partecipazione, si usarono le nasse per contenere i manifestanti durante ore e ore, gettando gas e caricando allo scopo di fiaccarne il morale. Si definirono « armi per destinazione » cartelli di cartone pieghevoli, sciarpe, maglioni, occhiali da sole e quant’altro si potesse trovare nelle borse o negli zaini. Si pestarono giornalisti perché documentavano gli scontri, soprattutto i precari che non avevano dietro una testata famosa a proteggerli e medici perché curavano i feriti, molti erano studenti volontari che sia operavano per qualche trauma cranico di troppo.

Non so se avete mai avuto l’occasione di avvicinare un poliziotto francese bardato a manifestazione. Anzitutto sappiate che siete delle formiche, per quanto grandi e grosse possiate essere. Anzi sono loro dei formiconi di 18 metri. Sono in generale alti e atletici, diciamo pure francamente hanno un fisico bellissimo, armonioso e addestrato. Sono coperti di elmetti, paracolpi e scudi semplicemente giganteschi se visti da vicino. Sono armati di manganelli enormi e con un impugnatura a T. Questo è quello che si vede, parlo di quello che ho visto, ma l’uso di manganelli elettrici anche per penetrazioni con conseguenti scosse da parte di alcuni reparti della polizia francese in altri contesti è stato denunciato dalla stampa. 

Forse qualcuno ricorderà l’immagine del manifestante inginocchiato sugli Champs Elysées coperto dalla bandiera francese con scritte sopra le prime parole della Marseillaise, innaffiato dagli idranti in una fredda giornata di novembre (non è solo acqua, ci sono sostanze irritanti dalla varia liceità). Per me è rimasta il simbolo di quei giorni. Io ricordo anche quando vidi i diabolici Jaunes sulle rotatorie: persone anziane che trovavano li’ qualcuno con cui fare quattro chiacchiere e la sensazione di poter darsi da fare per uno scopo collettivo. I camionisti passando suonavano sempre il clacson in loro onore, rallentando e portando qualche piccolo dono: dolci, cibo. Mentre i giovani salivano a Parigi per battersi come da centinaia di anni. Ricordo gli Champs vidés de leur peuple sbarrati da centinaia di camionette e poliziotti, il métro chiuso per metà tre giorni a settimana, perché quella vetrina che tutto il mondo avrebbe riconosciuto non doveva essere turbata dallo scontro sociale. E ricordo una signora turista a Parigi insieme alla figlia che le chiedeva cosa fossero le luci che vedeva: «È per i Gilet Jaunes. Gli hanno impedito di andarci et je trouve que c’est bien dommage.». Ricordo la présidente de salle alla Bibliothèque de l’Arsenal tutti i sabati di servizio vestita di giallo. Insomma non ricordo un rifiuto da parte dei Francesi di quell’esecrabile manifestazione di dissenso, ricordo invece empatia e sostegno per una battaglia che sentivano giustamente anche propria.  Ricordo i poliziotti incontrati a un crocevia al termine di un sabato qualsiasi di marce, io vestita elegantina di seta giallo sole, un innocente vestito vietnamita comprato a Lione, le mie borse cariche di libri. Per fortuna non le presero come armi per destinazione, ma capirono benissimo. E mi sorrisero.

Macron stava cominciando a perdere la fiducia anche dell’alta dirigenza pubblica, disgustata dai metodi brutali da lui applicati. Nascevano tentativi di fare gruppo in rete da parte di chi non poteva sostenere quella situazione. La cosa che i Jaunes avevano ottenuto sugli Champs Elysées era di far perdere la faccia al presidente davanti al resto del mondo e non era poco. 

Macron si salvò grazie alla pandemia che spazzo’ via gli ultimi resistenti dalle strade e concentrò l’attenzione su altre urgenze, altrimenti credo non sarebbe mai stato rieletto. I Jaunes furono spazzati via dalla repressione giudiziaria - chiunque fosse stato fermato alle manifestazioni sarebbe stato condannato indipendentemente da quanto avesse o meno fatto. Si esaurirono per la mancanza di rivendicazioni salde e comuni e alla fin fine per insufficiente coscienza delle ragioni del proprio disagio, vale a dire una politica economica liberista che stava e sta spazzando via les derniers lambeaux di benessere, vale a dire di civiltà, faticosamente conquistato in due secoli e mezzo. 

Fedele al principio della non ingerenza più di quanto non siano i governi marconisti non sono andata alle manifestazioni, ma se fossi stata Francese lo avrei fatto. Fraternité.





 

venerdì 4 novembre 2022

Riso in bianco color seppia del pesce d’aprile

 Passo passo passo. Ma chi me lo fa fare e per cosa poi. I primi freddi non giovano al miglioramento. Il virus non molla. Nausea nausea, debolezza e tutti i fastidi connessi al raffreddore sono au rendez-vous. Poi mi sono detta che dopotutto qualcosa in bocca devo infilare, quindi tanto vale approfittarne per giocare.

Del resto il riso in bianco è raccomandato ai malati. Quanto alla cottura niente di più ristoratore di un brodo che si cuoce piano piano: il caldo caccia l’oppressione al petto, il profumo conforta più di una torta al cioccolato, e il vapore allevia la sinusite. E anche... insomma qualche cosa riesco a fantasticare. Così, approfittando del tema libero recupero il riso del pesce d’aprile e scherzando propongo il riso della settimana: riso in bianco, appunto.

Riso del virus novembrino

Brodo

Avanzi di pollo, nel mio caso dal freezer: punte di ali, zampe, testa con tutti i bargigli... ossa eventualmente

Cipolla, sedano abbondante, carota

Scorze abbondanti di limone, il che mi ha permesso di scoprire che i miei due économes non tagliano un bel niente e ho fatto spazio gettandoli dritti filati nella spazzatura non riciclabile

Chiodi di garofano, semi di finocchio pestati, stella di anice stellato, timo, menta

Coprire di acqua e cuocere 1 h 30. Volendo, filtrare.

Riso

1 pugno di riso (dose da malata).                 

 Semi di finocchio

Brodo

Vino bianco (evapora checché ne dicano)      

Olio aromatizzato alla menta, 1 cucchiaino 

Scorze di limone

Tostare i semi di finocchio in padella secca che aumenta il rischio di bruciarli quindi supplemento di attenzione. Unire il riso, poi sfumare con il vino, cuocere con il brodo. Mantecare con olio in cui si è lasciata in infusione altra menta.

Tavola

Per quanto semplice sia il riso ciò non comporta che lo sia la tavola. E quindi: tappetino di legno comprato nella mia adorata Tolosa, posata d’argento della bisnonna mamma del nonna materna con cui ho visto mangiare mio nonno, suo genero, per tutta l’infanzia, bricchetto di garofanini cinesi che mi piacciono tanto e avevo in casa, e per finire anche un po’ di fiamma:




Guarnire il riso sul piatto con la scorza di limone grattugiata.

E ora corro ai miei fazzoletti! Buon fine settimana a voi.

 

mercoledì 2 novembre 2022

Impastoiata e fremente

 Chi mi legge sa quanto per me contino la Francia e le esperienze che riesco a fare lì, impensabili in Italia nella ristrettezza generale di mentalità e di finanziamenti che rendono ancora più corporativo un contesto che lo è sempre stato al di là di ogni ragionevole misura. Il gruppo in cui sono inserita in questo momento è di un livello altissimo, purtroppo io seguo una disciplina molto collaterale e tra sindrome dell’impostore e sensazione di essere comunque fuori da molti ragionamenti l’ansia da prestazione è alle stelle.

Quindi quando due persone ben due del gruppo pensano a me indipendentemente l’una dall’altra per un’iniziativa da presentare fra qualche mese sprizzo felicità da tutti i pori. Collima perfettamente con alcune riflessioni che sto facendo negli ultimi tempi. Per poi ricadere miseramente quando capisco che è necessario presentare una realizzazione che non c’è sul mio luogo di lavoro. E non c’è perché non mi sono mai stati dati allo stesso tempo due soldi di attrezzatura e di fiducia per realizzare checchessia. 

Frustrazione e rabbia. Sensazione di inconcludenza perenne e forzata. Stupidità senza fine della mia organizzazione che non riesce nemmeno a intuire quanta visibilità potrebbe ottenere con un investimento minimo su chi morde il freno e lo lascia invecchiare così, ingrassare così, esaurirsi così con uno stipendio di miseria, perché fa comodo così.

Io quel luogo finirò con l’odiarlo sul serio.

Cui prodest?

Quella bruciante voglia di condividere una frase storica per arrivare da tutt’altra parte: un libro, un pubblico e il passato

 Da un blog:

e poi ho sempre pensato che lavare i panni sporchi in casa sia una stupidaggine, se lo fai al fiume in compagnia diventa tutto meno faticoso.

Non so se sia una citazione, in ogni caso è da monumento.

Ha anche a che fare con una cosa rimuginata da tempo in merito al mio passato, quello delle violenze di cui ho già scritto qui. Più un episodio sgradevole di cui non ho ancora avuto il coraggio di parlare, quello di un’amica di mia madre, di origini medio- alto borghesi, che mi voleva spesso con sé definendosi la mia seconda mamma, colta e con un mestiere affascinante, che durante un viaggio in macchina di notte da sole noi due, mentre guidava mi mise una mano sulla coscia accanto al ginocchio sinistro. E poi, dopo avere scostato la mia gonnellina jeans di denim, spostò la mano verso la parte interna della coscia, un po’ più in alto. Io rimasi gelata, immobile, non sapendo cosa fare. Avevo forse dieci anni. Ancora una volta non ero minimamente eccitata, solo profondamente disgustata. Desideravo solo che togliesse la mano. Per fortuna lei non fece altro e dopo un po’ tolse la mano e non lo fece mai più. Non vi furono contatti con organi genitali o carezze intime, né col resto del suo corpo, per fortuna. All’epoca ignoravo fin l’esistenza della sessualità fra donne. Ma la sensazione di qualcosa di fuori posto fu fortissima, insieme alla confusione per non sapere come reagire. Lei però mi parlava di cose che mi piacevano, mi mostrava e mi faceva apprezzare oggetti ambienti e discorsi che non avrei mai potuto trovare altrove. Non potevo e non volevo perdere quel rapporto. Pensai che fosse una di quelle cose strane che fanno sempre gli adulti. È questa la principale arma di costoro, l’inconsapevolezza e la confusione dei destinatari dei loro gesti ambigui, oltre alla forza fisica.

Se ci ripenso oggi, ero l’identikit della vittima perfetta di azioni di questo tipo. Figlia di madre nubile e sola, con poche relazioni e di condizione economica modesta dalle prospettive incerte. Aspetto da bambina, non sono stata un’ adolescente precoce.

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Ma sulla cosa che volevo dire devo rimuginarci ancora un altro po’:

In sostanza non mi verrebbe mai in mente di definire le violenze sessuali sui minori o su adulti come panni sporchi. Ma l’anno scorso, a Parigi, città di salvezza e meraviglie, sono andata a un incontro organizzato dalla biblioteca di Beaubourg intorno a questo libro che stavo leggendo, una lettura importante e intelligente su un argomento sviscerato come solo i Francesi sanno fare. Quel pomeriggio rimasi tappata in casa malgrado il sole sfolgorante sui tetti, tesa come se ne andasse della vita ripetendomi non so quante  volte che dopotutto non valeva la pena di perdere tempo e che alla fin fine non era poi così convinta di avere voglia di andare. Non riuscivo a decidermi a prepararmi per uscire di casa e poi per entrare nel centro. C’erano ancora le restrizioni e bisognava passare per il controllo delle prenotazioni. Ricordo una lunghissima doccia calda quanto più possibile e il bisogno di indossare per la prima volta una gonna di lana bordeaux a pieghe, ricamata ton sur ton, comprata per 2.50 euro al mercatino dell’usato tempo prima, l’unica cosa nuova che possedessi, poi decidere di mettere le décolletée di camoscio rosse al posto degli stivali e di truccarmi leggermente. 

Come per un appuntamento. Così sentivo in effetti quell’incontro: un appuntamento fatto anche per me. Non era una delle infinite conferenze a cui assisto nella vita: si parlava di me. Questo mi riscaldava internamente e mi faceva battere il cuore.

Non c’erano molte persone ma non importava moltissimo. Quello di cui c’è bisogno, pensavo, è un tipo di incontri diverso dalle sedute di testimonianza e di racconto come dalle conferenze universitarie. Un discorso pubblico in cui si affronti e si discuta non del vissuto, ma delle condizioni che permettono il suo formarsi, della problematica che porta appresso e delle sue implicazioni e lo si fa nell’agorà, non in un’aula di tribunale o di facoltà. Bene, sono anche ma non solo questo, sono una persona di sesso femminile che ha subito violenze e molestie sessuali quando era bambina da parte di tre adulti di sesso diverso, di cui due all’interno della rete di conoscenze più intima (lasciamo perdere le mani morte e altre molestie occasionali per quanto antipatiche che tutte abbiamo subito prima o poi) e posso esserci socialmente come tale e discutere del problema non in quanto vittima, ma in quanto parte di una società portatrice di una certa esperienza. Della costruzione del senso di questa esperienza come di molte altre va discusso in pubblico, interagendo tra i diversi livelli che spesso si sovrappongono o contrappongono. Una circolazione del discorso a livello sociale, citoyenne. Fuori dalle associazioni, dai gruppi di auto-aiuto et similia che preziosi storicamente per prendere coscienza del fenomeno e denunciarlo, rinviano oggi ancora e sempre al proprio e unico status di essere violato, alla propria e altrui « malattia » ed « eccezionalità » in cui la violazione ci ha tutte e tutti trascinato. Noi non siamo un’eccezione, una mirabilia né un club chiuso ben distante dal corpo sociale e fisico degli « altri » che quest’esperienza non l’hanno vissuta - magari però l’han messa in pratica-: siamo il risultato di un fenomeno sociale. E come tale dobbiamo parlare e essere ascoltate e dialogare e avere un livello e un luogo di discorso che ne prenda coscienza e ne tenga conto oltre e al di là degli aspetti legali e terapeutici. Una pubblicità dell’esperienza come di tante altre che nella vita si subiscono o si agiscono: qualcosa che a livello collettivo non si nasconde perché non c’è proprio niente da nascondere. Un livello di discorso pubblico meno spettacolare della denuncia ma infinitamente più intenso e teso che mi pare crudelmente latitare.

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Da quella sera in automobile con la molestatrice non ho più voluto indossare la gonna di jeans. Senza capire perché, mi ripugnava. Non solo, io che amavo il blu sopra ogni altra cosa, probabilmente perché mi ricordava il mio amato mare di Gaeta, e volevo vestirmi solo di quel colore, cominciai a detestarlo e a rifiutarlo. Come pure i jeans che non ho portato e non porto praticamente mai. Soprattutto il denim mi dà fastidio al solo vederlo. «Perché mai?» « Perché è brutto, non sta bene. » era la sola risposta che riuscissi a darmi. Forse oggi ne ho trovata un’altra. E non mi venite a dire che Freud non aveva capito niente. 

Per esperienza ho visto che in genere quelli che se ne escono con frasi del genere sono esattamente quelli che di una bella analisi avrebbero più bisogno, ma, chissà perché, non gli va di farla.

martedì 1 novembre 2022

Sdraiata al sole

 Oggi comincio a stare meglio, dopo nove giorni e tre quarti di scatola di antibiotico. Santo chi li ha inventati, poche storie quando hai un problema acuto o ci sono quelli o ci sono quelli.

Sono salita sul terrazzo condominiale e mi sono sdraiata al sole. Mi sembrava di rivivere, dato che in casa mia il sole non entra mai. Ho scoperto che quando prima del mio arrivo è stata rifatta la facciata i condomini hanno deciso di allargare il cornicione, per motivi che non mi sono stati spiegati. Forse volevano proteggere il lavoro fatto per evitare di dover affrontare di nuovo le spese.

Fatto sta che le spese le ha pagate il mio microappartamento, perché il nuovo cornicione gli ha tolto tutto il sole che invece arriva al piano inferiore. Forse questo spiega perché l’abbiano venduto.

Durante la pandemia il terrazzo è stato una grande risorsa. Finito il confinamento ho comprato un lettino da spiaggia per continuare a utilizzarlo e ogni volta che riesco a tirarlo su e sdraiarmi al sole mi sento subito meglio.

Per la prima volta il terrazzo oggi mi è apparso abitato. Al tramonto si anima, ma io non ci sono quasi mai. A parte la solita maledetta zanzara - il sindaco quello nuovo, quello bravo, quello a posto arrivato da Bruxelles ecc. si guarda bene dal fare disinfestazioni e dice serafico « Ci saranno zanzare fino a Natale, eheh ilcambiamentoclimatico eheh colpa vostra che usate i termosifoni eheh ». In realtà lo scorso anno, quando si era sotto elezioni, si era verificato il miracolo. Quasi nessuna zanzara. Potenza - climatica ça va sans dire - delle cabine elettorali.

La zanzara è stata affondata con un colpo violento nel maglione e poi debitamente scrollata via. Ci sono state presenze più interessanti colte tra una lettura e l’altra. Una farfalla, di quelle belle e bianche volteggia al sole, poi si schianta su un muro - come avrà fatto a non vederlo? - fa un balzo indietro e allegra e graziosa riparte verso l’alto. Poi viene verso di me, fa dietrofront e si allontana (-:

Arriva dai monti di nord est un uccello diverso dai soliti storni e piccioni. Vola molto più alto, le ali sono più grandi e battono colpi possenti, radi e regolari. Ha il collo lunghissimo e teso, l’attaccatura del petto sfinata verso il basso, il corpo affusolato. Vola verso sud ovest, verso il sole che sta calando. Sarà un’oca selvatica che migra in Africa? 

Si sente uno strano ticchettio. Mi sporgo dal lettino e vedo ondeggiare le corde dell’antenna della televisione. Sarà il vento, mi dico. Poi inizia a ondeggiare l’antenna. Poi l’antenna comincia a « friggere ». Un contatto? Starà per saltare tutto? Punto la sommità dell’antenna dove c’è attaccata una specie di graticola. Un picchio, io almeno lo ribattezzo per tale, aggrappato alla griglia sta tentando di perforare il palo di metallo che la sostiene. Ci prova per dieci minuti, con concentrazione e insistenza. Poi si mette a osservare il panorama. Quando alzo l’ultima volta la testa non lo vedo più. 

Invece dietro l’antenna è spuntata la luna. Mezza e giallo chiaro nel cielo grigioazzurro violaceo. Mi sa che le belle giornate sono finite. 

venerdì 28 ottobre 2022

Risotto monografico

 “Quella è una vera scarogna!” sento proferire solidale la voce femminile dall’altro capo del filo, mentre sto disdicendo l’ennesimo appuntamento. Che sollievo, finalmente qualcuno che mi capisce: alla vigilia di una delle rare vacanze mi ammalo, tento invano di salvare qualcosa di questo magnifico ponte, ma lo so che per me il raffreddore “che passa in tre giorni” comporta fatalmente una ricaduta il quarto e senza antibiotici non se ne va. Cosa che non mi fa amare tutti coloro che vanno in giro spargendo microbi pur di non stare a casa. Quindi disdici perdi soldi di biglietti resta inchiodata in una città antipatica tra fazzoletti, nausee e beghe burocratiche di certificati, ricette, software e quant’altro di ansiogeno.

Per farla breve il mio risotto di stasera per il Clan è una rivisitazione nello spirito del tema della settimana di un risotto famosissimo e di suo assai caricato: il risotto Vittoria di cui, buona ultima, ho scoperto l’esistenza poche settimane fa sulle pagine del Clan, pubblicato il 19 settembre da Alessandra Ruggiero, con cui mi scuso per non riuscire a linkare direttamente il suo post.

La ricetta è ovviamente semplificata da ogni coprotagonista. 

Risotto con i gamberi alla bisque di gamberi mantecato ai gamberi 

Riso

Sedano

Cipolla

Alloro 

Semi di finocchio pestati nel mortaio (si adattano divinamente ai crostacei e ai pesci più dolci)

Spumante

Gamberi (dovrebbero essere i rossi di Mazara. Io non li avevo e ho usato dei gamberi vulgaris di non so dove)

Burro

Olio

Bisque: soffriggere il sedano tritato in olio e alloro, unire le teste schiacciandole, coprire con acqua bollente e cuocere 40’.

Rosolare cipolla in burro e olio, tostare il riso bagnare con spumante, cuocere con bisque. Unire i gamberi.

Mantecare con gamberi crudi tritati molto finemente e amalgamati con un po’ olio e finocchio pestato.

Ci sono quindi gamberi in tre stadi e consistenze: la bisque ipercotta (non si butta via niente), i gamberi cotti e quelli crudi che aggiungono molto sapore.

Non c’è il parmigiano che proprio non riuscirei a infilare in un risotto con il pesce, mi sembra una forzatura tipica da stranieri...

Prima di tornare a tossire e mangiar pillole ringrazio tutti coloro che in modo molto lusinghiero hanno apprezzato il precedente risotto alla lampuga e zucca. Ad maiora.


Stavo dimenticando la fotografia:






martedì 25 ottobre 2022

Quando la grettezza ti lascia senza fiato perché scoppi di odio incredulo e il sadico lo sa

 Le giornate sono meravigliosamente calde. Ma in ufficio non batte mai il sole - il lato illuminato è riservato a quelli importanti, anche se ci passano un quarto del tempo nostro, se va bene - ed è buio freddo e quindi triste. Soprattutto la mattina che è la maggior parte del mio orario.

Morale ieri sera torno a casa con un bel mal di gola, squassata da brividi e tutta intontita. Il raffreddore per me finisce nel 90% dei casi attaccata agli antibiotici, malgrado tutte le ramanzine sui virus e le medicine inutili, altrimenti non se ne va.

Passo la notte a tossire, e stamattina inizia la corvée burocratica. Noi dipendenti pubblici si sa siamo da sorvegliare e punire per definizione unanime e bipartisan, da Berlusconi, Brunetta, Grillo, Monti, Cottarelli Dalla Vedova e tutta l’infâme +Europa che si porta dietro, a chi pubblicizzando la propria superiorità morale mai ha pensato di eliminare la normativa elaborata in merito da così repellenti personaggi. La nostra colpa principale è di essere un po’ meno ricattabili degli altri, quelli cui sono stati regalati il JA, i cococo dell’amato Prodi, la Biagi ecc.

Nel luogo vomitevole in cui lavoro una dirigenza inutile inetta incapace e misera ha deciso di rendere le cose più vessatorie possibili. In casi così ci si somma ovviamente la sfiga.

Riesco a comunicare la malattia solo tardi e per paura che sia troppo tardi avviso prima del problema causa del disguido non solo l’ufficio, ma pure il personale. Il quale mi dice di scrivere a una casella anonima per comunicare il contrattempo.

Poi il disguido per fortuna si risolve e riesco a espletare la procedura. Val la pena di dire che è la prima volta che mi capita da quando lavoro e stiamo parlando di decenni.

Poco dopo la casella anonima mi risponde, anonimamente, per dirmi che ho inserito tardi la malattia - vero - e per informarmi che nei permessi retribuiti (quelli per visita medica o urgenze familiari) da me richiesti ci sono due casi che non vanno bene perché trattandosi di permessi in entrata vanno calcolati dall’inizio dell’orario di entrata, che è flessibile - anziché come qualunque persona normale farebbe e come io e tutti abbiamo sempre fatto senza che nessuno ci trovi da ridire - dalla fine della flessibilità in entrata. Quindi i permessi da me chiesti verranno ricalcolati a partire dall‘inizio dell’orario, togliendoli cioè dalle ore del monte ancora a mia disposizione. Siccome lo stile è il tutto anonimo la casella non fa riferimento a nessuna norma che stabilisca quanto mi ha appena imposto.

Io, che già ho la nausea perché mi sento malissimo, ho solo voglia di vomitare. A quanto ammontano i permessi così richiesti? A due in dieci mesi, entrambi per meno di un’ora e per mesi che sono già stati calcolati come a posto con le presenze. Mi viene così sottratto il diritto di avere bisogno di un permesso retribuito per tre ore, dato che la flessibilità in entrata è di un’ora e mezza. Tre ore preziose per me in caso di bisogno, ma che non è detto avrei utilizzato. Tre ore totalmente insignificanti per l’amministrazione. Tre ore che rappresentano una vendetta perpetrata per nulla e sulla base di nulla su una persona che sta male, sia pure in modo non tragico, che si è trovata in difficoltà e ha cercato di mostrare la sua buona fede e nient’altro. Tre ore di meschinità gratuita che seppur meno gravi mi ricordano lo squallore senza fine di chi viene sospeso per avere mangiato uno scarto di mortadella alla luce del sole. 

Sento un rumore di tuono.

Quando si dice saper motivare il personale.

 

venerdì 21 ottobre 2022

Risotto zucca e pesce

 La temperatura in casa è ormai piacevole, oggi sono riuscita a arrivare a casa alle cinque e posso riprendere il gioco con i compagni del #Clandelrisottodelvenerdi che quest’oggi prescrive zucca e pesce.

Molto di corsa: a me il pesce piace tanto, ma crudo o marinato, esclusi i cefalopodi. Senza sale, spesso quasi senza olio. Faccio eccezione per una bella, vera spigola bollita, ma guai se scappa di cottura. Al vapore, se si tratta di conchiglie o cefalopodi piccini. Ricordo ancora come una delle cose più buone mai mangiate in assoluto un piatto di misto al vapore al Sambuco di Porto Garibaldi. Ma era prima di convertirmi al tutto crudo.

Tutto questo per dire che mettere il pesce in un risotto mi crea problematiche non da poco. Certo, il riso si addice al pesce molto più della pasta, ad eccezione degli spaghetti alle vongole.

Quale pesce, poi. Li’ la scelta era meno complicata perché da tempo rimuginavo un risotto che avevo dovuto saltare, quello dell’azzurro. E complice un giorno in cui ero entrata al supermercato per tutt’altro e ero rimasta impietrita davanti al banco del pesce ripetendo silenziosamente il grido della Creatrice, uscendone poi con questo mostro qui di quasi due chili:


Meditavo di infilarne un po’ in un risotto.
Zucca e gamberi o zucca e telline sono abbinamenti conosciuti: zucca e azzurro si poteva fare?

Risotto alla zucca con lampuga - parola che il correttore neanche conosce! Impara, impara...


Riso
2 pugni di riso Gallo che dice di essere Carnaroli
2 pugni di zucca a cubetti
1 cucchiaio di zucca grattugiata a microplane, unita a poco EVO
1 pugno di lampuga cruda e abbattuta a cubetti, rotolati in poco EVO e un pizzico di semi di finocchio
Qualche fettina sottile di lampuga cruda e abbattuta
    Attenzione: scartare tutta la buzzonaglia eventuale.
Vino bianco
1 piccolo pomodoro oblungo, di quelli settembrini che le piante del produttore sabino del mercato danno ancora
Semi di finocchio ben pestati nel mortaio
Olio EVO
Pepe
1 agrume misterioso del fruttivendolo egiziano che non è un limone né un arancio né una clementina (prometto di essere più precisa la prossima volta)

Brodo vegetale 
Cipolla
Sedano
Carota
1 stella anice
Semi di coriandolo
Scorza dell’agrume di cui sopra
1 ramo di pomodoro (idea che ho imparato tanti anni fa dalla magnifica Fabiana, scomparsa dietro ai souvenir canari e da me certo rimpianta)
Timo
1 pepe garofanato

Bollire piano gli ingredienti del brodo per almeno mezz’ora.
Far sudare la cipolla in olio - la lampuga proprio non m’ispira burro - unire la zucca a dadini, rosolare, pomodoro a fettine, rosolare. Unire in seguito il riso, girare, sfumare con il vino. Cuocere con il brodo ben caldo. 
Appena prima di spegnere unire i cubetti di lampuga. Spegnere e mantecare con la zucca grattugiata.
Nel piatto spremere qualche goccia di agrume a temperatura ambiente sopra il riso caldo.
Guarnire con le fettine di lampuga qualche stilla di EVO e un aroma appena accennato di pepe.
Il pesce resta morbido e a mio parere il migliore è quello della guarnizione che non ha avuto il tempo di scottarsi! Ma io sono di parte. P-:


Il succo di agrume impedisce al gusto troppo pronunciato dell’azzurro di prevalere. Però il pesce si sente e è piacevole come consistenza e come sapore. Li’ per li’ avevo paura che fosse esagerato e ci volesse piuttosto una sogliola o qualcosa di più delicato, insieme alla zucca. In realtà no.
Il punto debole è proprio la zucca. Che necessiti di acqua o di freddo, mentre entrambi latitano, non so, ma qui di zucche se ne vedono ancora poche e piccoline e soprattutto decorative. Al mercato, zero. Ho dovuto cercarla al supermercato, e non era eccelsa eccetto nel prezzo. Ora, la zucca è una gran bella cosa ma come tutto è migliore al suo tempo. Che magari arriverà fra un paio di settimane o tre. Pazienza, l’inverno non scappa, come sempre se qualcosa deve pazientare non è mai il risotto, piuttosto quella pacchianata ‘meregana di Halloween, prezzo o no...  - lo ammetto, la roba USA quale che sia non è ma tasse de thé (-:  

In conclusione zucca e pesce è stata proprio una bella idea!



lunedì 17 ottobre 2022

La sagra del merito

 L’occhio cadde su di loro. Erano proprio davanti a me. Due bimbi procedevano abbracciati davanti a noi lungo il binario del treno per Parigi in una sera di fine dicembre. Dovevo prender quello stesso treno. Capelli d’oro scuro, infagottati in abiti blu, gonnellina a ruota lei, la custodia nera di una chitarra sulla spalla lui.

Mi accompagnava al treno A. Al vederli  m’ironizzò con tenerezza all’orecchio: « Una fuga d’amore? ». Era improbabile perché apparivano davvero ancora bambini. Quattordici e tredici anni, avrei saputo dopo: non troppo presto per una fuga d’amore, ma raro. Saremmo infatti stati compagni di viaggio. Le nostre madri avevano combinato un appuntamento al buio per motivi di lavoro e si erano fatte accompagnare dai figli per una vacanza prenatalizia. 

Manco a dirlo in quel momento la mia situazione non mi invogliava per nulla a partire: capita, quando hai l’età dell’università. Il mio stato emotivo dominante in quei giorni era e sarebbe stata l’ansia per quanto lasciavo dietro di me. I due piccoli erano non innamorati ma fratello e sorella. Sul treno legai con la sorella maggiore. Malgrado la differenza d’età fu un’amicizia intensa - era ancora il periodo - e relativamente lunga.

Nel frattempo E. cresceva, diventando il classico sogno maschile del nostro tempo. Capelli biondi mossi naturalmente (un’INVIDIA nera! Ma avrei poi scoperto che lei, che aveva tutto, invidiava le mie forme. Sempre in senso buono naturalmente) visetto da cerbiatta, occhi allungati, bocca pronunciata, snella, alta, gambe chilometriche e grinta da vendere. Fisico da modella, in breve. Ma diventava soprattutto una donna determinata e sicura di sé, capace di cavarsela, brava a scuola e con un istinto ribelle che era fatto per rendermela affine. Dopo la maturità si innamorò perdutamente di un ragazzo e decise di seguirlo all’università fuori dalla sua città, interferendo con i piani di sua madre con gran rammarico di quest’ultima che più o meno le taglio’ i viveri. Per mantenersi fuori agli studi fece di tutto, incluso sfruttare la sua avvenenza sempre in verticale, ma ai limiti del compiacimento maschile altrui e del fastidio di sé, rubare di tanto in tanto qualche prelibatezza, come un pezzo di parmigiano che non avrebbe potuto permettersi di pagare, nei negozi dove facevano la spesa, apparentemente con il consapevole consenso dei proprietari.

Seguirono gli studi all’estero, altri amori e poi la compagna di classe. Una coetanea che lei aveva sempre adorato e descritto come Venere in persona, qualcuno strabordante di fascino che la teneva sous charme e aveva tutti gli uomini ai suoi piedi. L’amica era partita anche lei dalla città d’origine, senza proseguire gli studi, per ricercare una carriera nel campo di un mestiere che serbava un che di indeterminato. Dopo qualche anno l’aveva chiamata a sé in vacanza in barche di lusso sul Mediterraneo. E poi le aveva proposto di condividere una casa nel centro storico di una grande città dove nel frattempo E. avrebbe potuto iniziare a fare un tirocinio. Perché, riferiva la mia mamma dai discorsi della sua, le era stato detto che senza un minimo di esperienza non avrebbe potuto proporsi altrove. « Non posso lasciare l’amica mentre lei ha questa situazione » mi aveva soffiato E., sibillina. Avevo intravisto l’amica una volta e l’avevo trovata grottesca: un’isteria, voluta o spontanea che fosse, agli antipodi del fascino, e un fisico curato, si’, ma assolutamente non all’altezza della personalità di E. né della sua bellezza. Ma non doveva piacere a me: gli uomini ricchi, molto ricchi, davvero ricchi, non le mancavano. Buon per lei.

Qualche tempo dopo E. trova lavoro in una grande organizzazione sovranazionale, il che rientra nei suoi studi, anche se non nel settore in cui è specializzata « Non avrei pensato effettivamente di trovarmi a occuparmi di... » mi diceva i primi tempi. Hai visto com’è brava, entrarci è così difficile, è il che è settore difficile, lo vogliono tutti (all’epoca andava di moda), ma ha fatto un concorso? No, ha un contratto a tempo determinato, ma guadagna bene, sta comprando una bella casa, tanto glielo rinnovano... Evviva che bella cosa, allora studiare, impegnarsi, funziona, fatichi tanto ma tutto sommato ti piace e poi... e poi E. lo merita davvero, ne sono sempre stata sinceramente convinta, lo sono ancora.

La vita continua, E. incontra il compagno che vuole, fanno due figlie, è ormai stabile, non ci sentiamo più, la distanza, la differenza d’età, tutto normale, sono contenta.

Finché pochi giorni fa, cado in internet sul più improbabile dei siti, sulla più inverosimile delle notizie. Anche l’amica ha fatto carriera, più precisamente con un matrimonio da favola. Sì, proprio quel tipo di matrimonio lì, letteralmente. Ora, da dove proviene la favola di marito? Ma dal paese dove ha sede l’organizzazione in questione, naturalmente, che non è né il nostro né quello dove E. ha studiato né un posto con cui abbia avuto alcun legame in precedenza. 

Magari è un caso. O magari proprio no. 

E. ai tempi della loro coabitazione ha fatto da donna dello schermo tra l’amica, la favola e il ricco di turno. E quando la favola ha deciso di avere incontrato l’amica ideale, perché non ringraziare con eleganza una pronuba tanto essenziale alla sua felicità? «Fammi controllare il telefono che mi ha dato l’amica... questo telefono non deve esistere » mi diceva sempre più sibillina, ai tempi.   

Ora, io sono e resto convinta che E. il posto che ha avuto se lo è meritato e sudato. Sudato negli anni di studi e di lavori umilianti, sudato nell’impegno, nella determinazione e nel coraggio. Meritato per la sua bravura, la sua serietà e la sua grinta. Ma se non ci fosse stata quella conoscenza, sarebbe magari rimasta tra coloro che inanellano un precariato dopo l’altro, un giorno dopo l’altro, senza futuro e senza certezze, o con la certezza di non poter mai vivere liberi dall’angoscia dell’elettrodomestico che si rompe, della cura medica che la mutua non passa, del piccolo sfizio che è meglio rimandare finché non te ne verrà più voglia, della vacanza di cinque giorni che non puoi permetterti e magari ti sfogherai mangiando troppo pane e mortadella. Sono contenta che abbia trovato un buon lavoro e si sia costruita la vita che ha penato a raggiungere. Sono convinta che al posto suo avrei fatto probabilmente lo stesso, ammesso di esserne  capace, e che lei ha fatto bene a afferrare l’occasione che le si presentava. Sono anche assolutamente certa che ha agito per amore verso l’amica e non perché sperava di trovare una sistemazione grazie a lei. 

Ma. Sono anche certa, una volta di più, che le sviolinate sul merito, oggi, sono fuffa. Pura, pericolosa fuffa e pura esiziale retorica. Il merito oggi serve, a volte e raramente, per strappare una situazione mediocre rispetto al niente che hai. Il merito serve quando ci sono politiche di piena occupazione, per avere un lavoro che ti piaccia davvero e non solo uno stipendio. Ma per avere un lavoro che ti permetta di passare da un ceto all’altro, o di fare un minimo di carriera, nell’epoca della deflazione salariale, del pareggio di bilancio, dei tagli alla spesa pubblica e della disoccupazione non inflattiva che hanno bloccato da trent’anni la mobilità sociale, serve solo e sempre la stessa cosa: le conoscenze.   




domenica 9 ottobre 2022

Il compleanno

E sono ottantacinque. La mamma compie gli anni l’8 ottobre.       

Se non fosse che c’era un esame prenotato all’ospedale per mezzogiorno, avrei voluto organizzare una gita , per passare qualche ora fuori da questa città sempre irrimediabilmente sporca e fatiscente, malgrado le vanterie di quello bravo, quello nuovo, il sindaco ex-ministro arrivato da Bruxelles.

Tempo opprimente e appuntamento in un ospedale relativamente scomodo, non se ne parla. Però si passa la giornata insieme, cercando di capire cosa possa farle piacere fare. Attraverso Roma per arrivare fin lassù a piedi, per scoprire che suo marito ha sbagliato data di appena un mese. Pazienza, capita. 

Suo marito è desolato, disperato,: «Non sono più buono a niente! » dice quasi piangendo. Lei, che nella sua confusione mentale ha serbato però i gesti di protezione, lo guarda, lo accarezza, lo consola. Io sono lì davanti, commossa.

«Ti va di fare una passeggiata in centro o andiamo a cucinare il pollo? » La mamma per pranzo ha ordinato pollo arrosto, patate e uva e così sia. Stamattina ho fatto di corsa la spesa, trovando addirittura la sua amata uva fragola e preparato per la cottura. Una volta amava passeggiare per il centro di Roma, ma oggi è diventata come un bambino di dieci anni che di casa non uscirebbe mai, tanto più con un tempo pesante e uggioso. «Quale strada prendiamo? » «Quella in cui si cammina meno! » dice, come se fosse una vecchia cadente. Malgrado la sua età cammina tranquillamente per chilometri, perché la sua salute fisica è ahimé ottima e in vita sua non ha mai avuto l’automobile, perciò ha oltre mezzo secolo di allenamento. D’altra parte ognuno ha il diritto di passare il compleanno come meglio crede. L’autobus che dobbiamo prendere si fa come sempre aspettare e io sono dolorante, spiego alla mamma che stare ferma mi fa male: «Camminiamo, camminiamo su e giù davanti alla fermata! » 

Si torna a casa, che come sempre è un campo di battaglia che come sempre non ho tempo e energia di sistemare, soprattutto perché è molto piccola e mal disposta. Il suo vantaggio è di essere vicina all’ufficio e in stile umbertino, non quegli orrori di cemento del secondo novecento.

Un’ala di pollo, la sua porzione favorita da sempre, e poche patate! Poi però va a piluccarsele nella teglia che ho lasciato sul tavolo (-:

Le chiedo della nonna, non ho mai saputo quasi nulla dei loro rapporti. Di come le ha raccontato la sua nascita. Ma si ricorda poco e si confonde.

Da tempo il suo guardaroba è un po’ sguarnito, rifornito solo di quei brutti capi sintetici che si trovano al mercato, così irrimediabilmente tristi e stazzonati. Quest’estate ha sofferto tanto per il caldo. Ho scovato, nell’usato, un vestito che dovrebbe piacerle: materia un cotone fresco di grande qualità, colore neutro che lei ha sempre amato, taglio austero a parte due manichine a sbuffo - non porta più volentieri vestiti senza maniche - cosa rara in un periodo in cui le maniche corte sono diventate introvabili, a parte quelle brutte magliette unisex che cancellano la femminilità di chiunque. Anche a poter spendere, nei negozi riconvertiti al poliestere estate e inverno, oggi è difficile trovare capi così.

Le piace infatti molto, mentre da tempo rifiuta di provare qualcosa in negozio o anche solo di cambiarsi di abito. Riesco a farglielo indossare, sembra un figurino e se lo tiene indosso. Le do’ un paio di calze. Mando una foto a suo marito.

Ripartiamo verso la metropolitana che ci porta a casa sua. Passiamo davanti a un gelataio discreto molto apprezzato nel mio quartiere. « Ti va un gelato? » - una delle sue passioni. « No. » Nella regressione è infatti alla fase del « no »: qualsiasi cosa le si proponga sembra divertirsi a dire di no. Sfiliamo davanti al bancone: « Sicura? » « Tu lo prendi? » « Sì » « Allora lo mangio anch’io » fa, con gli occhi brillanti. Questa volta ci riesce meglio dell’ultima, ma devo comunque rispiegarle come si fa. « Era proprio buono! », dice felice. 

Riesco a farla camminare un po’ attraverso giardini e monumenti verso la fermata, a un certo momento risuona un bel concerto di jazz tradizionale, grazie al cielo senza ombra di rock. Lei è molto contenta del suo vestito nuovo, il tempo è migliorato e si sente indubbiamente meglio. 

Poi inizia il dramma della mascherina. Alla sua età e con un marito fragile se la deve proprio mettere. Ma lei non vuole, come si ribella a qualsiasi cosa abbia attinenza con la malattia. Per cui, mentre facciamo la fila per comprare il mio biglietto in una calca inverosimile - si’, perché il sindaco quello bravo, quello nuovo, quello ex-ministro arrivato da Bruxelles ecc., quello che qualsiasi cosa accada conosce una risposta sola: transennare e piantar li’,  non ha pensato a far funzionare le quattro macchinette quattro che sono ovviamente sufficienti per la stazione forse più turistica della città e i quattro diconsi quattro tornelli della stessa, due bastano e avanzano, non vi pare? - prima ne butta via una, poi accetta di mettersela ma poi appena entrate se la strappa via. 

Rifiuta in malo modo qualsiasi argomento da parte mia compreso quello che riguarda la salute di suo marito: «Non ce l’ha nessuno! » il che non è vero. Le persone più anziane e molte donne straniere, presumibilmente badanti, e anche qualcuno più giovane, ce l’hanno quasi sempre.

Per fortuna sbuffando accetta di rimettersela quando saliamo. Poi mi fa una carezza sul braccio. Suo marito ci aspetta alla fermata e fa grandi feste al suo vestito nuovo. Lei non parla quasi. Le chiede qualcosa e lei risponde a voce alta ma guardando verso di me: « Ti odio! » « Finalmente so cosa pensi di me » fa lui sorridendo. Spiego che ce l’ha con me perché la costringo a mettere la maschera. 

Li saluto per tornare a casa, ma sono invasa da un abbattimento triste. Lei lo legge nei miei occhi, viene verso di me e mi dà un bacio, un po’ freddo. Giro le spalle e torno via.

Ora, lo so che è malata, che ha paura di esserlo, che sa solo a metà quanto sia grave, che la attende un destino orribile e che tutto questo si somma alla capricciosità degli anziani unita alla sua innata caparbietà, pari a quelle di sua madre e di sua nonna. Lo so che non mi odia e non odia suo marito, ma ecco, finire la giornata su questo bémol mi pesa.

Ritorno nella metropolitana ormai per fortuna vuota, dondolo fino alla stessa stazione, oggi avrò camminato quasi undici chilometri e le mie ossa ringrazieranno,  il concerto è finito, ma appena esco da sotterra vedo la più bella luna rotonda con tanto di pianeta rilucente che si possa immaginare tra alberi e monumenti e, come sempre, m’incanta.

Dentro lo stomaco però rimane qualcosa. Doccia ben calda, letto, internet, libro, frutta secca e mezzo bicchiere di vino rosso, poi dormo.

La capacità di reagire c’è, ma offuscata dalla fatica pervadente per il peso sempre più enorme della situazione professionale (avremmo dovuto avere un aumento entro quest’anno, lo aspettavo per poi trasferirmi ma pare non se ne farà nulla perché hanno già assunto un’infinità di persone, probabile prebenda elettorale trasversale che non gli servi’ e ben gli sta) economica (ho provato a informarmi per un mutuo per una casa più grande e dove entri il sole, insostenibile sia dove l’avrei voluta sia dove sono attualmente) e familiare.

La cosa micidiale è la mancanza di prospettive di un cambiamento a breve e soprattutto medio e lungo termine. La cosa che evolverà senza dubbio è la sua lunga agonia e forse dopo la sua morte potrò comprare un’altra casa, a patto di restare senza risparmi - e ovviamente con la pensione contributiva dell’amato Dini, devastata da quindici anni di contributi non cumulabili da cococo del sempre amato Prodi. Il resto, nella sostanza immobile. Può essere una prospettiva che tiene in vita perché c’è rimasta la luna?

Oggi mi sveglio tranquilla, ma sono poco a poco invasa dalla tristezza.


martedì 27 settembre 2022

domenica 25 settembre 2022

La notte

 Benvenute piogge: dopo quattro mesi torridi si respira. Per la prima volta in vita mia do’ il benvenuto all’autunno.

Dopo una giornata altalenante torno a casa. Cena con candela, letto pulito con coperta, candela anche sul comodino. 

Chiudo volutamente fuori questa notte; candela anche sul comodino, Mozart sul cuscino, vedremo al mattino. Calma concentrazione.

giovedì 15 settembre 2022

Avere fame

 REGGIO EMILIA - Dagli scarti della mortamortadelladella si è preso alcune fette per farsi il panino, con il pane portato da casa. Ed è stato sospeso. È quanto denuncia un operaio dello stabilimento di Correggio, in provincia di Reggio Emilia, dell'azienda socio cooperativa Agricola Tre Valli che lavora per conto del Gruppo Veronesi. Il lavoratore si è rivolto a uno studio legale per fare ricorso contro eventuali sanzioni o addirittura il possibile licenziamento. Ma come riporta il Resto del Carlino di Reggio, ci sono anche altre posizioni al vaglio. Operai che hanno ricevuto una lettera di contestazione disciplinare dopo essere stati convocati dall'azienda.

Il caso nasce da ammanchi rilevati nell'azienda ben più gravi di qualche fetta di mortadella. Sono spariti soldi e anche due prosciutti (il responsabile in questo caso è stato già licenziato). L'azienda ha deciso di installare le telecamere. E dai video sono partite le contestazioni sui comportamenti di alcuni operai.

Anche quello del panino che, sempre al giornale locale, racconta: "Mi hanno contestato il fatto che durante il turno di lavoro, che dura otto ore, ho preso due fette di mortadella per farcire un pezzo di gnocco che mi sono portato da casa. Ho fatto uno spuntino nella mia pausa, dato che nello stabilimento ci sono alcuni distributori automatici che non bastano per 80 dipendenti e al pomeriggio sono già vuoti. I nostri turni sono pesanti, mangiare qualcosina per avere la forza di lavorare è necessario. Così siamo costretti a ricorrere a cibo alternativo. È ammesso e tollerato che i dipendenti utilizzino, per uso personale e in sede, salumi destinati allo scarto. Tant’ è che non ho mai cercato di occultare il salume. Ho fatto tutto alla luce del sole perché in buona fede".

L'operaio ha ammesso di essersi fatto il panino: "Capisco da una parte anche le ragioni dell’azienda nel dire che se tutti mangiassimo una vaschetta a testa, sarebbe un danno. Però quello era salume di scarto. Chiedo solo di poter tornare a lavorare e di non essere punito per due fette di mortadella".

 

La replica dell'azienda: "Non erano scarti"

“Gli alimenti sottratti erano destinati alla commercializzazione e non erano scarti". Sul caso interviene l'azienda del gruppo Veronesi con una nota. "A seguito di ripetute segnalazioni concernenti gravi episodi che si sono verificati all'interno dello stabilimento, l'azienda ha dato corso a una serie di accertamenti, poi sfociati con l'avvio di procedimenti disciplinari - viene spiegato -  L'azienda tiene a precisare che gli alimenti consumati dai lavoratori coinvolti nella vicenda non erano scarti della produzione, bensì intere confezioni di prodotti a tutti gli effetti destinati alla successiva commercializzazione. La vicenda verrà chiarita nelle competenti sedi, in esito alle procedure previste dalla legge".

 

domenica 28 agosto 2022

«Chiamami ‘Mamma’»

 Nella nostra mansarda delle vacanze di Ferragosto, davanti alla cena.

Giornate altalenanti per lei, ristorata dal fresco senz’altro, ma che appena passa una nuvola in cielo è colta da tutti i tormenti del mondo, ripete gesti senza motivo per ore, cammina avanti e indietro e pensa di soffocare. Giornate altalenanti per me, che ero così stanca dopo quest’ultimo anno di lavoro e stremata dal caldo da riuscire a riposarmi lo stesso pur dovendo badare a lei ogni momento della giornata, curando inoltre tutto il lavoro domestico. Altalenanti soprattutto perché non capisco fin dove spingerla in un’attività fisica di escursionismo moderato che regge perfettamente grazie a decenni di pratica e perché perfettamente sana tranne nel cervello roso da qualcosa che non ha ancora causa né nome né cura, in lei come nei suoi compagni di sventura. L’attività fisica le fa bene perché le allevia le ossessioni e perché è un allenamento neurologico fortissimo. Ma lei si ribella spesso e non capisco se e quando esagero io nel calcolare la sua fatica. Insieme ci stiamo volentieri, ma io ho poca pazienza con i capricci che a volte fa, in primis il soffocamento, e finisco con l’ignorarli. Il che porta i suoi frutti perché dopo avere implorato l'ospedale per due volte (ci si è già fatta portare a Roma ma sia in quell’occasione sia dopo visite specialistiche e esami non è stato trovato nulla di nulla), durante un paio d’ore, le intollerabili crisi di soffocamento che durano da mesi con sceneggiate napoletane di ore e giorni vanno fortunatamente scomparendo. Facendomi avanzare l’ipotesi che si tratti di rabbia per emozioni represse che non riesce più a articolare in parole, in discorsi compiuti. Sfacelo emotivo quando fai di queste riflessioni.

La chiamo mamma cinquanta volte al giorno, comunque, anche senza che lei me lo chieda, tra mille baci e carezze come abbiamo sempre fatto. Ora capisco che me lo chiede perché non ne è più sicura. Cerca conferma di una consapevolezza che sente sfuggirle. Ìo mi sento una roccia spaccata in frantumi da una forza sovrastante, paragonabile a quella di un’eruzione vulcanica.

« Come si può dire che io non sono tua madre? » mi dice con aria incredula e risentita, come se una presenza invisibile lo avesse affermato.

Cerco di prevenire, goffamente, con lo stesso meccanismo di un esorcismo: «Ovvio che non si può dire, non cominciamo con sciocchezze del genere, per favore. Come faccio se non ho la mamma?». Siccome nel disfacimento quello che lei ha conservato sono i gesti di protezione, o i tentativi di essi, tento di sollecitare questo istinto superstite. Vedo che ciò la fa ragionare. L’argomento è accantonato e non si ripresenterà più.

Tornate, lei è in campagna con suo marito. «È come se cercasse la sua identità. Mi ha chiesto perché dormiamo in un letto per due, se io fossi suo marito. Poi mi ha chiesto dove fossi tu, nostra figlia.» A parte che quest’ultima frase mi assesta un colpo di clava, perché io non ne voglio sapere cosa si dicono tra loro a questo proposito e per quanto non abbia stima dell’essere che fu mio padre non voglio subire altri sbalestramenti di identità, ma lui non sembra tenere minimamente conto di cosa possa significare per me riferirmi certe cose nel dettaglio. Io del chiamami mamma non gli ho detto niente. Poi arriva come al solito la pressione. Dopo decenni in cui qualsiasi momento passato con lei e peggio con loro poneva un problema perché lui NON mi voleva tra i piedi se non nelle feste comandate, adesso è ovvio che io debba essere a disposizione ogni santo momento in cui non sono al lavoro. Solo che io non reggo, e non reggo anche perché fino alle fasi intermedie della malattia non ha cercato altro che di tenermi lontana da lei tranne nei brevissimi tempi e orari in cui faceva comodo a lui. Adesso dovrei fissarmi a casa loro per tutta la durata dei week end, con lui intorno ovviamente, casa che sta a quindici chilometri dalla mia, che a Roma fa tre ore tra andata e ritorno, e trovarlo naturale. No, non è naturale. No, non mi è possibile organizzare la mia vita in questo modo.

No, il mio lavoro e le mie condizioni di vita sono talmente frustranti che ho bisogno di poter riposarmi senza sottopormi a altri stress. Ovviamente voglio vedere la mamma, ma se vado da loro, che non hanno nessun obbligo di nessun tipo, voglio poter gestire, salvo esigenze puntuali ovviamente, il come e quando. 

Insomma, questa estate abbiamo passato insieme con la mamma due terzi delle mie ferie annuali, con due viaggi al volante di millequattrocento chilometri l’uno dalla montagna e ritorno in meno di un mese. La settimana prossima mi sono organizzata dieci sacrosanti giorni per i fatti miei, ovviamente a settembre perché costa oltre un terzo in meno, e no, non posso rinunciarci perché ormai tutto deve ruotare attorno ai soli due poli lavoro-casa loro. Quindi propongo di riprendere il progetto non realizzato a giugno e che già aveva suscitato un mezzo maremoto, di andare fuori con la mamma due giorni per il terzo fine settimana di settembre. Ho bisogno di riposo, faccio un lavoro che oltretutto è di servizio e relazione, quindi sono molto spesso sulle richieste degli altri. L’anno appena trascorso è stato faticoso fisicamente e emotivamente, oltre al caldo soffocante e ininterrotto da quattro infiniti mesi. Ho bisogno di essere padrona del mio tempo, fare quello che mi va senza il programma e i limiti dettati da persone in stato di bisogno (notiamo che continua a non volere una badante), di stare con le persone che scelgo con i ritmi che mi sento.

Ho bisogno di respirare! E quando gli dico di no, insiste. Allora spiego che vado fuori. E mi sento un essere miserabile in briciole di vetro, e so che quando mi mette in questo stato passo giornate intere senza riuscire a fare niente. E basta! 

Ritorna alla carica con la questione della paternità: la mamma ci ha pensato e ha concluso, per fortuna, che io non sono figlia di lui. A questo punto glielo dico però: guarda che già in montagna ha cominciato con queste riflessioni. Non è che mi devi schiantare con una rivelazione. Io ti ho risparmiato, tu non potresti arrivare a capire che potresti farlo anche tu?

Insomma, io vorrei pensare alla mamma, ascoltarla, gestire il nostro rapporto come mi viene in queste che ne saranno le ultime strazianti fasi, parlarle quando mi va, (tentare di) fare i patti impossibili con questo dolore, senza caricare qualcuno che non può farci più di quanto non possa io. Invece devo gestire il suo smarrimento, unito al suo rifiuto di qualsiasi aiuto esterno, e francamente non posso senza distruggermi io. Non ce la faccio. E non voglio distruggermi.

giovedì 25 agosto 2022

Come dirlo non so

 Riemersa da un’ infinità di tempo una voce che percepisco come familiare, in un negozio dove sono entrata sperando di trovare un nuovo paio di pantaloni da montagna abbordabili, perché il disagio sul luogo di lavoro e la tristezza per la malattia della mamma mi han tolto la linea e l’alimentazione perfette conquistate grazie all’antistress che per me hanno rappresentato il confinamento e il lavoro a distanza.

I pantaloni non li trovo perché sono tutti alquanto brutti, comunque ai cento euro in su, oe non è possibile spenderli.

Trovo però la voce familiare, riemersa da un’altra vita e da altri decenni. Pronuncio un nome, si volta, non mi riconosce, del resto porto la mascherina come sempre al chiuso. Dico il mio nome, non si ricorda, devo spiegare come e perché. Allora risponde, resta interdetta, chiedo notizie della sua famiglia, i genitori non ci sono più, esprimo tristezza, le figlie cresciutissime, la casa grande, il suo compagno, il lavoro...

« Ti vedo bene però » be’ dopo il sole dei monti e con un vestito dal colore e foggia lusinghieri sì, si può dirlo, anche se si sa bene che il tempo non è passato lungi per lieti motivi. Lavoriamo a due passi letteralmente e tre dal negozio dell’incontro, provo ad accennare al blocco della carriera, alla graduatoria gettata nel cestino, all’angoscia che provoca il pensiero della pensione con il contributivo di Dini e quindici anni di cococo per cui ringraziare l’amato Prodi, per spiegare che sì, sorrido, ma il futuro e il presente non sono poi del tutto rosei. 

Impazienza fastidio, guarda siamo di corsa, dobbiamo fare ancora tanti giri, magari ci rincontriamo un’altra volta, chissà... Sì, certo, fra quindici anni...

Figlia di avvocati, compagna di imprenditore edile, con un ottimo posto pubblico in un settore entusiasmante, casa gigantesca in un quartiere centrale, sensibile alle questioni sociali, all’impegno, ovviamente. Simpatica, solare, pratica, calorosa... Purché non si tratti di vedere, semplicemente vedere, il disagio economico in qualcuno che ti ha circolato vicino per un decennio, che parla come te, che ha il tuo livello di istruzione, che potrebbe essere un tuo pari se non foste nate in due quartieri diversi, da due famiglie diverse, in posizioni sociali diverse. Mai mai mai questa gente della media borghesia saprà riconoscere come degna di niente una coetanea povera. 

Ormai mi danno il vomito, nemmeno più la rabbia.

Mi allontano sbattuta e disillusa. Avrei fatto meglio a star zitta, ché tanto come sia questa gente ben lo so. Stavo tra loro solo perché avevo il passaporto...

Vado a attraversare il grande viale poco lontano, riponendo la mascherina in una busta, quando una folata di vento me la strappa via. Per me è rosso, faccio per riprenderla, si avvicina un autobus, mi ritraggo di corsa dalla strada. Il conducente capisce che sto rincorrendo la busta della mascherina, si ferma in pieno incrocio, mi lascia andare a riprenderla senza mettermi fretta. Lo saluto calorosamente a gesti, riprendo la mia strada. Dalla gratitudine per un gesto di considerazione umana scoppierei in singhiozzi. Non ci riesco, non riesco a trovare le parole che vorrei fino a stasera, dopo due giorni in cui sono incapace di fare alcunché. Adesso riesco anche a sentire il pianto che scorre sulle guance.

mercoledì 10 agosto 2022

Il posto dei deliziosi brividi di freddo

 Ha un nome anche se non ho altre foto.

Sta sulla frontiera con la Svizzera e anzi i monti che si vedono sullo sfondo sono proprio svizzeri, nella fine dei Grigioni, una zona protestante in cui sussistevano isole cattoliche. La frontiera ha i suoi bravi doganieri che controllano le automobili, e fanno si suppone tutte le cose da doganieri. Ai piedi dei monti sui due lati della valle corrono nel verde dei boschi e delle siepi, a lato dei torrenti, altre due strade metà mulattiere e metà sentieri che se ne vanno allegramente dalla Svizzera all’Italia senza nessun tipo di controllo. La più bella è la strada che passa a ovest.

Finisce sulla porta dei campi di un monastero carolingio, ma carolingio sul serio, nel senso che la chiesa è stata in parte modificata nel XVI secolo ma conserva ancora un ciclo di affreschi del IX secolo e l’impianto architettonico dell’VIII e rimane ancora visitabile la torre del X secolo dove le monache hanno abitato fino al XIX secolo inoltrato. In Italia abbiamo certo edifici molto più antichi, ma un monastero carolingio di quest’epoca è altra cosa, uno dei luoghi più suggestivi che abbia mai visto, in cui vorresti compenetrarti in ogni pietra e ogni filo d’erba.

Gli affreschi restituiscono un’impressione di spazialità cui non siamo abituati, unita allo sfarzo delle cornici decorate, molto più vicine al tardo antico che al romanico. Potrebbero ricordare i mosaici ravennati pur con colori ovviamente meno vivi o quelli di Santa Prassede a Roma.

 Al passaggio, il XVII secolo ha lasciato tra quelle mura un piccolo organo portatile da processione che veniva usato anche per fare musica nel convento. Una badessa ha rinnovato una sala da pranzo e da lavoro in stile rococò bianco e azzurro. 

Pur poco propensa ai conventi non te ne andresti mai.

La valle è consigliata a chi cerca il fresco, la natura e la pace. Di giorno gli idranti inaffiano i prati più rigogliosi che abbia visto per varietà di piante. Non è uno spreco: cosa mangeranno altrimenti le vacche una volta scese dalle malghe?

Ecco, mi piaceva spiegare dove fosse un posto così apprezzato. Sono un po’ stanca e il post abbastanza sconclusionato, mi fermo qui consigliandovi di fare una puntata lassù quando avete bisogno di riposo e di relax.


lunedì 25 luglio 2022

Deliziosi brividi di freddo

 


La pioggia fuori dalla finestra spalancata.
Cucinare verdure lentamente.
Programmare una cena a brodo di gallina.
I monti.
Quello lassù dove vorrei salire e spero di riuscirci un giorno, amore improvviso scoppiato a prima vista due giorni fa. I monti fanno così.





mercoledì 13 luglio 2022

Il gelato

 La mamma non sa più mangiare un cono gelato.

Non è più capace, lei che me l’ha comprato la prima volta e le coppette non le ha mai volute.

Avere lo stomaco contratto e non sapere come né con chi piangere.

sabato 28 maggio 2022

Tempeste in arrivo

 Sul lavoro ovviamente. In un bicchier d’acqua o molto troppo più incisive, dannose o padroneggiabili, decisive o temporanee, in cui sarò sola o troverò  un improbabile solidarietà presso gente troppo preoccupata della altrui violenza verbale, chissà. Di sicuro in mala fede.

Devo resister fino alla fine dell’anno per poi sperare di riuscire a scappare, ma niente dice che mi daranno il permesso di farlo né troverò dove andare né altre mille cose.

Nel frattempo meglio evitare la tempesta, perché il periodo è breve tutto sommato e mostrare una situazione chiusa è meglio. Come vorrei una raccomandazione - per avere il permesso di uscire da lì del tutto e sul serio, mica per altro, eh. Ma che senso ha rimanere fedeli e attaccati a un luogo dove il primo dovere è paralizzarmi e il secondo tarparmi il cervello? Ma meglio una raccomandazione per andare sperabilmente dove quel che so fare possa essere impiegato per il bene della collettività anziché bloccato per tacitare le ansie patologiche di persone disturbate ma che non si deve disturbare perché « pas de vague », santo cielo.

Tanto la raccomandazione non l’avrò mai, perché non ho niente da dare in cambio se non il mio lavoro e le mie idee. A quanto pare è roba inflazionata di secondaria importanza.

domenica 22 maggio 2022

I passanti

 Ieri mi sono concessa due ore di passeggiata. Avrei voluto comprare un paio di pantaloni leggeri da abbinare a una camicetta con grandi maniche, ma erano finiti.

Tornando a casa vedo un ragazzo fermo in attesa di attraversare. Biondo, pelle cotta dal sole, con l’aria di straniero. Sta lì e non si decide, lasciandomi un po’ perplessa. La strada non è particolarmente pericolosa, né trafficata, così dopo essermi guardata attorno inizio a avanzare sulle strisce. Il tipo mi segue con andatura nervosa e mentre comincio a preoccuparmi mi guarda e fa: « You are very brave » almeno così credo. « Why? » rispondo io perplessa. « These cars are crazy!!! » fa lui. Eh, sapessi. Solo a Ferrara ho visto in Italia le automobili fermarsi, che dico, inchiodare, come anche le biciclette, davanti a qualcuno che vorrebbe attraversare. Non fossi stata brave avrei passato la vita in attesa di attraversare la prima strada che m’è capitata.  

Comunque fa piacere!

La settimana scorsa vado a una proiezione gratuita di un film sui combattenti della guerra di Spagna. Siamo a Trastevere dove sono tornati anche troppo numerosi i turisti. Camminando verso casa passo davanti ai ristoranti di Santa Maria in Trastevere pieni di gente ai tavolini anche se è molto presto. Un bell’uomo distinto, seduto in compagnia di un altro, mi guarda decisamente compiaciuto come chi vede arrivare qualcosa di bello e attraente, ma in modo educato, come si guarda una felice sorpresa. Ho un maglioncino bianco con scollatura a barchetta e un tailleur di lana grigia dall’aria rétro che mi piace molto. Potrei essere uscita da un film degli anni ‘50 e anche il quadro è perfetto.

Comunque fa piacere! 

Messaggi

 Dispiace dover ritornare sempre sugli argomenti meno ameni, ma che farci, la mia vita è così. Ci sarebbe per la verità un nutrito gruppo di medici costosissimi a completare il quadro, dentista in primis, ma facciamo finta che sia « normale » spendere più di uno stipendio per cure di base, perché ovviamente « nonpossimopiùpermettercididaretuttogratisatutti - celochiedel’EUropa »: ditele che s’impicchi: crepare per i ricchi no non ci garba più, si sarebbe risposto una volta.

« Ieri quando hai telefonato ho perso le staffe. Avevo sognato 48 ore da solo, una cena con i miei familiari senza di lei convitato di pietra, che quasi non ha toccato cibo e non guardava in faccia nessuno. Che cena è stata per me! Della salute non me ne faccio niente a queste condizioni. Non posso leggere un libro, lei sta lì  impaziente perché non sa che fare. Non posso scegliere un programma TV, devo pensare a cosa fare e fare da mangiare due volte al giorno (l’aiuto che mi dà lei mi rende più faticosa questa attività) N.B.: ricordiamo che chi scrive queste righe rifiuta categoricamente la sola idea di una badante, caldeggiata da noi tre figli dei due insieme - deo gratias concordi -  che sia per accompagnare in giro la mamma o per aiutare in casa un po’ più a lungo delle due ore settimanali della domestica. (...) La volta alla settimana, e non sempre, che vengono W o Y, che ora si porta anche Z (prole), sto da solo un’ora circa poi devo sorbirmi le solite chiacchiere. Smetto, ci sarebbe ben altro. Per quanto potrò andare avanti? »

 Premessa: accennavo due post fa a un fine settimana fuori con la mamma che stavamo programmando. Il giorno della partenza mi telefona una carissima collega per dirmi che i suoi genitori si sono ammalati entrambi di Covid. Tre giorni prima ci eravamo parlate a lungo animatamente al chiuso senza mascherina. Scema io ventimila volte, che l’ho fatto soprattutto per pressione sociale, perché ormai da me nessuno la mette e io passo per la solita strana. E anche perché a quanto pare continuare a proteggersi può portare svantaggi a lungo andare e finché si è più protetti meglio venire a contatto con il virus, magari in piccole quantità.

Ma loro due sono troppo anziani e lui troppo fisicamente debilitato perché io mi senta di metterlo a rischio passando tre giorni a stretto contatto con sua moglie - la mamma probabilmente ne uscirebbe, lei che, è atroce dirlo, ha meno da perdere oramai, lui no. Non è questione di « salute » come scrive lui, ma di vita. Fare un molecolare è presto e ad ogni modo non avrei il risultato in tempo. Gli antigenici sugli asintomatici (l’unica cosa che ho è un mal di testa atroce che ricorda la prima dose di vaccino) lasciano il tempo che trovano. Son cose che capitano. Seccanti, ma capitano, santo cielo!

Quindi cospargendomi il capo di cenere spiego che bisogna rimandare la cosa, disdico tutto e per fortuna che non mi fanno pagare penali. Sono realmente triste per tutto quanto e cerco di fissare subito una nuova data per il fine settimana del 10 giugno, il primo in cui potrò uscire dall’ufficio presto e partire godendoci anche il pomeriggio. Capisco bene la sua delusione e la sua frustrazione: quando sono con la mamma la mia vita non è diversa dalla sua ed è defatigante, dato che se lui è stanco per la vecchiaia io lo sono fisicamente e mentalmente per il lavoro frustrante e misero cui si somma quello domestico consistente nell’impossibile impresa di tenere ordinata e pulita una casa dove nulla ha un posto perché di posto non ce n’è - non ditemi di buttare i libri, le tovaglie o le pentole, grazie. Capisco meno bene il fatto che lui mi attacchi ogni santa volta come se io facessi le cose per mio capriccio o vantaggio, stavolta dicendomi che lui è depresso e chiudendomi il telefono in faccia: cosa ci avrei guadagnato dedicando un fine settimana al cambio di stagione e alla cucina per i prossimi cinque giorni anziché a una bella gita in luoghi a noi emotivamente vicini lo sa solo lui.

Questo mi infastidisce, ma la cosa che più mi secca e mi mette in difficoltà è il giudizio che lui non cessa implicitamente e spesso esplicitamente di dare sulla mia famiglia di origine che poi sarebbe quella dei parenti di sua moglie. Famiglia che lui ha fatto di tutto per tenere lontana, me compresa. Certo, la vigilia di Natale e il giorno di Pasquetta si andava a casa sua in città e in campagna, e qualche volta J andava a casa in campagna, ma per il resto, stai fuori dalla mia vista. E poi non cessava di recriminare non solo davanti a me, ma pure a sua moglie, quanto gli pesasse incontrare tutti i miei parenti che vedeva due volte l’anno e che lo hanno sempre accolto volentieri e con letizia. L’unica persona che lui apprezzasse era X. Ma ogni santa volta che io entravo in casa sua mi sentivo fuori posto: lui non era mai sereno, sempre impaziente e a disagio sembrava calcolare i minuti perché io me ne andassi. Il che ci poteva anche stare se non fosse che mia madre si sentiva obbligata a non lasciarlo solo per più di un paio d’ore e ogni volta vedersi era un problema di minuti contati, dovuto anche al fatto che loro due abitano a oltre un’ora di distanza dal quartiere mio e di W e Y. Questo mi è pesato molto, per decenni. Di fatto ha sottratto quasi ogni spontaneità al nostro rapporto di madre e figlia. Vedersi era diventato una trattativa e molto spesso lei veniva a pranzare nel mio ufficio mezz’ora per potersi incontrare. 

Ora non voglio raccontarlo per peggio di quello che è. Nelle situazioni gravi lui c’è sempre stato, anche di recente per il concorso, con consigli avveduti, ospitalità e economicamente, cosa quest’ultima che nelle mie condizioni ha sempre contato purtroppo più di quanto volessi. È una persona molto responsabile e previdente, ciò che nella mia famiglia è poco presente... Ma nel quotidiano non va mai bene niente. E non si priva di assestare delle frasi particolarmente cattive che qui non riporto, ma che mi hanno devastato più di una volta, anche se ho fatto di tutto per non fargli capire quanto.

Da un punto di vista pratico esistono solo palliativi, purtroppo, ma qualcosa da fare c’è e relativamente semplice: sarebbe d’aiuto sia avere una badante, sia fare un test RBD per tentare di capire se entrambi hanno in qualche modo risposto al vaccino o niente del tutto, sia accettare di parlare con il neurologo in caso di necessità, come il medico stesso ha richiesto. Infine rivolgersi a un aiuto psicologico per persone che assistono i malati di demenza che hanno anch’esse bisogno di attenzioni e sostegno particolari. Chissà come mai però tutte queste cose non vanno bene, anche se forse la visita periodica con il neurologo sembra intenzionato a fargliela fare. Telefonargli per i momenti di crisi, giammai: tutte le scuse sono buone.

La costante delle sue conversazioni, e forse qui ci avviciniamo al punto, è in un modo o nell’altro quanto sia cattiva mia madre perché «il problema è che non sopporta la mia famiglia » e quanto siano inadeguati i miei parenti settanta-ottantenni che, anche per ragioni economiche, « non hanno la macchina » e « su cui non c’è da contare » e « Tu devi sapere queste cose » riferito alla scenata di mia mamma a sua nipote o ad altri episodi spiacevoli molto personali. Entrambi gli atteggiamenti non mi vanno giù. Cioè, posso capirli, ma non mi va giù che lui venga da me a esternare questi sentimenti, perché anzitutto mi pare il colmo dell’indelicatezza e perché oltretutto ho l’impressione che lui si attenda o voglia provocare in qualche modo un mio giudizio su queste persone, ciò che io non ho nessuna intenzione di fare, men che meno con lui, né in generale, né rispetto alla mamma, né in merito al comportamento degli altri parenti verso una malata di una malattia non facile. Ma, e forse qui è il nocciolo del problema, pur essendo razionalmente convinta della giustezza della mia scelta, non farlo mi fa sentire manchevole, orribilmente manchevole nei suoi confronti, in quelli dell’universo mondo e di me stessa. Come se sprofondassi nel vuoto. On ne refuse rien aux amants de la mère... il faut pas être malpolie, sois sage... même au prix de ton intégrité physique.. souviens-toi... La France m’a sauvée, comment puis-je l’abandonner? Eh, be’, in circostanze del tutto diverse e con altre persone, sto cercando di dire « No », o come sarebbe più appropriato, di non consentire. E di non cedere. Ma questo è difficile, faticosissimo emotivamente, dopo tanti decenni passati a piagarsi nell’angoscia dell’incomprensibile. Oggi per dire, ho passato tre ore su questo post, invece di fare altro di più necessario o piacevole.

Torniamo un attimo a lui: è senza amici, salvo accusare me di rompere con tutti. Non ha allontanato solo i parenti di sua moglie, ché quelli alla fin fine non si scelgono. Ma tutti, chiunque tentasse di avvicinarsi a loro, lui ha sempre lasciato cadere la cosa, spesso lamentandosene come di un’ingerenza insopportabile, una seccatura intollerabile: conoscenti, vicini, amicizie di lunga data, della mamma e pure sue « Non siamo mai soli io e te ». Geloso, possessivo, chiuso, scostante, maldicente, pur con mille altre ammirevoli qualità, avvedutezza, attenzione, responsabilità, affidabilità, capacità professionali. Certo che adesso non sa con chi sfogarsi. Solo la sua famiglia e sua moglie. Solo loro, sempre loro. Suo figlio no perché non chiacchiera, sua figlia si’ perché chiacchiera, i miei parenti no perché sono le « solite chiacchiere », i nipoti si’ ma non vengono mai - hai provato a proporgli di fare questo o quello? - no perché ilcielolalunalenuvole. La mia mamma ne ha sicuramente patito, le sarebbe piaciuto avere una vita sociale di coppia dopo decenni di solitudine. Ma anche basta, con tutta la buona volontà di dare una mano, non ne voglio patire io.

À essere sincera, io pure detesto cordialmente sua figlia, perché la trovo falsa, manipolatrice, ipocrita, molto attenta al proprio interesse facendo finta di prendersi cura dell’universo mondo, prepotente, vacua, soffocantemente perbenista e conformista nella sua omologazione imbellettata di anticonformismo. La poveretta riunisce praticamente tutto quello che io aborro nelle persone. La evito accuratamente, certo e se dobbiamo stare insieme in occasioni sociali mi piazzo all’altro capo della stanza e guardo nella direzione opposta. Soprattutto da quando, a quattr’occhi, mi aggredi’ in maniera inaccettabile sulla questione della badante, come se fosse in qualche modo una decisione mia o della mamma e come se, in ogni caso, certe maniere fossero giustificate. Discuti con tuo padre, piuttosto e ad ogni modo prima di urlare informati, o almeno chiedi scusa alla fine. Macché. Poi, mielosa, davanti ai nostri genitori miagola melensa: « Ma ti accompagno io a casa, non vuoi? Proprio non vuoi?» « No. Grazie, no.».  Da allora, un ciao è fin troppo. Ma mi guardo bene di andare a soffiare un fiato in merito a chiunque! Magari si vedrà, ma si può sempre aver visto male ;-P.

Per fortuna invece con suo figlio le cose stanno molto diversamente e ho stima di lui, mi piacciono sua moglie e le loro figlie. Speriamo che questo non cambi! Perché ci tengo davvero.