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Toulouse en érasmienne

venerdì 31 dicembre 2021

Tanti auguri a me

 Eh, già, perché oggi è anche i mio compleanno! E mentre me ne sto a casa tranquilla con antibiotico in attesa del risultato del secondo PCR (il primo, negativo, secondo il medico l’avevo fatto troppo presto, quindi siamo a due) arriva il delizioso vicino, mascherato, con una coppa di champagne. E in un negozio mi hanno regalato un barattolino di miele.

Parigi è così: tutto si muove, sempre, e qualcosa succede, sempre.

E io l’amo. La France, c’est mon âme, ho detto il 31 dicembre di due anni fa. È sempre vero.


 

mercoledì 29 dicembre 2021

Punire il no dà

 Uno spettro si aggira per l’Europa: quello del no dà.

È uno spettro terribile: basta farne il nome per veder scomparire i blog. Chi ne ha, racconta che accada lo stesso ai propri profili social. Sarà quindi colui che noi non nominiamo. 

Ma cosa fa di tanto terribile codesta entità innominata? Svuota i conti in banca, grave delitto? No. 

Spara alle persone? Tira bombe dalla sua divisa con mostrine e bandierina? Neanche.

Entra in un teatro e sfodera il mitra? Pare di no.

Getta a terra le vecchiette con la borsa della spesa? Non risulta. 

Inquina laghi, mari, monti, atmosfere? Neppure.

Sversa rifiuti industriali nei corsi d’acqua? Non vi sono prove.

Traffica materiale pedopornografico! Ebbene, non sembra particolarmente interessato.

In dubio, pro reo? eh, la fai facile!

Sembra che faccia una semplice cosa: non fa qualcosa che non è obbligato a fare. Grave presunzione. Lo obblighiamo? No, eh, quello no... Gli rendiamo difficile non fare quello che per legge si può fare. 

Peccato che tra i simpatici modi per punire chi non disubbidisce ci sia la fenomenale trovata di rendere complicato e costoso fare i tamponi molecolari (PCR-RT). Ovvero, si rende difficile, lento e caro  l’accesso al principale e più sicuro metodo diagnostico di una patologia tuttora senza terapia accertata e con metodi di prevenzione dall’efficacia ancora non chiara, il tutto nel bel mezzo di una recrudescenza epidemica.

Géniale, no? Voi non ci sareste arrivati di certo. Io, di certissimo.

Quindi: ritrovati con sintomi in una città in cui non hai un medico di base, ma di cui ti ricordi perfettamente che un anno fa, quando codesta giovialata senza senso del lasciapassare è stata escogitata, aveva una rete di punti prelievo nei municipi dove entravi e senza alcuna domanda se non la ragione per cui ti serviva (viaggio, sintomi, guarigione o altro) passavi direttamente al prelievo, senza file e senza attendere un solo minuto. Francese o no, assicurato o no, prescrizione o no.

Chiaro? Civile, si direbbe. Soprattutto logico, dato che la diagnosi precoce rimane il miglior mezzo di prevenzione, raccolta dati e contenimento del contagio e quindi più la gente ti arriva da sola a farsi testare, meglio è.

Oggi no: oggi lo scopo principale è punire il no dà. Quindi ritrovati con sintomi e una discreta fifa a cercare un laboratorio che ti faccia il test, mentre i punti pubblici sono stati smantellati. Quasi tutti i laboratori funzionano solo su appuntamento e non hanno posto prima dell’anno prossimo. Io intanto ho male al petto e inizio a dare qualche colpo di tosse. Intendiamoci: sono sensibilissima a qualsiasi virus respiratorio che circoli e per questo ho poca indulgenza verso coloro che non hanno ancora assimilato l’adagio tutti siamo utili, nessuno è indispensabile e se ne vanno in giro raffreddati infischiandosene allegramente delle conseguenze per gli altri perché loro « Anche con 38° di febbre me la sono sempre fatta tutta in piedi. » andassero al diavolo e ci restassero. Lo scorso anno gente in quelle condizioni non usciva di casa e non en abbiamo patito, nossignore. Quest’anno vedi in giro persone che si strappano la gola dalla tosse e nessuno dice niente perché quella sana, utile e poco dispendiosa regola è scomparsa come altre cose di buonsenso.

Vado alla mairie e trovo che la sede è stata trasformata in un lungimirante quanto indispensabile centro per l’educazione climatica. Vado a un secondo indirizzo e lo trovo diventato un centro vaccinale. Sul muro ci sono appesi gli indirizzi di due laboratori, dove mi precipito: uno sta chiudendo e mi invia a un altro ben più lontano, dove per fortuna non vado. Provo con l’altro letto al centro vaccinale: il numero civico è sbagliato. Mi ricordo allora di avere letto il nome di un altro laboratorio ancora, ci riprovo. Gentilissimi mi spiegano che loro funzionano solo la mattina, ma mi danno il civico giusto del laboratorio che avevo cercato invano e che funziona il pomeriggio. Arrivo, c’è una coda considerevole, mi piazzo lì e aspetto, considerando che almeno per il momento non devo avere tempeste di citochine nei polmoni perché mi sono fatta a piedi Hôtel de Ville-Bastille-République-Bastille-République in due ore con tanto di sintomi che ogni tanto mi fanno pensare di cadere per terra. Mi sono fatta anche una bella sudata e questo aiuta. 

Ora, come ognun sa, mettere una persona raffreddata al freddo in coda in piedi è esattamente quel che ci vuole: ragionevole e profittevole. MA noi dobbiamo punire il no dà! E poi di che ti lamenti: ti abbiamo dato l’occasione di mettere una volta di più alla prova la tua capacità

Quando passo 



sabato 25 dicembre 2021

Di come cinque francesi, un senegalese, un’antillese e un’italiana decisero da idioti di sfidare il Covid

Aggiornamento: da ieri, sabato 25 ho mal di gola e pure al petto. Presumo che non c’entri o è il Covid più fulmineo del globo. Comunque non so se ridere o piangere. Speriamo bene...

... cantando. Al chiuso. Proprio la cosa più rischiosa che potessimo fare. Da incubo!

L’italiana, che è fifona, e al chiuso con più di una persona si converte all’Islam piuttosto che smascherarsi,  non si schiavarda di un millimetro la FFP2 dalla faccia e mugola così. Gli altri tutti smascherati, cantano tranquillamente per un paio d’ore. L’italiana pensa al furor franciscus e tace, sperando molto che il cielo gliela mandi buona.

Dunque: questo Natale per me quasi non è esistito fino all’ultimo minuto, per motivi che chi si prenderà la briga di leggere gli ultimi cinque o sei post capirà facilmente. Poi arriva un invito che lei accetta con gioia. Programma: canti e cena, in due case diverse ma con le stesse persone. Lei vorrebbe andare, ma ha una gran paura di beccarsi qualcosa. Perciò spiega che lei non si spoglia di maschera: « Vieni mascherata se vuoi » è la risposta.

L’italiana impara a brindare in meno di un minuto e a ricoprirsi di corsa, e soprattutto ancora una volta si sente sommersa d’amore per questo paese in cui tutti sanno cantare e leggere la musica, suonare, e quando si dice che si canta, si canta sul serio un pezzo dall’inizio alla fine e con convinzione, senza quelle cose mosce che si sentono in Italia, stonate e finite a metà. 

Quindi: due prove e poi si canta il pezzo dall’inizio alla fine. Mai avrei pensato di poter aver la gioia di cantare Rameau.

Dalle fette di barbabietola guarnite ai rotoloni di aringa polacca, kumquat a cioccolata, da Pasternak a Tuchacevski, da Draghi all’avanzo primario, i gas della guerra civile russa, il perché e il come della burocrazia stalinista, la figlia della prozia seduta sugli archivi dei partigiani durante una perquisizione della banda Koch, ancora una volta si srotolano le questioni mai assimilate del XX secolo.

Mai passato un Natale più tradizionale e laico insieme di questo e allo stesso tempo più rispettoso dello spirito originario della festa. Non è chi non veda come quel che si festeggia sia lo scorrere delle stagioni, il solstizio d’inverno e la rinascita del sole, la luce che comincia a ritornare poco a poco sulla terra. Mitra, Gesù, sono credenze infilatesi a forza per profittare della spinta a festeggiare con alcuni giorni di tempo sospeso (le dodici notti) il ciclo astronomico e stagionale in cui il lavoro rallenta e i ritmi della vita con lui prendono respiro. 

 L’amica che ha organizzato la serata ha in famiglia la tradizione del Natale canoro. Essendo però totalmente atea marxista e laica, ha riorganizzato il repertorio a modo suo, concludendo, in omaggio a me, con Bella ciao. Tocca a me spiegare l’origine di canto di lavoro e tradurre le strofe.

Ah, sì: siamo tutti vaccinati, per quel che vale.

Al ritorno mi ritrovo a rendere omaggio al Lion de Belfort che è giusto dietro la casa dove poso in questi ultimi giorni. Ritorno a casa contenta, incrociando qualche passante che rientra anche lui, carico di pacchetti: mi è piaciuto festeggiare, se non ci saranno conseguenze, è stata una bella serata.

Buon Natale.

mercoledì 22 dicembre 2021

Professionisti

 Rubare il cellulare al magistrato durante il processo è un bel colpo.

La risata di fine anno.

giovedì 16 dicembre 2021

Riso di Natale in bolletta

Ammetto che il mio risotto non evoca particolarmente Natale da un punto di vista gastronomico. Per essere sincera, non ho mai conosciuto un Natale più in bolletta di questo.

Natale per me è l’assicurazione della macchina. Solo quest’anno è scesa sotto i cinquecento euro. Siccome i dipendenti pubblici, si sa, vivono a champagne e feste, è da quindici anni che questo pagamento mi manda all’aria il bilancio del mese. Quest’anno bisogna aggiungerci il destino della cauzione per l’affitto dei mesi scorsi in Francia. L’agenzia ha confermato il suo carattere predatorio, attribuendomi una serie di guasti opinabili, soprattutto quello provocato sul piano della cucina dall’operaio venuto a aggiustare una perdita del precario impianto idraulico. L’operaio aveva detto che avrebbe comunicato all’agenzia di essere stato lui, ma l’agente ha cercato comunque di dare la colpa a me. Siccome in Francia ho sempre incontrato persone molto oneste, mi sono fidata e ho fatto male, a quanto pare.

Sicché devo vivere fino all’Epifania e fare il viaggio in Italia con quasi niente, per poi aspettare lo stipendio alla fine di gennaio. Lasciandomi dietro almeno trecento euro di debiti verso persone più oneste dell’agenzia, e con il patema per le spese che non posso onestamente rimandare e per il viaggio. E non ho voglia di ricorrere alla famiglia per un finanziamento supplementare, per di più, da quando mia madre si è ammalata, devo anche passare per altri.

Quindi: niente albero, proprio quest’anno che avrei finalmente avuto uno spazio per farlo, e meno male che non l’ho comprato appena l’ho visto - la lunga abitudine a risparmiare e rimandare qualsiasi acquisto per non cedere all’impulso ha giocato, trenta euro messi da parte.

Niente estrazione del dente che mi fa male da ottobre, speriamo in Italia di riuscire a farla gratuitamente all’ospedale.

Niente tastiera nuova della tablette e chissà fin quando riuscirò a far funzionare questa, che spesso e volentieri si fa d’ombra e non comunica più con l’apparecchio.

Niente menu natalizio, e speriamo che non abbia inviti fuori, perché pagare il conto potrebbe essere imbarazzante.

Niente serate al teatro di corte a Versailles, dove danno in questi giorni una serie di opere sconosciute sei e settecentesche che in Italia non ascolterò mai più e che adoro.

Niente compleanno, che sta per arrivare e che appunto avrei voluto passare all’opera...



Neppure niente indulgenze verso i meravigliosi banchi del pesce, del formaggiaio, del rosticciere, del pasticciere che occhieggiano da tutti i portoni della via della nuova abitazione. Niente datteri freschi e stillanti di succo mielato. Niente meravigliose pere né succo di mela appena spremuto. Niente amata choucroute. In Francia qualsiasi negozio di alimentari minimamente curato è una gioia degli occhi e del palato e la qualità media dei prodotti è decisamente migliore perché più artigianale. Pranzi a panini casalinghi, con scatoletta di tonno del supermercato mischiata a verdure sbollentate. Ecc. 

Ma non voglio guastare il Natale agli altri. Dopo tanto tempo senza partecipare, in un periodo popolato da pensieri piuttosto cupi, volevo comunque fare qualcosa per gli ultimi appuntamenti dell’anno. Prima di questo brutto annuncio, ero stata in pescheria. In pescheria non bisogna andarci con un’idea, solo con curiosità. In pescheria è il pesce che sceglie il cliente, non il contrario. E mi aveva scelto Lui. Lui è un pesce, ovviamente. Era freschissimo, enorme e lucente. 



Un cefalo dorato, a pulirlo. Anzi, una.



Interviene la Creatrice, che mi dice appunto che di cefalo si tratta, « mulet noir » dicono qui. Sarà il mio maiale: non si butta via niente.

Ci sto mangiando da un pezzo. Nello sportello del ghiaccio ancora un paio di porzioni. 

 Le uova, una sacca finita sotto sale, l’altra, rotta, in frigorifero.

Testa, pelle e lisca con verdure, alloro e rosmarino a fare un fumetto. Sarebbe stato molto bello poter metterci il raccomandato ginepro. Ma oggi che si ritiene di non avere niente in cucina se mancano tre tipi di cumino, non si trovano più né ginepro né maggiorana fresca, per non parlare del levistico, della santoreggia e di mille altre erbe di cui possiamo solo fantasticare. Un peccato.

Riprendo la sua idea e ne faccio un risotto. Come sempre, con quel che c’è.

Anzi, no. Lo scalogno, lo compro. Vado apposta in un negozio e lo compro insieme al latte. Uno solo. La commessa, africana, mi guarda e mi dice: « Uno scalogno? » Mi impappino, eh sì io non lo uso mai, ma mi serve per una cosa... Lei mi guarda con l’aria di chi la sa lunga. Non so se sia lo zaino sdrucito (sdrucito perché artigianale, ma non perché sia decrepito, non esageriamo!), fatto sta che mi regala lo scalogno. E poi mi fa pagare con la carta, e mi tende due caramelle di zucchero d’orzo che ha li’ alla cassa, lasciandomi confusa a morte, ma una volta di più éperdument innamorata di questo paese, malgrado gli imbroglioni dell’agenzia. 

Oui, mais à Paname, tout peut s’arranger...



Riso, 2 manciate

Finocchio, 2 falde esterne a dadini

Uova di cefalo

Fumetto di cefalo (io, ma direi che anche altri vanno bene)

Burro salato, 2 noci

Latte q.b.

Scalogno 1/2

Scorza di arancia

Alloro

Uova di cefalo sotto sale, a fettine 

Scaldare una noce di burro, insieme a abbondante scorza di arancia e alloro. Unire lo scalogno tritato, quando è lustro il finocchio a dadini, poi il riso. Portare a cottura con il fumetto di pesce. Sciogliere le uova di pesce in poco latte e unirle al riso poco prima della cottura. Mantecare con la seconda noce di burro salato, ben freddo. Servire con altre scorze di arancia e con fettine di uova salate. 

domenica 12 dicembre 2021

No, ma mi raccomando, il privato è sicuro e efficiente, mica come lo stato. Lo chiede la UE e i cocci sono nostri.

 À noi restano sindaci che chiedono aiuto per ruspe e pale. Sì, pale.

Eni « delisting » Italgas. Le privatazzazioni dell’amato Prodi.

Ma che bravo.

Ponti che crollano, tubi che scoppiano, cavi che saltano. Manutenzione che non rende, quindi non esiste. Sicurezza che costa, quindi neutralizziamola.

Ma che bella la privatizzazione dei servizi pubblici di marca UE. Delle aziende di stato, quando la nazionalizzazione dell’energia è stata una delle grandi conquiste degli anni gloriosi.

Ma come siamo moderni noi unionisti, noi. Così attenti a ciò che accade ai poveribimbidell’Africa, noi tutti adozioni a distanza, da non voler sapere più cosa accade qui, anche agli asiatici o africani, come mostrava qualche post fa. Che poi, i salari, che cosa volgare. Quanto è più facile parlare di clima, che lo sappiamo tutti il caldo che fa in case di cemento, come si fa senza l’aria condizionata, signora mia.

Come son brutti, ignoranti, rozzi e reazionari quelli che non ne vogliono sapere di questo mondo. 

Quanto siamo superiori, noi che sappiamo, noi che finalmente siamo le odierne contesse. Noi.

martedì 7 dicembre 2021

Dov’è l’usurpator?

 Forse nel nuovo contratto dei dipendenti pubblici che il governo sta preparando via Aran.

Non avevo mai ascoltato tutto Macbeth, per via della mia antipatia per i fantasmi, le streghe e per Verdi. Siccome però ascolto ogni volte che ne ho la possibilità l’inaugurazione della Scala, stasera l’ho fatto. Direzione elegantissima, musica misuratissima. Ogni tanto compare un fantasmino, qualcuno ha una visione, ma in fondo si tratta di persone molto educate e misurate, anche quando si pentono di avere ascoltato i consiglieri dell’inferno o scannano a destra e a manca. 

Una bella serata musicale, bei suoni, esecuzione piacevole. Una sorpresa.

giovedì 2 dicembre 2021

Al di fuori: la famiglia di X

 Continuare questo cammino di orrore non è facile. Tante cose sfuggono, tante cose svaniscono, se non le si fissa subito e non sempre si riesce o si può recuperare le parole. Mi sento in una battuta di arrresto, ma so che ci sono altre cose che devo mettere in ordine per riuscire a scriverle. Che si devono mettere in ordine, perché tutto questo non è fatto in modo razionale. È un magma che esce, viscoso, lento, invadente e coprente, crosta grigia, sotto è fuoco rosso e la fatica è tale che non riesco a portare avanti altro. Spossatezza. Soltanto quando non riesco a esprimermi, sprofondo in internet cercando non so cosa per allontanare quel che non riesco a dire.

Per il momento quello che esce dalla memoria mi frusta come se fossi in colpa, per non aver fatto abbastanza, per avere avuto paura.

X è il nome della persona che, adulta, ho più amato al mondo. Rapporti con la sua famiglia, di ceto medio alto, colta, progressista, nella generazione dei genitori e zii più alcuni cugini cattolica praticante e impegnata, inclusi una suora e un prete, formalmente sereni. Piccole onde, allusioni, una lontananza ricercata a suo dire, facevano pensare a un non detto, forse anche a una collera. Strani discorsi su suo padre, sua madre pareva un fantasma di cui non aveva alcuna stima.

La prima volta che andammo a trovare i suoi genitori, mi alzai per andare in bagno all’alba. Sentii dei rumori provenire dal soggiorno e convinta che qualcuno avesse dimenticato la televisione accesa la sera prima, aprii la porta per andare a spegnerla. Il padre, sveglio sempre molto presto, stava guardando un film pornografico. Feci del mio meglio per far finta di nulla, spiegare perché ero entrata e battere in ritirata. Dopotutto se uno all’alba vuole passare il tempo così, fatti suoi. quanto a me, io torno a dormire.

Ma qualche anno dopo, in pieno giorno, io sono nella vecchia camera da letto di X, dove era rimasto un vecchio schermo di computer dismesso, con una cassetta pornografica che va. E in giro ci sono i suoi nipotini, di cui il fratello ha appena iniziato le elementari e la sorellina va all’asilo. La madre di X capisce cosa sta facendo il marito (stavolta non da solo all’alba, ma con due nipoti bambini piccoli e una nuora in casa di domenica mattina) ma non sa spegnere il registratore, copre lo schermo con uno straccio e va a cercare X perché lo spenga, all’insaputa del marito. Entro io, e allo stesso momento entra la bambina. Io mi metto tra lei e lo schermo. Poi arriva qualcuno, forse proprio il padre, io tengo la posizione, esce la bimba e infine giunge X che spegne, spiegandomi che cosa fosse successo e ascoltando senza commenti quello che racconto io, un po’ perplessa da questo modo di procedere in presenza dei nipoti.

Io non avevo detto nulla a X di quel che avevo visto durante la nostra prima visita. Mi sembrava indelicato , anche se venne poi fuori che sulle abitudini del padre ne sapeva ovviamente molto più di me. Tornata a Roma, avevo scritto quella che mi sembrava essere una lettera di cortesia per ringraziare dell’ospitalità. La madre di X si era dimostrata in quell’occasione una delle persone più accoglienti della terra, e non fosse stato per quell’episodio che tutto sommato poteva rientrare in una mia improvvida invasione nella sfera privata altrui, suo padre era una persona interessante. La domenica mattina avevamo ballato con i nipotini mentre suonava l’organo del salone. Molti anni più tardi seppi che il padre di X aveva preso malissimo quella mia sincera lettera di ringraziamento e aveva avuto il buon gusto di dirglielo. “È come se volesse dirci: ‘Io osservo. Guardate che io osservo, eh.’ ” Magari un filino di sensi di colpa per essere stato sorpreso da una nuora guardando accoppiamenti da dietro, no, eh? Meglio colpevolizzare lei e soprattutto farlo sapere a X. Cobra. Maiale e bastardo, detto papale papale, specialmente con quel che mi è capitato di vedere in seguito. Ma non ho mai avuto il coraggio di dire a X quale causa avevo pensato che potessero avere quelle frasi di suo padre.  

Un paio di anni dopo la scena dello straccio, sempre occasione di famiglia, tanti bambini in giro e una quasi adolescente, dal fisico infantile, un po’ grossa, già con qualche forma ancora un po’ goffa, capelli folti e occhi neri entrambi molto belli. Subito prima di pranzo, trovo il padre di X sdraiato di traverso sul letto della ex camera della sorella di X, con intorno tutti i bambini. Accanto al letto, accosciata per terra davanti alle sue gambe semiaperte la ragazzina, la testa china in avanti, mentre lui infila due dita tra i capelli a massaggiarle la nuca e poi scende sul collo e si fa largo nella scollatura dietro, verso le spalle e sui trapezi mentre lei rovescia la testa indietro con l’aria completamente persa. In particolare spinge il dito medio, che essendo lui un omone è spesso e largo.

Si sa che il massaggio è un’esperienza molto piacevole, anche sensuale. Sto proiettando il mio turbamento su di loro? 

Quello che non mi torna sono le loro espressioni. Troppo eccitate, gli occhi semichiusi, quasi arrovesciati, la faccia di lui, quella di un dominatore su una “vittima”, qualcosa che si sente alla propria mercè. Quello non era un massaggio normale. Dati i precedenti della cassetta con nipotina in giro, la cosa mi piace sempre meno. Non mi scollo di un millimetro, finché non si va a pranzo.

La ragazzina inizia con slancio e entusiasmo le superiori in una scuola di sua scelta. Qualche tempo dopo è un disastro: non riesce più in niente, le fanno cambiare scuola. Per caso la rivedo, cerco di farla parlare. Dice di rendersi conto che quella scuola non va bene per lei. Il che può essere dopotutto. Tento di spiare nei suoi occhi, perché la sento trattenere qualcosa. Potrebbero essere solo il disagio e il fastidio di subire un interrogatorio da un’estranea, dopotutto. Perfettamente plausibile. La sento molto matura, come qualcuno che abbia in sé qualcosa di enorme, e guardi il mondo con occhi distaccati da tutto. Cambiare scuola può causare anche questo, no? Perfettamente plausibile.

Racconto a X quello che ho visto. Lì accade l’incredibile. X non mi manda al diavolo, non mi accusa di avere troppa fantasia, non mi dice che sto facendo del male, non difende suo padre. No.

X annuisce. 

“Cose tipo massaggi... no?” Eh, X, come fai a saperlo? X non risponde. Non risponderà mai.

Una cosa però l’ha detta, in un altro contesto. Il ricordo di essere in piedi su un tavolo, appena fatta la doccia, in accappatoio, poi senza. Suo padre l’asciuga, poi si informa se si masturbi e come vada. E poi? Com’è finita, X? “Non so, non ricordo.” Perfettamente plausibile.

E la sorella di X, madre dei bambini di cui sopra che dice, un giorno, scuotendo la testa con aria estatica, gli occhi brillanti, eccitata: “Mio figlio sta diventando talmente bello che io ho quasi paura a lasciarlo là. Paura che succeda.” Il bambino ha sei anni. E X che dice a me: “Y (nome della sorella) ha una teoria. Che succeda a tutti, alle bambine, che si facciano delle cose così”. Così come, X? Perché la teoria che tutte le bambine siano violate dal padre è la prima ipotesi di Freud, poi abbandonata a favore della teoria dell’Edipo. Non è di tua sorella che non ha studiato psicologia peraltro. X non spiegherà mai.

Ora.

Lanciare accuse del genere verso una persona, sia pure deceduta, non è un gesto da prendere alla leggera. Quando parlo di cosa è capitato a me, so. Sento ancora le mani di quegli uomini che me le misero addosso, le loro dita, ricordo i loro volti, le loro parole, il timbro delle loro voci. Sento ancora il disgusto in gola, la rivolta nel mio corpo e soprattutto la paura. La voglia di rivolta e l’angoscia che lo impedisce: ho davvero diritto o no? Sta davvero accadendo qualcosa di male, o sono io che vedo sempre tutto nero? 

Ma per quello che si è soltanto visto, intuito che potrebbe essere stato fatto agli altri, quanto credito dare alle proprie intuizioni? Anche adesso che lo scrivo, pur essendo da sempre convinta di quel che ho visto, ho fatto di tutto per trovare giustificazioni, per analizzare anzitutto le mie motivazioni, le mie paure, le mie ritrosie, la pruderie, le mie eventuali proiezioni. 

La prima volta che ho tentato di mettere delle parole su questo insieme di circostanze, non ce l’ho fatta. Letteralmente. Avevo la testa che scoppiava dalla necessità di dire e le parole che mancavano. Non potevo articolare. Ancora dopo avere scritto tutto questo non riesco a coniugare l’esplosione di energia verbale che premeva sulle labbra come tanti piccoli scoppi con le parole adatte per dirlo, che non ho tuttora trovato. Il silenzio chiudeva la lingua mentre i suoni premevano sulle labbra per uscire, ma non erano mai quelli buoni: come dire quel che non si può dire? Come darsi fiducia al punto di parlare dell’indicibile, di accusare? In che direzione andare? Da dove cominciare?

Eppure il bisogno di parlare preme. C’è qualcosa da dire, ma come collegare la cosa alle parole che diano  un senso, e quale? Lo so quale. Ma quali parole? Una strana paralisi di ciò che connette l’esperienza al linguaggio. Qualcosa che non si può accusare.

Ma non si guardano film pornografici con dei bambini per casa in una stanza di passaggio, con estranei ospiti, o, se proprio si fa, si spegne quando arriva qualcuno, non si lascia il video andare. E tutti hanno l’aria di sapere che accade qualcosa, ma nessuno, tranne forse la madre di X e Y, la nonna dei bambini, si adopera per fermare, per evitare. E in qualche modo inadeguato, io. 

Noi due siamo quelle al di fuori della famiglia. (Un giorno mi racconterà la fatica che aveva fatto per mostrarsi nuda alla prole, come voleva suo marito, ma non lei.) La famiglia ne terrà sempre conto.


lunedì 29 novembre 2021

Adaptation de Les illusions perdues

 E' un bel film.

Non ho letto il libro, la letteratura francese dell'ottocento per me va a buchi: Stendhal sì, Balzac no. Zola sì, Flaubert no. Certi autori proprio non fan per me. Quindi chi conosce e ama il testo potrebbe trovarlo estremamente deludente. Oltre ai tagli, i cambiamenti nella trama e nei personaggi sono notevoli, solo le prime due parti sono riprese e lo stile si avvicina di più a una biografia filmata di stampo USA. Ovviamente molte cose sono esplicitate rispetto a un testo ottocentesco oggi non più proponibile e probabilmente altre sono sottolineate, come il personaggio di Coralie, probabilmente poco più di un'ombra nel romanzo originario. Nel film diventa un personaggio a tutto tondo, forte e capace di iniziativa. L'attrice è scelta perfettamente per la parte, con un tocco di genuinità popolana e con un bel fisico paffuto e vivo, assolutamente non convenzionale.

Del film mi sono piaciute la delicatezza e l'indulgenza con cui guarda all'energia giovanile di un gruppo di ragazzi che cerca di costruirsi la vita che più ama in un mondo ostile e spietato, una certa crudezza nel non scolrire la brutalità dei rapporti di classe, il mostrare che le sconfitte non arrivano perché si è voluto troppo né per incapacità individuale, ma perché si è soli e si rifiutano i meccanismi di un regime economico predominante. Lo si può fare per una volta, come beau geste (la critica onesta che Lucien accetta di fare gratuitamente segna l'abbandono di un modello alla ripresa di una ricerca di altro che lo porterà fatalmente alla sconfitta), ma non costrircisi una vita stabile. Mi è piaciuta l'assenza di moralismo, e la scarsa parte data alla caduta di Lucien. Chissà poi se Balzac l'avrebbe davvero voluta, quella caduta senza speranza.

I vecchi negozianti benestanti, i vecchi mestieri artigianali dell'arte dei tipografi di provincia che Balzac conosceva bene stanno venendo soppiantati da nuove tecniche, prodotti e modelli produttivi in una società postrivoluzionaria in cui i rapporti tra gli strati sociali si stanno ridefinendo e dove aspirare a integrare modelli anacronistici rovina una vita che potrebbe svolgersi in modo ormai diverso. Questo apre spazi, ancora troppo asfittici per la riuscita di tutte le forze intellettuali di un paese in espansione, ma senza stato sociale a sostenerle.

Ovviamente è un film che vuole parlare all'oggi, e la sequenza che introduce la parte finale lo fa capire chiaramente con il linguaggio delle immagini che potrebbero rappresentare un sabato sera contemporaneo. Vuole parlare a una generazione, ormai la seconda ma in Francia forse la prima, che va venendo ripiombata suo malgrado in un modello economico di competizione e concorrenza - lo stato sociale e la piena occupazione abbattuti in ottemperanza alle nuove norme economiche UE. La Francia se lo era risparmiato finora, ma adesso sta toccando a lei.

E' un film sulla giovinezza, dove gli attori sono giovani davvero e spesso assai belli, e sull'amicizia - si è sconfitti quando si è soli. Sulla prostituzione intellettuale e fisica, sui piccoli bagordi che riscaldano con un'illusione di cameratismo, i ritmi di una vita da sciupare nella produzione di denaro che basta appena a sostenerli, non a dare stabilità e soddisfazione profonde. 

Più che un adattamento del romanzo lo definirei un'attualizzazione che sfrutta le coincidenze economico-ideologiche delle due epoche. Il regista utilizza il film e un registro popolare di film, per parlare dell'oggi. La Restaurazione del libro diviene la restaurazione del liberismo economico: e la generazione dei ventenni in cerca del futuro vi si trova confrontata, mentre i più anziani ve la spingono con compiacimento. I vecchi del regime prerivoluzionario hanno ripreso il controllo, sfogano il loro revanchismo e il loro sadismo, sui più poveri e sulle donne del loro ambiente, alla ricerca del predominio economico e sociale.

Il libro è ambientato durante la Restaurazione - si evocano del resto le restrizioni della libertà di stampa che potrebbero ricordare la prima ordinanza di Saint-Cloud, ma è scritto in piena monarchie de juillet, il film ha qualche ancronismo che lo pone tra le due epoche. Entrambe si chiusero con una rivolta che cambiò la storia di Francia. Che questo popolo determinato, fiero e consapevole, ricco di analisi e di immaginazione, di intelletto e rigore, di gusto riesca oggi a fare altrettanto contro la minaccia di una vita sempre più misera che le scelte politiche di una spietata Restaurazione economica, in cui l'Italia è ormai affondata da decenni, paiono riservargli.

 

lunedì 15 novembre 2021

Mario A G

 Ancora un risveglio in piena notte. Ancora parole che si agitano nella mente rapendo preziose ore di sonno, senza essere fissate su uno schermo o sulla carta, perché la mattina svaniscono e la notte mi esorto a riposare. Ma con esse svanisce anche ogni possibilità di concentrazione, lasciandomi in un sonno diurno a occhi aperti e annebbiati. Quante volte nelle mie notti parole così nascono mentre perdo i miei giorni più belli e preziosi invano. Per fortuna le strette di angoscia di un mese fa si allentano sempre più, adesso che ho scritto e parlato.

Ma resta ancora qualcosa che si agita domandando confusamente e convulsamente di essere fissato. Male, perché la scrittura è confusa, i motivi affastellati. La precisione, l’efficacia della trasmissione, un sogno. Sto traversando un curioso mare, una distesa di acque paludose come i marais del Cotentin, un percorso strano, invisibile nel viaggio come nella meta. Nulla vedo intorno a me di certo, non so dove vado, so della pressione del tempo che finirà ben presto e che da un punto di vista della vita attiva, sto perdendo. A volte sento frammenti di desiderio, spunti che mi spingono a minuscole azioni gratuite, solo perché mi va. Comprare un mazzo di fiori autunnali, le ultime rose e calle di strani colori affondate in un mucchio di foglie sempreverdi, desiderare una bicicletta, andare a leggere al sole. Imboccare una strada piuttosto che un’altra, gratuitamente, per il puro piacere di seguire una spinta istintiva. Riconoscere e dare spazio a questi barlumi, acchiapparli. Affiorano come segni di vita in una landa informe. Avrei bisogno di più tempo per ritornare a fiorire (se pur queste parole non stridono con la realtà) ma tempo non ce n’è. Tra due settimane dovrò  lasciare questa casa, il cui senso di protezione, nonché il fatto di essere una delle due uniche che ho potuto davvero scegliere in vita mia - e ne ho cambiate tante: sei da bambina, poi la prima dove sono andata uscendo da casa, quattro mentre abitavo al nord, di cui ho davvero scelto solo l’ultima, meravigliosa e antica, un’altra al ritorno, otto in Francia, di cui l’ultima è questa, la seconda che abbia davvero scelto. Diciannove case, ogni volta da ricreare, quasi mai da scegliere, bisogna adattarsi: più di così è impossibile fare, non ci sono i soldi. Presto ce ne sarà un’ottava, per poco più di un mese soltanto. Poi dovrò tornare, il lavoro da fare non fatto, un passo avanti contro l’angoscia forse sì e non piccolo, ma avrei bisogno di tempo e di serenità per ricostruirmi dopo essere forse, spero, non oso dirlo, uscita dalla tormenta dell’inferno, e fare emergere quel che è in me dandogli infine una forma. Mi dico che in qualche modo sono convalescente di una strana malattia, ma mi sento ugualmente in colpa.

Mia madre in quel caso non era esterna, estranea. Non aveva approvato il gesto, ma l’autore si. « Sai, aveva bevuto, poi me lo ha detto, gli dispiace, si è scusato », rispose, quando in un tentativo di parlare che sentii a posteriori inutile, le spiegai perché non avevo voglia di dire buongiorno al signore. Ancora confusione, ne parlerò nel prossimo post.

Mario, quello dell’altro post. Voce sonora senz’accento e senza enfasi, educata, statura media, abiti eleganti, magro e dritto, modi distinti e formali, distaccato, ragionevolmente istruito, familiare alla cultura più che colto, direi oggi e coglievo allora, capelli bruni e lisci, bella testa, labbra piene, sempre ben rasato, curato, consumi costosi. Un privilegiato, chiaramente, anche se ignoro la sua estrazione. In s é aveva una violenza rattenuta, come un rancore enorme e represso, palesato nel veleno pervasivo, viscido, trasversale, allusivo, opaco, sottilmente colpevolizzante con cui si esprimeva. Conversare era fare a botte con le parole anziché con gli schiaffi, mai per sviluppare un ragionamento, sempre per umiliare l’altro, brillantemente, schiacciandolo sotto le lucide scarpe, facendo aleggiare un educato stupore se avesse colto un lamento di quel che avrebbe chiamato « vittimismo ». Avrei ritrovato gli stessi modi in altri figli di buona famiglia. Mai a quel livello di compiacimento e di gratuita ferocia apparentemente serena, priva di enfasi come di imbarazzo, di chi si è limitato a enunciare l’ordine naturale delle cose a qualcuno troppo debole per accettarlo, per comprenderlo o per conformarvisi. Rivolta inane. Soddisfarsi non nel sviscerare un soggetto, ma unicamente al colare del sangue di qualsiasi interlocutore, come se fosse un avversario da veder steso ai propri piedi, per poterlo contemplare con freddezza prima di allontanarsi. Non esistevano neanche parole gratuite o utilitarie. Solo quello scopo c’era, in qualunque interazione. Anche quando arrivava con una bottiglia di champagne, o un vasetto di meravigliosa marmellata di fichi verdi che portò due volte, sembrava guardarci non lieto del dono, ma disprezzando i destinatari che lo festeggiavano. Era solo un altro modo di mostrare la propria superiorità e di incatenarci a una sorta di intrinseca malvagità, per me difficile da capire e da spiegare ma che in qualche modo sentivo scorrere sotterranea, sempre presente. Non ricordo di averlo mai visto fare un gesto di spontanea gentilezza o tenerezza verso mia madre, non dico verso di me. Non ricordo parlasse mai che di sé stesso o di politique politicienne (genere rassegna stampa di Radio radicale d’antan), ben diverso in questo dall’ambiente che noi frequentavamo, velleitario, se vogliamo, di corte vedute e superficiale talvolta, benché molto meno di oggi, ma cinico no, troppo modesto e ingenuo per esserlo. Questo era, piovuto nella nostra casa in un’ improbabile relazione con mia madre. Ancora oggi mi domando cosa lo avesse spinto verso di lei e l’unica risposta che so darmi è un perverso rapporto di sottomissione e dominio tra un disturbato e una donna fragile e sola, uscita da due tentativi falliti di costruirsi una vita completa di donna. Mi svegliavo la notte e la sentivo piangere sul guanciale mentre lui le parlava. La domenica mattina, quando agognavo il riposo, si alzava all’alba e si metteva a telefonare a voce altissima, o a lavorare al tavolo che era proprio davanti al mio letto, dopo avere alzato le tende. Sfuggente, andava e veniva a orari tutti suoi. Lei lo aspettava « perché lui ha avuto una donna che lo ha distrutto, gli ha rovinato la vita, e adesso... » Mah. « Perché io non posso fare come quando le telefonavo dopo una lite perché avevo visto Hiroshima mon amour, dicendole che era la nostra storia... » le lanciò un giorno lui in mia presenza. Mai visto quel film, non so di che parli, ma continuare a mettere sugli altri le immagini che ci siamo fatti di qualcuno non è degno di un essere adulto non particolarmente deprivato. Un tipo del genere, avendolo io sorpreso, oh quanto mio malgrado! Non avessi mai saputo della sua esistenza!!! con mia madre (e li’ settanta volte sette scema lei a non trovare un’altra soluzione per le sere in cui voleva vederlo) avvinghiati sotto le coperte sul letto del soggiorno quando ero stata costretta a passargli davanti per andare in bagno: « Ecco, lo sapevo! Che sarebbe arrivata! » doveva se non altro ristabilire il proprio ruolo di dominante. Giacché l’incesto è un gesto di dominio familiare e prevalentemente maschile dell’anziano sul giovane. A un certo punto decisero di comprare casa insieme. Andarono a vederne alcune. Poi tutto finì. Scomparve, con mio grande sollievo. Mia madre era triste, ovviamente. Una cosa buona ne venne: anni dopo, quando dovetti iscrivermi al liceo, mi fece prendere la residenza a casa sua, dove però all’epoca della loro relazione non andavano mai, perché il liceo richiedeva che si abitasse in una zona molto piccola del centro, limitrofa alla nostra casa ma appena al di fuori. Poi, buona, non so. Il liceo era ed è tuttora in un palazzo bellissimo quanto gelido (i termosifoni li installarono mentre ero al ginnasio), ma che sia stata la scelta migliore, chi può dirlo? Anche se non era obbligato a farlo, devo davvero essergli grata per questo? Riconoscerlo si, ma poi? Sentirmi comunque in debito con lui? Eppure. Eppure la catena del silenzio e dell‘ oppressione è ancora così forte da invischiarmi nel dubbio! sono esagerata, e poi tutto sommato è finita che ne hai ricavato qualcosa... Qualcosa???

Un giorno arrivò dicendo a mia madre che aveva la possibilità di entrare in un ottimo posto pubblico per via esclusivamente partitica. Militava in un partito, era entusiasta della nuova segreteria che avrebbe permesso di liberarsi delle vecchie correnti forse troppo audaci ai suoi occhi, e aveva all’epoca una sorta di sinecura nello stesso posto dove lavorava mia madre, allora un’importante associazione culturale e politica. Spiegò che le possibilità erano due, con stipendi ben superiori alla media: una meglio pagata di pianificazione, l’altra più tecnica, meno remunerata ma di maggiore visibilità e prestigio sociale, con ampi privilegi e vantaggi collaterali. Mia madre gli consigliò di scegliere quella dove avrebbe meglio salvaguardato la sua indipendenza. Scelse la seconda, fece una carriera non sfolgorante ma senz’altro più che buona. Divenne di destra, come il partito lasciava supporre, o forse semplicemente tornò alle origini. Oggi penso che quel posto potesse essere dovuto oltre che a relazioni personali, anche a un certo disegno politico di quegli anni. 

Una persona cieca all’altro se non come oggetto di dominio: in questo senso scelto bene. Incapace di sensibilità al dolore come al disagio altrui, totalmente preso da sé stesso e dalla propria supposta superiorità morale nei confronti del resto dell’universo. Questa l’impressione confusa che ebbi da bambina, senza poterla articolare, ma a che mi spinse allora a una rivolta che potè esprimersi soltanto nel rifiuto e che ritrovo ancora oggi.

Decenni dopo lo incontrai per caso, sul lavoro. La voce mi giunse prima di tutto, qualcosa prese a agitarsi  nel mio cervello davanti a un suono noto ma non familiare. Non la riconobbi. Poi si rivolse proprio a me, gli chiesi qualcosa, lessi un nome. Ancora non realizzavo, che avessi seppellito il ricordo troppo profondamente o che fosse incongrua la sua presenza lì. Mi avrà riconosciuta lui? Di certo era fisionomista: capi’ immediatamente chi fosse mio padre. Quando uscì iniziai a ricordare. Un oceano, una tempesta selvaggia salivano in me. Avrei voluto corrergli dietro nel cortile, urlargli di mettersi in ginocchio sul ghiaino e chiedermi perdono o lo avrei rovinato (cosa poco probabile date le rispettive posizioni socioeconomiche e la mia totale assenza di relazioni). Ero precaria esternalizzata all’epoca, praticamente con il divieto di alzarmi dal tavolo. Non osai muovermi, non osai uscire. O forse non osai credere che avrei avuto il diritto di protestare, di urlare, di farla tanto grande e tanto lunga « per una cosa così ». 

venerdì 12 novembre 2021

Avanti, continuo

 ... un’esperienza del genere lascia in una bambina un’enorme confusione. Perché io all’epoca ero ancora una bambina, nel fisico e nella mentalità.

Quella sera per me non c’erano parole. La mamma adorata non mi ha detto nulla durante tutta la situazione. Durante ha parlato solo a lui. Quando si è alzata e mi ha portato fuori per un braccio, era soprattutto seccata. Voleva finire con me al più presto possibile e ritornare in camera da letto. Non una parola per me, per spiegarmi. Io la guardavo allibita tirare fuori con gesti impazienti le lenzuola dal canterano, strappare il copriletto a righe variopinte dal letto singolo del soggiorno, rifarlo approssimativamente con gesti sbrigativi, pari alla sua indifferenza verso di me in quel momento, trovarmi una coperta di emergenza - faceva freddo - e poi mettermi lì dentro e andarsene. Senza un abbraccio, senza una parola, senza chiedermi come stessi, senza permettermi di parlare. Poche storie. Ma io ero appena uscita dal trauma di un’aggressione sessuale al limite dell’incesto. À undici-dodici anni. Non stavo facendo i capricci. Ammutolita nel terrore e nella paura di qualcosa che non potevo conoscere.

Io la guardavo, ed ero attonita. Avevo bisogno del suo calore, avevo bisogno che mi abbracciasse lei, nel suo modo rassicurante. Lei, che fuggiva verso quel letto di mostruosità.

Soprattutto avevo bisogno che mi spiegasse cosa diamine stesse accadendo. Un senso a ciò che succedeva. Abituata a vivere nella casa dei nonni, senza che lei avesse chiare relazioni stabili, il vederla fugacemente in coppia, sempre senza una spiegazione, era qualcosa che non avevo mai compreso appieno. Certo gli altri bambini avevano in genere una famiglia con due genitori, ma io non li vedevo praticamente mai insieme - i padri erano quasi sempre assenti quando andavo a giocare a casa delle amiche e non conoscevo né i rituali né le abitudini di una famiglia classica di tre persone. A tutt’oggi credo di avere un’idea molto vaga e indiretta di cosa sia un padre. Quando la mamma decise di andare a vivere con un uomo in un appartamento tutto per loro, non mi spiego’ nulla né della sua scelta, né dei cambiamenti che ciò avrebbe comportato. 

Mi portò in quella per me maledetta casa, mi disse che c’era una stanza per me e stop. Prima di trasferirsi, mi disse anche che un suo amico sarebbe venuto a prendermi in macchina per andare in un posto, e di farlo divertire per il tempo del tragitto. Io non capii nulla, mai mi aveva parlato in questi termini. Tentai di parlare, senza sapere bene di che. Ma quella persona si rivelò poi gentile e avendo anche lui dei figli, capace di interagire con un bambino e sinceramente interessato, in quella visita preliminare, a farmi parlare a capire qualcosa di me. Con i suoi figli, giacché poi mi toccarono fugacemente anche loro, non andò particolarmente bene. La figlia, un anno più di me, insopportabilmente egocentrica schizzinosa, e lui la portava in palma di mano. Il figlio, due anni di meno, decisamente troppo piccolo e con interessi del tutto diversi.

Ricordo che mi fece mangiare, in quella casa allora quasi vuota, forse la loro garçonnière, e che mi parve molto buffo e un po’ inquietante dover divertire un signore che mi spiegava come lui mangiasse i buchi del groviera e solo il pepe, che a me non piaceva, della mortadella. Qualcosa mi lasciava interdetta.

Però era innocuo. E mi guardava in modo in qualche senso paterno misto a curiosità. Forse è l’unica persona ad avermi guardato così. Il nonno è il nonno, sia ben chiaro, ma è un’altra cosa.

Fu molto meno semplice alzarmi una notte e trovare che dormiva, non è un eufemismo, nella stanza della mamma insieme a lei.

Mia mamma non mi spiegò mai perché noi dovessimo vivere con costui. Non mi disse nulla di cosa significasse per lei, del suo ruolo verso di lei né men che meno verso di me. Tutto sommato tirai un sospiro di sollievo quando scomparve. Lei no. Ne apparve un altro, e fu peggio. Pure questo non era libero (un vizio!), o meglio era separato in qualche modo, aveva una bimba poco più piccola di me. Non avevamo granché da dirci, la piccola era gelosissima del papà, comprensibilmente temeva di perderlo, e quindi delle attenzioni che lui riservava alla mamma. Non ne voleva sapere di doversi gestire pure una potenziale terza rivale. Come darle torto? Ma la mamma mi aveva obbligato, in quel suo nuovo modo tirannico, a giocare con lei, a stare con lei e soprattutto a comunicarle che doveva accettare la situazione senza fare storie, cioè a evitare di farla piangere. Quindi io non appena lei faceva una smorfia mi sentivo terrorizzata e sommersa dai sensi di colpa, per la mia inadeguatezza verso il compito richiesto dai desideri materni e perché con la consapevolezza di allora, ritenevo che il rifiuto di Barbara nei miei confronti fosse personale, il che distruggeva doppiamente la mia autostima. Avrei dovuto, secondo mia madre, gestire, quanto meno nel tempo che passavamo insieme, le angosce di una settenne che vede sfasciarsi la coppia genitoriale, il padre con un’altra donna e pure con la di lei figlia, avendo io forse nove anni e una scarsissima comprensione del senso di una coppia, che ad aggiungere incomprensibilità su incomprensibilità, non assomigliava per nulla a una classica vita di famiglia e mancava del tutto di stabilità. Cosa sarebbe successo adesso? Ne sapevo meno di loro. Bel colpo, madre! Ma come potevi essere diventata così rozza intellettualmente e totalmente cieca a ciò che è un bambino per soprammercato? 

 Barbara si ribellava contro la situazione e rivoleva il padre e la coppia genitoriale che aveva conosciuto, mentre io di ribellarmi non ero capace, sapevo che dai nonni comunque non si sarebbe tornati e mi lasciavo sommergere, inghiottire da questo nulla senza confini. Paralizzata dalla situazione, non potevo provare altro che la mia incomprensione di ciò che accadeva (nel frattempo mi era successo l’episodio delle scale). Peraltro Piero, diversamente dal primo, non era gentile né attento nei miei confronti. Noi figlie eravamo due impedimenti, ma anziché lasciarci altrove come avremmo desiderato, ci obbligavano a fare i terzi incomodi, o forse usavano me mentre lei era con il padre per tentare di tenerla tranquilla, laddove io avrei dovuto fornire compagnia poca spesa tanta resa e zero cognizione. Una volta mi strapparono dalla mia amata villeggiatura a Fiuggi con mia zia che passava le acque, per andare in un odiatissimo campeggio selvaggio nel parco nazionale d’Abruzzo, a vedere degli orsi che ovviamente non c’erano, scomodissimi in tenda sui materassini del mare, sotto la pioggia, dove finimmo per ammalarci di brutto tutti e otto, noi quattro e due coppie di amici di lui. Un’altra al Circeo, sempre in canadese, sempre scomodissimi, con Barbara sulle braccia che aveva paura del mare e frignava, mentre io sognavo solo di sguazzare otto ore al dì lontana da tutti costoro. I rimproveri senza fine perché io non ne avevo voglia: « Per una volta che ti porto in vacanza con un’altra bambina invece di restartene tutto il tempo a Fiuggi con la S. a non fare niente, tu fai anche storie? », « Ma come, tu fai sempre storie Gaeta Gaeta e poi ti porto al mare e non ti va bene? ». Gaeta era una vacanza ben diversa e lei lo sapeva. Fiuggi, non fare niente? Le sue urla uscire perentorie dal telefono, invece dei suoi saluti e dei suoi baci e io che non capivo: avevo sempre potuto esprimere il mio parere, i miei desideri e se del caso negoziare: « fare un patto » lo chiamavamo. Cos’era adesso, a partire dalla casa senza nonni, quell’impossibilità totale di avere una volontà che non collimasse con la sua? Quella necessità di obbedienza assoluta e adesione gioiosa al suo desiderio, annientando fin la consapevolezza della liceità del mio, fino a sfiorare, qualche anno dopo, la violenza sessuale? 

Ancora una volta, non capivo.

Avessi chiesto qualche cosa... dovetti tornare da sola in treno da Fiuggi a Roma,  azzeccare una coincidenza, con una certa preoccupazione, non avevo ancora dieci anni, e avevo paura di perdermi. Soprattutto avevo paura di tornare sotto la sua rabbia crescente ogni volta che le dicevo di no, che i miei gusti non erano i suoi, che le cose che mi imponeva di amare e accogliere con gratitudine, così diverse da quelle di quando eravamo dai nonni, non mi dicevano nulla, mi annoiavano o mi dispiacevano. 

Adesso capisco che in quel periodo tra i miei otto e diciotto anni i suoi desideri passavano avanti a tutto. Dieci anni infernali, soprattutto i primi otto. Lei voleva costruirsi una vita di donna, di amante, di compagna, cosa comprensibile, e io dovevo servire a renderglielo più facile, cosa del tutto sbagliata. Mai mai mai nel presentarmi tutte queste scelte ha pensato a me, a cosa volessi io, a come agire per rendermi più facile la situazione, a lasciarmi scegliere cosa preferivo fare nel quadro dato. Non era strano che mi sentissi spaesata: io non esistevo più, o il minimo possibile. Lo voleva, d’accordo, ma lei era l’adulta, lei aveva ogni potere. Io sentivo di perdere il suo affetto, sentivo che avrebbe voluto annientarmi, che avrebbe preferito che non esistessi, perché non volevo quello che lei voleva e soprattutto, reclamavo, senza avere le parole per dirlo, ma con fiducia in lei, il diritto di volere altro da quello che lei voleva. Non me lo ha mai riconosciuto, allora, questo diritto di esistere, di essere autonoma dai suoi desideri. La mia volontà, il mio desiderio, non dovevano esistere, non potevano essere riconosciuti, pena il rigetto della mia stessa esistenza. Sentivo, ma non potevo mettere parole su tutto questo. Mi sembrava che il mondo si fosse capovolto, ovviamente per colpa mia. Una colpa incomprensibile, perché quegli individui estranei, non particolarmente amabili, che importanza potevano avere, rispetto ai nonni, rispetto a noi, a me? Apriti cielo. « Sei solo gelosa! »

Il tutto, da parte di mia madre, sempre senza una spiegazione. Al massimo : «Andiamo  a... con Piero, c’è anche Barbara che è tanto simpatica, così tu non stai sempre coi grandi come quando vai dai nonni, che stai sempre con loro, alla fine, eh. », Ah, be’, allora.

Una notte dormimmo a casa sua. Io e Barbara ci guardavamo come le uniche persone adulte dotate di senno, capaci di restare reciprocamente cortesi nella vicendevole indifferenza in un mondo che aveva perso senso.

La mattina sentii dei colpi terribili alla porta, come qualcuno che vuole abbatterla, poi delle grida aumentare di tono. Mi dissi che dovevano esserci gli operai nel palazzo e tentai di continuare a dormire. Invano. Entrò mia madre, dopo un bel po’, mi fece alzare, malgrado le mie proteste che erano solo gli operai; Barbara si era già alzata e stava in piedi davanti alla porta piangendo in pigiama, terrorizzata. I due grandi erano in piedi davanti alla porta. Lui tentava di parlare alla persona che spingeva e gridava frasi incomprensibili, poi arrivo’ una terza persona fuori e tentò di placare la prima che di domenica mattina e con una voce femminile, sia pure sconosciuta, non poteva essere un operaio.        

Infatti era Stefania, la moglie di Piero e la mamma di Barbara. Che aveva il cattivo gusto, a sentire mia mamma, di non rassegnarsi alla situazione. In modi parecchio brutali, dato che la scena avveniva davanti alla figlia e davanti a me, che ne capivo sempre meno. Avevo otto o nove anni e per la prima volta sentivo parlare di separazione e divorzio, allora non così comuni, o meglio, magari ne avessero parlato. Mi trovavo in mezzo a una scena coniugale causa separazione non consensuale e non capivo cosa fosse. Il suo vocabolario era incomprensibile: « Sgualdrina, sgualdrina » cosa vorrà mai dire? Cercava qualcosa, un oggetto? Il tono era inequivocabile, ma con chi ce l’aveva? E perché?

Uscimmo da li’ con due poliziotti che tenevano Stefania per le braccia. Lei gridava, stravolta: « La sgualdrina! La donna coi poliziotti! » il che per il mio ambiente era un insulto molto peggiore di sgualdrina perché Police partout justice nulle part. La mia mamma con i poliziotti? Mia mamma aveva chiamato i poliziotti?  Impossibile. E poi, perché?

Anche stavolta, quasi nessuna spiegazione diretta, malgrado io abbia chissà farfugliato un: « Ma come mamma, ma i poliziotti non sono quelli che ci picchiano alle manifestazioni? Perché adesso li hai chiamati? ». Forse un: « La moglie di Piero non accetta la separazione e fa delle storie», detto con il solito tono spazientito magari nemmeno a me, ma a qualcun altro. Il che non è proprio il massimo dell’intelligibilità.

La sera stessa, o un’altra non molto dopo, eravamo a piazza Navona, sempre con l’eterno Piero e sempre con Barbara, accompagnata dall’amica che aveva tentato di trattenere Stefania quella mattina, senza riuscirci. Seduti al bar di fianco ai Tre scalini, o forse proprio ai Tre scalini, una cosa a pensarci ora, nel nostro ambiente praticamente inverosimile, un posto così borghese, costoso. Comunque niente gelato che costa troppo. Per i non romani, o per quelli più giovani, la specialità dei Tre scalini era il tartufo artigianale al cioccolato fondente, ben prima che esistessero quelli confezionati. Andrea, il mio primo ragazzo importante, anni dopo, amava invitarmi proprio lì, senza che io riuscissi a capire il vago senso di disagio che mi coglieva, malgrado la passione inveterata per i gelati e le scaglione di cioccolato nero da squaglio, oggi introvabile, grosse come due dadi di tavoletta. Parlavamo, e ecco ancora Stefania - avrà assoldato un investigatore privato? Ci pedinava? - piomba li’ e attacca a urlare. Barbara, che non so più se fosse con lei e dovesse tornare con il padre, o se fosse con noi, incomincia a piangere, forse perché non vuole più stare con il padre, e magari con due estranee per soprammercato - come darle torto? - io sto per piangere anch’io, perché non ne posso più di quell’atmosfera, di quelle persone, di questa bambina che mi sbattono addosso, che mi è estranea e piange sempre senza neanche essersi fatta male. Mia madre, durissima, mi fulmina: « Non ti metterai a piangere anche tu, adesso? Guai se lo fai,  eh. Non si fa, non ti permettere. ». Avevo nove anni. A un certo punto si alza, mi prende per un braccio, mi porta via, loro restano lì, e lei furiosa contro la povera Stefania, che certo era isterica e a suo dire manipolava la figlia, e contro Piero, perché si lasciava scuotere da quelle scenate, e forse, lui sì, dal pianto di sua figlia.  

Io, allora, non posso piangere. Io inghiotto la mia paura, e via, a piedi, di notte, stanca, trascinata fino a casa, sballottata, stordita. Sempre senza parole per me, per quello che ho dovuto subire per scelte non mie. La casa, che è quella casa, e le sue scale.


mercoledì 10 novembre 2021

Scrivo. E dovrei proprio scriverlo, con un grido e con terrore.

 Scrivo. E questa volta non è più questione di farlo dietro la lingua straniera, come ho fatto per altri due traumi catastrofici della mia vita. Quella lingua che lui ha permesso di parlare. Quella lingua che mi ha permesso di narrare, di fare una storia delle parole indicibili, indicibili perché, lo dico d’un fiato prima che mi si mozzi, perché raccontare nei dettagli alcuni gesti della propria madre è assumere e traversare una tempesta di vergogna come se ne fossi io la responsabile. Singhiozzi e termore. Ma mica lo so se ci riesco. Eppure, bisogna spezzare la congiura non detta del silenzio.

Scrivo per come ne ho avuto l’impulso l’altro ieri sera, da un posto pubblico in una biblioteca, dove non potevo aprire il blog per via delle manie di localizzazione del discretissimo google, che per proteggere la tua casella, si capisce, non ti lascia aprire la posta se non gli dai il numero di telefono. Molestatore.

Perché mamma, quella volta tu c’eri. Non eri in cima alle scale. Tu c’eri e l’aggressione è successa sotto i tuoi occhi, in una situazione che tu stessa avevi creato. E tu hai aspettato prima di intervenire. E quando sei intervenuta, mi hai sottratta a quelle mani, si’, ma non l’hai fatto fino in fondo. Mi hai lasciato davanti a quella presenza quasi quotidiana per un tempo che a me è parso lunghissimo. Forse non lo è stato, ma così io l’ho percepito. L’episodio è stato uno soltanto. Per fortuna. Molto meno invasivo del precedente. Ero più grande e tu, con il barlume di coscienza rimasto, sei riuscita a capire che dovevi fare qualcosa, e a farlo. Ma dopo, dopo, invece di mettermi al riparo da quella presenza, hai messo le mie forze di appena dodicenne davanti a quelle di un quaranta-cinquantenne, come se toccasse a me, ancora una bambina, sbrogliare quella matassa.

No, non toccava a me. Toccava a te spiegare a quell’uomo, dominatore, crudele, che odiava i bambini, che non sopportava di averli vicino - me lo ha detto tante volte - che riteneva i bimbi delle Zazie e nulla più, che voleva metterli a tacere ad ogni costo, che non avrebbe mai più dovuto rimettere piede in casa tua. Anzi, in casa nostra, dato che ci tenevi tanto a « avere la nostra casa per stare con me », salvo poi  tenermi il muso per mesi o anni, perché a me, abituata alla grande e animata casa dei nonni, quella situazione a due proprio non piaceva.

Ma evidentemente non piaceva neanche a te. Perché d’accordo, che i tuoi tentativi di fondare una relazione stabile, con mio padre e con un altro uomo, erano falliti tutti e due. Ma era forse il caso di esporre tua figlia a un essere siffatto, una volta che si era rivelato tale, e esigere da lei amabilità e cortesia verso costui?

Tu eri debole, mamma. Tu avevi bisogno di affetti. Disperatamente. E anche se ti facevi forte di una diversa morale, quella morale in fondo a te non andava affatto bene. Troppe mancanze nel suo fondo. Ma anche troppo amore per chi solo nella misura in cui accettavi quella morale avrebbe accettato te. E tu lo amavi sopra ogni cosa. Mio padre. Il mio maledetto, vile, intelligente, colto, appassionato, rivoluzionario, padre, impegnato fino a morire schiantato di delusione quando le prospettive ideologiche ed economiche (ma questa seconda cosa la so adesso) della nostra società mutarono, e quel mutamento gli impedì di continuare a fare il suo più amato lavoro, ovviamente anche quello politicamente connotato. Morire ovviamente lontano da te. Anche se a mio parere conta di più come si vive che dove si muore. E lui non aveva vissuto con te.

Quello che un giorno, vedendomi sdraiata sul vostro letto brucando foglie d’insalata esclamò: « Ah, perché non ho una cinepresa! » Credo sia stato l’unico slancio di vero affetto che l’ho sentito proferire nei miei confronti.

Ma in quel periodo mio padre non c’era, come del resto mai ci fu in modo stabile. Credo di aver dormito  sotto lo stesso tetto con lui forse tre volte e due non sono nemmeno sicura di ricordarmele. Adesso che ci penso, non c’è neanche nel mio certificato di nascita, l’ho sempre saputo, ma non son mai riuscita a guardarlo dall’esterno questo fatto. Dicendo che insomma, non è normale.

Insomma, la sto tirando in lunga per darmi coraggio. Ma fra un quarto d’ora devo uscire e quindi devo raccoglierlo, il coraggio, e scriverle queste parole tremende. Dopotutto non sono tremende per me. Sono tremende per lei. Ma perché oggi io mi devo sentire ancora di dover proteggere lei? Forse dopo andrà meglio.

Una notte mi svegliano dei rumori soffocati e incomprensibili. Dormo nello stesso letto della mia mamma. L’appartamento non è più quello dove lei mi porto’ urlante e scalciante la sera dell’Epifania di tanti anni fa. I prezzi degli affitti sono aumentati, il suo salario è diminuito. L’uomo con cui avrebbe voluto condividere quell’appartamento, devo dire assai bello, è tornato anch’egli da sua moglie (gli uomini sposati e confusi non sono un’esclusiva della nostra epoca). La padrona lo rivuole. 

Questo secondo è brutto, piccolo e inadatto a una madre con una figlia preadolescente. Affaccia su un cortile grigio di cemento. Ma è centrale e a te piace. Però ha due sole stanze: una sala, dove si entra direttamente senza ingresso, una cucina parzialmente chiusa, un bagno da un lato e una piccola stanza dall’altro lato. Dove ci sta un solo letto matrimoniale. E dove dormiamo tutt’e due. A me in via di principio la cosa non dispiace. Avevamo dormito in due letti gemelli nella stessa stanza a casa dei nonni e il cambiamento dell’appartamento non lo avevo capito bene.

Ma mai avevo dormito con altri. Come tu hai fatto quella notte, mamma. Perché io non dovevo essere svegliata dal vostro accoppiamento, con un essere sconosciuto, nel mio stesso letto. Perché c’era un letto singolo usato come divano nella sala. E io credo bene di avervici visto dormire una notte alzandomi per andare in bagno. E già la cosa non mi era piaciuta, dato che eravate semisvestiti. E quella intimità non mi piaceva vederla.

Forse avete pensato che ormai « sapevo » e quindi potevate installarvi più comodamente. Già questo sarebbe gravissimo da parte tua e sua. Anche se capisco che nelle nostre campagne era del tutto normale fino a pochi decenni fa. Ma la nostra famiglia non viveva in campagna e non c’era niente di normale. Ero paralizzata dallo stupore e non sapevo cosa fare. Non mi rendevo conto che avrei potuto uscire dal letto. Per andare dove? Quello era il MIO letto. Non il suo. Ma il peggio doveva ancora venire. Perché a un certo punto sento una mano sul mio pigiama, all’altezza del pube. Che mi gela. Che non mi piace. Che non voglio! No, non voglio. È il mio letto, vattene, lasciami in pace.

Non più lascia in pace. Io mi allontano verso il lato più lontano, ma il letto è piccolo e il suo braccio è lungo. Mi giro bocconi per proteggere il mio sesso. Mi tocca anche le natiche, non mi lascia in pace. Io non ho voce, non capisco, come può essere, cosa mi sta facendo? Io sono una bambina, so come nascono i bambini, ma non riesco a legare le due cose. Non capisco che senso abbia tutto quello che succede.

A questo punto mia mamma (inorridisco. Ma non dovrebbe inorridire lei?) articola « Lasciala stare ». E lui, « Le piace. Ma le piace. Lo so che le piace. ». A me tutto viene in mente fuorché il piacere. O quel che dicono proverebbero i bambini, cioè la curiosità. A me viene un disgusto senza fine. Paura, paralisi. Non sapere dove rifugiarsi. Non sapere dove sia il nemico, chi sia amico e chi nemico. Se sta con la mamma, come può essere un nemico?

Alla fine mia madre si alza, accende la luce, fa il giro del letto, mi prende per un braccio, mi trascina fuori dalla stanza, prepara l’altro piccolo letto che del soggiorno e mi mette a dormire li’. Poi ritorna da lui. Almeno mi lasciano in pace. Ma io sono sconvolta, atterrita e disgustata. Non riesco a riprendere sonno.

Qualche notte dopo, stessa scena anche se senza molestie. Inescusabilmente. Stavolta però è come se mia madre mi avesse dato l’autorizzazione a reagire, penso. Conosco la scena, mi dico. E così mi alzo, faccio il giro del letto, esco dalla stanza sbuffando e sbattendo la porta. 

E mi pare il minimo.

Qualche tempo dopo - giorni? Ore? « Non va bene che tu ti comporti così con Mario. Alzarti sbuffando, andartene sbattendo la porta. Se io ho piacere di dormire con un uomo nel letto tu non mi puoi fare ricatti emotivi. Se vuoi andare di là ti alzi, saluti e te ne vai piano piano. ». Come hai potuto pensare parole simili, preferirle e difenderle? Come hai potuto spezzare in me ogni coscienza del diritto sacrosanto al rispetto e alla mia integrità? Cosa diavolo avevi in mente quando mi hai detto quelle cose? Hai mai capito quanto mi avessero fatto male, sconvolgendo il mio orizzonte e la mia idea di limite fra bene e male, fra genitore protettivo e aggressore?

Devo uscire, ma non ho ancora finito.

giovedì 4 novembre 2021

Ma porca miseria!

 Allora: la persona con cui stavo trattando il mio amato spostamento, si sposta lei. Per andare in un posto che a me non piace per nulla e dove ad ogni buon conto non avrei spazio: ci sono già due persone entrambe molto più giovani e decisamente risolute, e giustamente, a non farsi pestare i piedi da nessuno. Quindi tutti i discorsi fatti, la sua approvazione, il suo sostegno, la domanda: niente da fare. Puff, perduto, svanito. Possibile che non lo sapesse già che era nell’aria? O è stata un’offerta dell’ultimo minuto, che non si poteva rifiutare? E si sarà spostata perché non si trovava bene là o perché preferiva il nuovo posto, sulla carta certo più prestigioso e meglio pagato, anche se, a mio parere, totalmente paralizzato dal contesto?  

Chi dovrà andare al suo posto chissà chi sarà e se mi vorrà. Inoltre, passerà del tempo prima che si preoccupi di chiedere a nuove persone di arrivare. A meno che non sia una soluzione interna, dovrà anzitutto capire in che luogo si trova. Se è una soluzione interna, avrà già gente sua, in una città più piccola. Per di più, chi mi aveva accolta più caldamente era proprio questa persona, non le prime a cui mi ero rivolta e che rimangono sul posto. Quindi si tratterebbe se mai, di arrivare in un contesto ben più freddo e meno disponibile. Peggio ancora, potrebbe arrivare un personaggio dalla pessima quanto meritata fama nel nostro ambiente. Con cotal persona qualunque convivenza sarebbe un suicidio. 

Sempre che il discorso rimanga ancora in piedi. Cosa poco probabile perché l’aveva avviato e voluto questa persona che ora se ne va e ci sono parecchi ostacoli burocratici da superare che avrebbero richiesto impegno assiduo e costante.

Inoltre lo scenario che avevo previsto nel post precedente si va consolidando. La morte di X ha aperto la via alla demolizione di tutto il discorso iniziato con X sulla struttura e al ripristino brutale, con malcelata soddisfazione, dello status quo ante.

Aiuto! Non posso dire che questo autunno stia passando senza sorprese; ma che esse mi facciano avanzare di tanto così nemmeno. Mi sento davvero un fuscello in balìa degli eventi. Soprattutto sono sempre più convinta di non poter ritornare fissa nell’istituzione dove lavoravo prima. E nemmeno nella stessa città.

Mapporca miseria. Ma questa persona non poteva aspettare che io mi fossi trasferita per partire verso altri lidi? Ma accidenti a costei!!! E anche basta. Di sfiga - giacché a questo punto tale è - ne ho avuta abbastanza in vita mia. Ecco. 

P. S. : alle mie implorazioni ha risposto ancora la sfiga. Non sono riuscita a aprire il divano letto che si ostinava a puntare i piedi verso l'alto per dieci minuti. Poi l'ho preso per il verso giusto. Ma ormai sono quasi le due, chissà cosa potrò combinare domani. Comunque se qui in qualche modo le cose si sistemano sempre, in Italia ogni volta è una situazione senza uscita, completamente asfittica, dove più cerchi di sfuggire e più ti invischi. L'Italia è un luogo senza aria né speranza. 

mercoledì 3 novembre 2021

Là-bas

 C’est que tout simplement j’aimerais aller vivre là-bas.

C’est mon désir.

Parfois on le dit, comme ce serait beau d’habiter là-bas - chacun a son lieu pour son là-bas.

Et puis, oui, mais euh, les difficultés, c’est compliqué. Le travail, les personnes, comment faire?

Et maintenant mon travail le permettrait, en principe.  

Ce sera pas la France, car c’est impossible, mais ce serait de mon choix et de mon cru, pas au hasard de la naissance ou de la réussite au concours.

Pourvu que les dirigeants de l’institution de départ me laissent partir. Et que les loyers soient suffisamment modérés: cela est un vrai cauchemar. De l’autre part, silence. J’espère qu’ils n’on pas oublié nos accords! Là, il y a un peu d’idée de persécution de ma part. J’en suis consciente, c’est que tout simplement j’y tiens tellement, et que mes chances me paraissent si minimes, au vu des prémisses car elles seraient parfaitement raisonnables en elles-mêmes, que je me méfie de tout.

Il faut attendre, encore attendre, toujours attendre... et ne pas déconner dans l’attente, car, je n’arrive plus rien faire à cause de cette anxiété vécue en silence (les dix personnes qui lisent ce carnet exceptées)!!!

martedì 2 novembre 2021

Nel giorno dei morti

 Mentre sono passati coloro che la esorcizzano con zucchero e varianti, mentre da tre giorni mi vanto di essere distrutta da sinusite, mal di testa e nausee, proprio oggi vengo a sapere della morte della sola persona in posizione influente che mi apprezzava fattivamente, mi aveva aiutato a portare le istanze della struttura là dove si puote e aveva mostrato l’intenzione di recuperare la struttura facendo fare ciò che da decenni non si è mai voluto realizzare. Precauzioni incluse, che adesso saranno passate sotto silenzio perché costano. Non disturbiamo. Andiamo avanti, tanto ormai la situazione è cambiata. 

Una struttura che per altri deve rimanere una cava, disfacendosi nel mentre.

Una persona capace di badare al sodo senza sentirsi sminuita dal mancato controllo delle formalità, delle precedenze, della sottomissione gerarchica. Una persona consapevole che semplificare la vita extralavorativa è il migliore modo di far lavorare bene chiunque. 

Una persona abbastanza sicura di sé da capire cosa sia una scala di priorità, la diversità degli approcci e delle indoli e l’importanza primaria del risultato e del buon risultato.

Una persona che non avrebbe mai proferito dall’alto della propria incompetente sicumera: « La forma è sostanza » né « Sei troppo indipendente », le due frasi degli incapaci che trovano sponda solo nel sadismo.

Una persona non scontata se non nella mesta conferma dell’adagio che sono sempre i migliori che se ne vanno.

Sono triste per questa morte, per le conseguenze su di me e sulla la struttura che muore anch’essa.

Allo stesso tempo il venir meno di questo minimo appoggio rinsalda ancora una volta la necessità per me di scappare a gambe levate. Il mio spirito d’iniziativa non è ovviamente mai garbato a chi avrebbe dovuto attivarsi e ha solo sopito e fatto sopire. Simpatiche conseguenze trasversali sarebbero nello stile. Dietro di me lascio macerie che non ho creato e che ho invano tentato per anni di ricomporre più o meno a mani nude, perché lo meritavano e lo meritano.

Mi piange il cuore, anzi no: da quando ho saputo ho le lacrime agli occhi, a pensare di lasciar depauperare una struttura come quella, ma non posso, cioè non ho il potere, di far diversamente, ora men che meno. E per quanto mi strazi il pensiero di lasciar la struttura alla devastazione silente, non posso e non devo estenuarmi dentro un’istituzione che permette e incoraggia uno sfregio simile, impedendo ogni recupero.

Sento che si sta chiudendo un lungo momento della mia vita, almeno quindici anni, nel complesso. Ho bisogno di chiuderlo perché non mi corrisponde più. Devo diventare altro. Ma non in quell’istituzione: ovunque li’ sarebbe impossibile. Lo sapevo già dal primo confinamento. Mi lasceranno andare? Riuscirò a scappare prima che arrivi qualche sadico ad aggiungere altre difficoltà? Quasi impossibile.

Addio X. Larguez les amarres!

sabato 30 ottobre 2021

Il groppo

 Risveglio nel cuore della notte. Fremito di paura. No, non ho sentito rumori sospetti, anzi sta cominciando a piovere e lo fa sul tetto di metallo delle case parigine. Un fruscio rassicurante sempre e senz’altro nei primi tempi che ero in questa casa.

Eppure sale la paura. Niente di incontrollabile, ma è pur sempre come sentirsi afferrati in uno strano luogo tra il petto e lo stomaco da una contrazione incomprensibile. Orami accade tutte le notti. E’ una novità, mai sofferto di roba del genere, prima. La mente si agita in cerca di una via di fuga. Ma non ne vede. Il giorno purtroppo non va meglio. Sempre attaccata a internet, per ore e ore, senza arrivare da nessuna parte, senza fare quel che vorrei. Senza alcun visibile vantaggio, salvo forse soffocare l’invisibile, qualcosa di vischioso che mi trattiene per i piedi e mi blocca l’anima.

Ho incontrato infine la padrona di casa. Le ho fatto i complimenti per il monolocale. Viene fuori che è italiana, dopo che abbiamo parlato più di un’ora e solo perché ci scambiamo i numeri di telefono. Non aveva capito che lo fossi, il che mi lusinga. Lei è arrivata qui dalla provincia, a diciotto anni dopo la maturità. Voleva studiare qualcosa che in Italia avrebbe richiesto altri punti di partenza. 

Fu suo padre a incoraggiarla a partire, già negli anni ‘80. Qui ha avuto una carriera rispettabile, ha incontrato e studiato con i grandi del mestiere e le loro scuole. Ha voluto e avuto una famiglia, almeno due case in un quartiere da sogno anche se non chic come altri, ma per come siamo fatte, non ce ne interessa poi così tanto, dello chic. Si, comodo, ma anche obligeant, un po’ di bohème allarga i polmoni e apre più orizzonti, alla fin fine. 

I genitori le comprarono il monolocale dove sono adesso io, appena arrivata. Studiare così, a queste condizioni, in pieno centro, con un bello spazio. Andare fuori stabilmente, non come l’elastico cui sono stata sottoposta io.  Costruirsi la propria vita in una città stimolante come poche. Una città dove le cose accadono, si evolvono. Dove si costruisce, si guarda, si pensa a come modellare il futuro. Parigi è questo. Qualcosa di vivo, in movimento. Effervescenza scientifica, culturale, artistica, economica. Roma è immobile. L’Italia è immobile.

Né lei né io sopportavamo l’Italia. Impossibile aderire a quel mondo chiuso, sottomesso. Le persone come le strade ci apparivano soffocanti. Mai avremmo potuto trovarci bene. La sua famiglia però aveva i mezzi per comprarle una casa in un luogo che la facesse sentire realmente parte di questo posto. Mia mamma, al di là di tutte le sue volontà, non l’avrebbe mai avuto. E questa differenza negli anni ‘80 ci sarebbe già stata. La Francia fino a Sarkozy - Macron era un paese che dava futuro e che queste differenze permetteva di superarle. L’Italia lo è stata per un brevissimo periodo. La mia nonna, anche lei figlia di una madre sola, perché era sposata ma il marito era fuggito chissà dove lasciando la moglie con tre figlie sulle braccia, crebbe con i geloni in affitto su una casa di ringhiera, peraltro nel centro di Milano. Con mio nonno finirono con il possedere quattro appartamenti, certo non in centro città. Ma i figli già incontrarono difficoltà a trovare un lavoro. Le uniche che se la cavarono furono le mezzane: tutt’e due dipendenti pubblici, una insegnante, l’altra impiegata credo come quadro. L’ultimo si becco’ in pieno la disoccupazione degli anni ‘80. Dei quattro nipoti, una è emigrata, l’altra vorrebbe farlo e ha avuto una carriera frustrante e una vita sempre faticosa. Un altro ha dovuto chiudere un’attività aperta con passione, con successo - e con tutti i risparmi di una delle zie di cui sopra, il cui marito divenne anch’egli uccel di bosco, perché i capitali vanno solo a chi già ne ha, aiuti UE alle piccole imprese inclusi - e oggi vive con il RDC. L’ultimo anche lui con un diploma specializzato, ha visto chiudere e smantellare il suo settore e vive facendo consegne, abitando insieme al padre. Se due di noi hanno una casa, lo devono a quanto hanno potuto accumulare i nonni. In Francia no. 

Purtroppo nella mia famiglia sono mancati i mezzi, relazionali e economici, per dirmi vai a diciotto anni. Vivere nascosti e protetti, non uscire dal nido: o anche uscirne, ma per tornare indietro alla fine della giornata, della vacanza. Altro sarebbe stato inconcepibile. L’estero non era un orizzonte. Aspettare non si sa cosa « lasciamo che passi questo momento » era la grande risposta di mia madre ogni volta che bisognava prendere una decisione. E io che pensavo si trattasse di qualcosa di grave che non sapevo, smettevo di insistere. Invece non era nessun momento. Era rimandare e respingere il pensiero della scelta. Oppure, i soldi. Non spendere soldi. A lungo ho pensato che i suoi rinvii celassero il segreto desiderio di affrontare tutto ciò insieme a mio padre, il giorno del mai del mese del poi in cui si fosse deciso a lasciare sua moglie come (poveretta, pure lei), come mille volte promesso.

In realtà probabilmente non era così, o almeno non era solo così. Mia madre è stata probabilmente una donna angosciata da mille paure che razionalmente ha tentato di non trasmettermi, ma che devono essere passate per altre vie. Paura degli animali, ad esempio, e per non trasmetterla mi portava da bambina tutte le domeniche allo zoo. Bellissimo, per me, ma la familiarità fisica con un essere vivente di un’altra specie mi è ignota e oggi di fatto neanche la vorrei. O forse vorrei un cavallo. In realtà mi sarebbe sempre piaciuto un elefante. Il cavallo è un ripiego. L’idea di giocare con la sua grossa mole e soprattutto di farmi sollevare avvolta nella proboscide mi ha sempre divertito. Io, comunque, cose economiche, mai. Non voglio darmi delle arie: non mi interessano proprio. Anzi, nemmeno le vedo, tendenzialmente.

Paura di guidare, e per anni mi ha catechizzato con la tiritera del si può vivere anche senza macchina, riconducendo la scelta a qualcosa di vagamente pasoliniano - lei peraltro non amava questo autore e per ragioni più che condivisibili, il suo moralismo, il suo compiacimento morboso per gli ambienti degradati.  Dati i pochi interdetti che mi poneva, tendevo a ricondurli a ragioni importanti, pur se per me incomprensibili in quanto bambina. Raramente insistevo. Mentre in me si radicava la necessità di una automobile, perché i viaggi che avrei amato fare con i mezzi pubblici erano impossibili, con buona pace dei greenismi oggi alla moda, e poi perché in città non hanno mai funzionato. Impossibile dimenticare le attese infinite per tornare da scuola e arrivare a casa spossata, o per andare il pomeriggio a fare attività di qualsiasi tipo, che finivo con l’evitare per non doverli più prendere, lenti, carichi, scomodi.

Nel frattempo arrivati a oggi, a questi ultimi giorni, da ormai tre settimane, non riesco a fare più nulla di studio, men che meno di scrittura. Nessuno mi obbligherebbe a fare certe cose peraltro. Ma vorrei farle. Solo, non ci riesco. Ho provato a riposarmi, a distrarmi, a prendere delle mini vacanze di qualche giorno facendo altro.

Non è servito. Finisco con il passare tutto il giorno in casa davanti allo schermo, cercando non so cosa, perdendo anche il tempo di fare cose che pure m’interessano e vorrei. E’ come se cercassi di riacchiappare qualcosa ancora e ancora, dietro quello schermo. Qualcosa che non so. Un sésame. Una chiave di una porta segreta. Acciuffare il vento che passa. Insensato, inspiegabile, insaisissable. Non capisco cosa sia, cosa possa essere, né quali siano i suoi pregi. In realtà è come qualcosa di vischioso che acchiappa me, inverte il giorno e la notte, mi sprofonda in un’esplorazione, in un tentativo di apprendimento che non esiste, che non mi serve, che non mi rappresenta, non mi soddisfa. E che non voglio. La vischiosità, la permanenza di qualche cosa. Questa è l’immagine che riesco a darne ora. So che è stupido buttare così, per qualcosa che potrei fare ovunque e in qualsiasi momento, gli ultimi mesi in questa città e in questa amatissima casa. Ma non è una scelta volontaria, ovviamente. 

È come se mi mancasse una misura, la misura. Il ritmo. Come se l’avessi perduto. Paura di qualcosa che possa sorgere di colpo dall’ignoto? Ma quale ignoto, dio mio? Retaggio personale, familiare? Non c’è nell’esterno, qui, un pericolo. Ci sarebbe al contrario sia pur con mille economie, la possibilità di gestirsi liberamente le giornate. Che sia quello che sotto sotto mi fa paura? Sfiora un interdetto inconsapevole? Vado contro mia madre? E contro i suoi interdetti inespressi? 

C’è un pericolo non fisico e non immediato in Italia, se non riuscirò ad andarmene. Ma perché riverberarlo sugli ultimi momenti di libertà, di gioia, di soddisfazione, di piacere, per autodistruggermeli? Perché allontanare la riuscita, concludendo i lavori che ho cominciato, per vedere aprirsi un futuro su una realizzazione, non su un incompiuto da rimandare in eterno? Da rimandare come il famoso « lasciamo che passi questo momento »? Non uscire dall’ordine materno?

Guardo la posta istituzionale, belle parole e volontà ossessiva dell’amministrazione. Nausea.

Guardo la casella personale. Silenzio da dove vorrei andare, nessuna risposta ai solleciti da parte mia che chiedo notizie. Nessuna risposta. Ansia. 

Da dove questo impulso incomprensibile di attaccarsi a internet per giornate intere? Bisogno di controllare l’esterno rinchiudendolo attraverso uno schermo, allontanandolo, a causa di un’angoscia interna delle cui cause sono inconsapevole? 

Ricerca almeno di un limite. Che non mi soffochi tutto il giorno. Non mi divori la bellezza.

Poi di notte, di colpo, il risveglio. Notte dopo notte. La paura forma un groppo in petto. Un brivido mi scuote. Controllabile quanto inspiegabile. Mai provato, prima.

Non capisco cosa mi sta succedendo.

giovedì 28 ottobre 2021

Sdegno rabbia dispetto spavento

 Girare li sento e fanno impazzire le giornate.

Credo di star a tal punto soffocando nella rabbia da non riuscire più a vivere nient’altro. Quel che peggiora le cose è la sensazione di solitudine assoluta in cui affronto la situazione lavorativa che somiglia sempre più a una prigione. Anche se fisicamente non me ne rendo conto, la rabbia per le scelte devastatrici dell’amministrazione è a un tale livello da imprigionarmi in un tale viluppo di ansia incompresa, inespressa e inesprimibile, soprattutto irrisolvibile, che per tenerla in qualche modo sotto controllo mi aggrappo all’iPad e ci passo le giornate sopra, in internet, cercando non si sa che.

Il che è stupido. Uscissi almeno e mi godessi Parigi, dove ieri c’era un sole favoloso e dolce - da agosto a ottobre sono i suoi mesi più belli. Le stagioni le hanno definite i Celti: qui il 1 agosto iniziava l’autunno, lontani ormai dalla mezza estate, il 1 novembre l’inverno, e infatti l’aria cambia, e il 1 febbraio la primavera, che è sempre fredda e bagnata, ma a maggio poi arriva l’estate e le sue infinite sere luminose. E mentre da noi, più vicini all’equatore, queste stagioni si confondono molto di più, qui restano quasi sempre molto leggibili e chiare. Io amo questo paese e questa latitudine. E l’altro ieri ho fatto la sera una lunga pacificante passeggiata lungo la Senna, da Hôtel de Ville alla Tour Eiffel e ritorno, in quell’aria a un tempo umida e calda che qui arriva dopo o prima delle giornate di pioggia. 

Ma il guaio è il giorno. Non riesco a combinare nulla, mi angustio, apro gli occhi con l’idea di mettermi sul lavoro, ne ho persino voglia, un piccolo esserino attivo e allegro si stiracchia dentro di me, sorride e non vede l’ora. Poi arriva un’enorme onda nera, mi travolge nella sua confusione, e non lo faccio. Divento un pesce che boccheggia nel suo ricciolo, ma non vede più la luce né il fondo del mare. Sommersa, svogliata, stanca. Bloccata. Scrivo qualcosa che mi riporta là, per questo inane tentativo di opporci a ciò che stanno facendo, sbircio ancora e ancora la posta da cui dovrebbero arrivare notizie dello spostamento, non trovo nulla, ed è fatta. Finita, la giornata passa attaccata a internet, senza uscire di casa, con qualche lavoretto domestico. E non capisco perché. Assurdo sprecare gli ultimi mesi che potro’ passare qui così. Buttando via, oltretutto, i tanti lavori intrapresi con slancio, curiosità e gioia e che questi ultimi mesi e settimane dovevano servire a chiudere, dandogli forma compiuta, permettendo un distacco che non fosse ahimé solo una perdita.

Almeno me li godessi passeggiando gli ultimi giorni, andando in uno dei tanti musei che ancora non ho visto, facendo una gita in uno dei tanti castelli di queste meravigliose campagne. 

Invece no: casa, internet, carboidrati. Perdita degli scarichi e l’agenzia che non manda l’idraulico.

Insomma: stress.

E furia. Soprattutto furia. Perché, come dicevo, ho la sensazione di essere sola a oppormi a forze soverchianti. Ora, lo so benissimo che quanto viene fatto non è diretto contro di me, né contro una persona in particolare, nemmeno contro cio’ che come gruppo siamo. E’ diretto contro i “costi” che la nostra area rappresenterebbe ad occhi profondamente incolti e ignoranti, perché ormai il criterio di valutazione del servizio pubblico è diventato questo, da quando la linea guida è il trattato di Maastricht, cioè la libera concorrenza anche nel settore pubblico, e l’idea di fondo di questa politica è che esso vada tagliato e smantellato finché non sia necessario appaltarlo alle sacrosante aziende per mancanza di risorse e personale, ma per farlo le prestazioni che dà vanno tagliate abbastanza da diventare redditizio per chi lo prenderà in appalto, perché quello che dovrà fornire sarà ridotto a un punto tale da costargli poco e permettergli un livello di profitti tale da soddisfarlo. E’ esattamente quello che sta venendo fatto con le pensioni (anche questo fa parte delle richieste della Commissione UE cui adempiere entro dicembre e Draghi ci sta lavorando, con i media al fianco mentre tutti strillano di vaccinazioni e altre amenità di distrazione). Ma un servizio pubblico non può e non deve essere redditizio come primo scopo: deve portare un beneficio di lungo termine alla popolazione, perché appunto è tutto fuorché un’azienda e soprattutto non deve esserlo. Deve migliorare le condizioni di vita delle persone, anche essendo in perdita a livello immediato se del caso, non fruttare quattrini a un gruppo economico-sociale preciso. E non dovrebbe venire meno alla Costituzione, che prevede pensioni dignitose e rimozione degli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana. Cosa quest’ultima che appunto il servizio pubblico puo’ e deve garantire. 

E’ questo il suo modo di essere redditizio.

Ma di questo ho scritto tante volte e si sa, chi non ha orecchi non intenderà mai né vorrà farlo né vorrà soprattutto saperlo.

Quello di cui non riesco a scrivere è la rabbia di sentirsi prigioniera che sfocia in angoscia e in ansia. Perché potrebbe essere quello a bloccarmi le giornate. 

Sul lavoro... mi fanno ridere quelli che straparlano di “presenza fisica” che sola può sviluppare la solidarietà. L’ilarità che suscitano la batte solo quella riservabile ai sindacati, che hanno firmato il nostro smantellamento con l’amministrazione e ora lo propagandano come un progresso e arrivano a imporre la loro decisione anche ai rappresentanti di categoria nazionali. Di solidarietà tra noi ce n’è ben poca, ci sono quelli che di questo taglio hanno fatto base per la propria carriera e si agitano perché non va abbastanza svelto, ci sono le legioni di indifferenti, ci sono i pavidi, ci sono quelli che si’ capiscono, al limite solidarizzano pure, ma ormai hanno tirato i remi in barca e lavorano solo per sé stessi, perché hanno più chance di farcela anche se sempre poche. Ci soprattutto i caduti dal pero, e sono così tanti ma così tanti che è un miracolo come tutti i peri d’Italia non si siano ancora spezzati sotto tale carico.

E questa cosa dio sa perché mi ammazza. Vedere con chiarezza la direzione che l’amministrazione sta prendendo e ritrovarsi a fare la Cassandra. Imprigionata e inascoltata, salvo poi cadere dal pero perché quel che prevedevo si è toh! verificato. Lottare per lasciare con dolore un posto che vorrei solo veder fiorire, perché ci sono le potenzialità e un solido sostrato e meriterebbe di essere tenuto con la dignità che gli spetta. Il solo vantaggio di questo furor demolitorio della dirigenza è avermi almeno tolto i sensi di colpa per la voglia di scappare, ma il dolore di veder distruggere una struttura costruita in lunghi decenni con sapienza, intelligenza e cultura e che sarà saccheggiata e uccisa non finisce, non scompare ancora, malgrado tutto, non riesce a uccidere il desiderio di darle un destino diverso. Sarà che per me le cose hanno un’anima anch’esse, la loro distruzione non si abbatte su entità prive di sensi, di senso e di dolore.

Se penso alla fuga, le cose non vanno meglio: penso che potrei trovarmi bene dove andrei, non benissimo perché il lavoro che davvero vorrei fare è già preso da altre due persone di cui una più anziana ma l’altra coetanea, quindi me la dovrei sciroppare fino alla pensione e non è detto che mi assegnino a quel servizio. Ma ormai posso anche starci, almeno spero, a non fare mai remunerata quel che avrei voluto e studiato. In questo momento sono così stanca di lottare e faticare che vorrei tranquillità. Soprattutto tranquillità, ma una situazione indegna come Roma non me la puo’ dare. 

Quel che mi angoscia sono i prezzi degli alloggi là dove vorrei andare, l’idea che non troverò mai un luogo dove posare, luminoso, bello, comodo, asciutto, silenzioso, con un ingresso, due stanze, una cucina vera, un bagno, una vasca da bagno, un terrazzo assolato, il riscaldamento non elettrico e davanti il verde e magari se ci fosse il mare. A distanza di passeggiata dall’ufficio. Come chiedere la luna. 

Davvero dobbiamo pensare che sia troppo? Che non rientri nell’esistenza libera e dignitosa?



 

martedì 26 ottobre 2021

La situazione è anche peggio di quel che avevo previsto

 Se non fossi un dipendente pubblico oggi avrei vissuto la stessa cosa che hanno vissuto i dipendenti della GKN, della Whirlpool, dell’Alitalia, del Monte dei Paschi di Siena o del Sole24Ore, per non citare che i più recenti.

Alcuni di loro peraltro complici delle politiche che hanno portato a questo disastro. Per non averle denunciate. Per averle propagandate. Per aver sostenuto chi li aveva portati sull’orlo del baratro e oltre.

Nella mia amministrazione i ritmi di smantellamento si accelerano.

Qualsiasi spiraglio di soddisfazione professionale, se ancora l’amarezza e l’impotenza ce ne avessero lasciati, viene spento dall’alto in una politica il cui unico senso è tagliare, probabilmente poi per esternalizzare.

Io non malediro’ mai abbastanza gli artefici di questa demolizione dei servizi pubblici da Prodi in poi. Con la UE dietro a incalzare perché i servizi pubblici devon aprirsi alla concorrenza, e perché come scrisse la BCE bisogna diminuire i salari dei dipendenti pubblici, e loro, da Prodi in poi in perfetta consonanza bipartisan, vili o interessati, chini a obbedire al bastone del capo.

Mai mai mai ci saranno parole sufficienti.

 Stiamo vivendo la cosa più vicina a un licenziamento e a un taglio del salario che si possa vivere nella pubblica amministrazione, almeno con la normativa attuale. Ma con Draghi, Franco e Brunetta si può solo migliorare.

La cosa più straziante è che non ti lasciano andare.

Ti disprezzano, ti degradano, ti impoveriscono, ti avviliscono. Ti mostrano ad ogni istante e con ogni gesto che non gli servi, che di cio’ che sei e che sai, perché ti sei dato da fare tu per imparare, non certo loro per formarti, non sanno che farsene, che sei un peso, un costo, un problema.

Quando non ne puoi più vuoi almeno l’onore delle armi e per come sono fatta io, questo può voler dire solo andarsene, per poter continuare a respirare, forse a vivere.

Ma gli servi cosi’: schiavo e incatenato.

Ora, io lo so bene che in queste situazioni mi uccido. Sentirmi bloccata là dove non voglio stare perché è una situazione cui è impossibile aderire e ogni trattativa è spenta, per me è impossibile.

Je peux pas.

Voglio il divorzio e essendo il coniuge più debole, ovviamente con gli alimenti (cioè non posso licenziarmi).

Vediamo se cosi’ è più chiaro.

Vorrei poter passare il tempo facendo altro che architettare piani di fuga. Sarebbe più proficuo per tutti. Il mio primo, bravo, intelligente capo, fuori Roma, lo diceva sempre: “Non si tiene nessuno con la forza”. Appunto.

Chissà se fossi rimasta là cosa sarebbe successo. Mi proposero di tornare. Per varie ragioni, tornai. Altra vita, altri tempi, altre prospettive, altro tutto.

Ora è necessario ripartire, ripercorrere almeno in parte la strada dei miei avi, riavvicinarsi a luoghi più cari al mio cuore, se pure non alla mia anima, che è e resterà per sempre qui, nell’Hexagone amato. E dove non riesco a godermi neppure questi ultimi mesi, tanto sono presa dal fango del borgo selvaggio che schizza fin quassù, ai piedi del Louvre.