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Toulouse en érasmienne

lunedì 15 novembre 2021

Mario A G

 Ancora un risveglio in piena notte. Ancora parole che si agitano nella mente rapendo preziose ore di sonno, senza essere fissate su uno schermo o sulla carta, perché la mattina svaniscono e la notte mi esorto a riposare. Ma con esse svanisce anche ogni possibilità di concentrazione, lasciandomi in un sonno diurno a occhi aperti e annebbiati. Quante volte nelle mie notti parole così nascono mentre perdo i miei giorni più belli e preziosi invano. Per fortuna le strette di angoscia di un mese fa si allentano sempre più, adesso che ho scritto e parlato.

Ma resta ancora qualcosa che si agita domandando confusamente e convulsamente di essere fissato. Male, perché la scrittura è confusa, i motivi affastellati. La precisione, l’efficacia della trasmissione, un sogno. Sto traversando un curioso mare, una distesa di acque paludose come i marais del Cotentin, un percorso strano, invisibile nel viaggio come nella meta. Nulla vedo intorno a me di certo, non so dove vado, so della pressione del tempo che finirà ben presto e che da un punto di vista della vita attiva, sto perdendo. A volte sento frammenti di desiderio, spunti che mi spingono a minuscole azioni gratuite, solo perché mi va. Comprare un mazzo di fiori autunnali, le ultime rose e calle di strani colori affondate in un mucchio di foglie sempreverdi, desiderare una bicicletta, andare a leggere al sole. Imboccare una strada piuttosto che un’altra, gratuitamente, per il puro piacere di seguire una spinta istintiva. Riconoscere e dare spazio a questi barlumi, acchiapparli. Affiorano come segni di vita in una landa informe. Avrei bisogno di più tempo per ritornare a fiorire (se pur queste parole non stridono con la realtà) ma tempo non ce n’è. Tra due settimane dovrò  lasciare questa casa, il cui senso di protezione, nonché il fatto di essere una delle due uniche che ho potuto davvero scegliere in vita mia - e ne ho cambiate tante: sei da bambina, poi la prima dove sono andata uscendo da casa, quattro mentre abitavo al nord, di cui ho davvero scelto solo l’ultima, meravigliosa e antica, un’altra al ritorno, otto in Francia, di cui l’ultima è questa, la seconda che abbia davvero scelto. Diciannove case, ogni volta da ricreare, quasi mai da scegliere, bisogna adattarsi: più di così è impossibile fare, non ci sono i soldi. Presto ce ne sarà un’ottava, per poco più di un mese soltanto. Poi dovrò tornare, il lavoro da fare non fatto, un passo avanti contro l’angoscia forse sì e non piccolo, ma avrei bisogno di tempo e di serenità per ricostruirmi dopo essere forse, spero, non oso dirlo, uscita dalla tormenta dell’inferno, e fare emergere quel che è in me dandogli infine una forma. Mi dico che in qualche modo sono convalescente di una strana malattia, ma mi sento ugualmente in colpa.

Mia madre in quel caso non era esterna, estranea. Non aveva approvato il gesto, ma l’autore si. « Sai, aveva bevuto, poi me lo ha detto, gli dispiace, si è scusato », rispose, quando in un tentativo di parlare che sentii a posteriori inutile, le spiegai perché non avevo voglia di dire buongiorno al signore. Ancora confusione, ne parlerò nel prossimo post.

Mario, quello dell’altro post. Voce sonora senz’accento e senza enfasi, educata, statura media, abiti eleganti, magro e dritto, modi distinti e formali, distaccato, ragionevolmente istruito, familiare alla cultura più che colto, direi oggi e coglievo allora, capelli bruni e lisci, bella testa, labbra piene, sempre ben rasato, curato, consumi costosi. Un privilegiato, chiaramente, anche se ignoro la sua estrazione. In s é aveva una violenza rattenuta, come un rancore enorme e represso, palesato nel veleno pervasivo, viscido, trasversale, allusivo, opaco, sottilmente colpevolizzante con cui si esprimeva. Conversare era fare a botte con le parole anziché con gli schiaffi, mai per sviluppare un ragionamento, sempre per umiliare l’altro, brillantemente, schiacciandolo sotto le lucide scarpe, facendo aleggiare un educato stupore se avesse colto un lamento di quel che avrebbe chiamato « vittimismo ». Avrei ritrovato gli stessi modi in altri figli di buona famiglia. Mai a quel livello di compiacimento e di gratuita ferocia apparentemente serena, priva di enfasi come di imbarazzo, di chi si è limitato a enunciare l’ordine naturale delle cose a qualcuno troppo debole per accettarlo, per comprenderlo o per conformarvisi. Rivolta inane. Soddisfarsi non nel sviscerare un soggetto, ma unicamente al colare del sangue di qualsiasi interlocutore, come se fosse un avversario da veder steso ai propri piedi, per poterlo contemplare con freddezza prima di allontanarsi. Non esistevano neanche parole gratuite o utilitarie. Solo quello scopo c’era, in qualunque interazione. Anche quando arrivava con una bottiglia di champagne, o un vasetto di meravigliosa marmellata di fichi verdi che portò due volte, sembrava guardarci non lieto del dono, ma disprezzando i destinatari che lo festeggiavano. Era solo un altro modo di mostrare la propria superiorità e di incatenarci a una sorta di intrinseca malvagità, per me difficile da capire e da spiegare ma che in qualche modo sentivo scorrere sotterranea, sempre presente. Non ricordo di averlo mai visto fare un gesto di spontanea gentilezza o tenerezza verso mia madre, non dico verso di me. Non ricordo parlasse mai che di sé stesso o di politique politicienne (genere rassegna stampa di Radio radicale d’antan), ben diverso in questo dall’ambiente che noi frequentavamo, velleitario, se vogliamo, di corte vedute e superficiale talvolta, benché molto meno di oggi, ma cinico no, troppo modesto e ingenuo per esserlo. Questo era, piovuto nella nostra casa in un’ improbabile relazione con mia madre. Ancora oggi mi domando cosa lo avesse spinto verso di lei e l’unica risposta che so darmi è un perverso rapporto di sottomissione e dominio tra un disturbato e una donna fragile e sola, uscita da due tentativi falliti di costruirsi una vita completa di donna. Mi svegliavo la notte e la sentivo piangere sul guanciale mentre lui le parlava. La domenica mattina, quando agognavo il riposo, si alzava all’alba e si metteva a telefonare a voce altissima, o a lavorare al tavolo che era proprio davanti al mio letto, dopo avere alzato le tende. Sfuggente, andava e veniva a orari tutti suoi. Lei lo aspettava « perché lui ha avuto una donna che lo ha distrutto, gli ha rovinato la vita, e adesso... » Mah. « Perché io non posso fare come quando le telefonavo dopo una lite perché avevo visto Hiroshima mon amour, dicendole che era la nostra storia... » le lanciò un giorno lui in mia presenza. Mai visto quel film, non so di che parli, ma continuare a mettere sugli altri le immagini che ci siamo fatti di qualcuno non è degno di un essere adulto non particolarmente deprivato. Un tipo del genere, avendolo io sorpreso, oh quanto mio malgrado! Non avessi mai saputo della sua esistenza!!! con mia madre (e li’ settanta volte sette scema lei a non trovare un’altra soluzione per le sere in cui voleva vederlo) avvinghiati sotto le coperte sul letto del soggiorno quando ero stata costretta a passargli davanti per andare in bagno: « Ecco, lo sapevo! Che sarebbe arrivata! » doveva se non altro ristabilire il proprio ruolo di dominante. Giacché l’incesto è un gesto di dominio familiare e prevalentemente maschile dell’anziano sul giovane. A un certo punto decisero di comprare casa insieme. Andarono a vederne alcune. Poi tutto finì. Scomparve, con mio grande sollievo. Mia madre era triste, ovviamente. Una cosa buona ne venne: anni dopo, quando dovetti iscrivermi al liceo, mi fece prendere la residenza a casa sua, dove però all’epoca della loro relazione non andavano mai, perché il liceo richiedeva che si abitasse in una zona molto piccola del centro, limitrofa alla nostra casa ma appena al di fuori. Poi, buona, non so. Il liceo era ed è tuttora in un palazzo bellissimo quanto gelido (i termosifoni li installarono mentre ero al ginnasio), ma che sia stata la scelta migliore, chi può dirlo? Anche se non era obbligato a farlo, devo davvero essergli grata per questo? Riconoscerlo si, ma poi? Sentirmi comunque in debito con lui? Eppure. Eppure la catena del silenzio e dell‘ oppressione è ancora così forte da invischiarmi nel dubbio! sono esagerata, e poi tutto sommato è finita che ne hai ricavato qualcosa... Qualcosa???

Un giorno arrivò dicendo a mia madre che aveva la possibilità di entrare in un ottimo posto pubblico per via esclusivamente partitica. Militava in un partito, era entusiasta della nuova segreteria che avrebbe permesso di liberarsi delle vecchie correnti forse troppo audaci ai suoi occhi, e aveva all’epoca una sorta di sinecura nello stesso posto dove lavorava mia madre, allora un’importante associazione culturale e politica. Spiegò che le possibilità erano due, con stipendi ben superiori alla media: una meglio pagata di pianificazione, l’altra più tecnica, meno remunerata ma di maggiore visibilità e prestigio sociale, con ampi privilegi e vantaggi collaterali. Mia madre gli consigliò di scegliere quella dove avrebbe meglio salvaguardato la sua indipendenza. Scelse la seconda, fece una carriera non sfolgorante ma senz’altro più che buona. Divenne di destra, come il partito lasciava supporre, o forse semplicemente tornò alle origini. Oggi penso che quel posto potesse essere dovuto oltre che a relazioni personali, anche a un certo disegno politico di quegli anni. 

Una persona cieca all’altro se non come oggetto di dominio: in questo senso scelto bene. Incapace di sensibilità al dolore come al disagio altrui, totalmente preso da sé stesso e dalla propria supposta superiorità morale nei confronti del resto dell’universo. Questa l’impressione confusa che ebbi da bambina, senza poterla articolare, ma a che mi spinse allora a una rivolta che potè esprimersi soltanto nel rifiuto e che ritrovo ancora oggi.

Decenni dopo lo incontrai per caso, sul lavoro. La voce mi giunse prima di tutto, qualcosa prese a agitarsi  nel mio cervello davanti a un suono noto ma non familiare. Non la riconobbi. Poi si rivolse proprio a me, gli chiesi qualcosa, lessi un nome. Ancora non realizzavo, che avessi seppellito il ricordo troppo profondamente o che fosse incongrua la sua presenza lì. Mi avrà riconosciuta lui? Di certo era fisionomista: capi’ immediatamente chi fosse mio padre. Quando uscì iniziai a ricordare. Un oceano, una tempesta selvaggia salivano in me. Avrei voluto corrergli dietro nel cortile, urlargli di mettersi in ginocchio sul ghiaino e chiedermi perdono o lo avrei rovinato (cosa poco probabile date le rispettive posizioni socioeconomiche e la mia totale assenza di relazioni). Ero precaria esternalizzata all’epoca, praticamente con il divieto di alzarmi dal tavolo. Non osai muovermi, non osai uscire. O forse non osai credere che avrei avuto il diritto di protestare, di urlare, di farla tanto grande e tanto lunga « per una cosa così ». 

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