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lunedì 23 marzo 2020

MES=Grecia, qualche spiegazione 1

Riproduco un appello pubblicato sulla rivista Micromega da un gruppo di economisti che spiega perché sia non solo inefficace ma terribilmente rischioso e dannoso richiedere in questo momento l’aiuto del fondo finanziario detto Meccanismo europeo di stabilità di cui molto si è parlato in questi giorni.

Mentre in Lombardia si muore come le mosche, il presidente del consiglio, il ministro dell’economia, quello degli affari europei e il vicesegretario del PD Orlando, stanno dando priorità, in piena emergenza e con ancora infinite incertezze sulla gestione quotidiana della situazione sanitaria, proprio a questa richiesta.

Non condivido tutto il testo dell’appello, ma la parte sul MES mi trova totalmente d’accordo: 

« Il cosiddetto Fondo salva-Stati (Mes) è rimasto ai margini degli annunci (nota: della BCE), a riprova che non è in grado di salvare nulla. Si tratta in effetti solo di uno strumento di disciplina che gli Stati egemoni vogliono usare per imporre il loro dominio su quelli che cadano in difficoltà. Ne vogliono fare la chiave di accesso agli interventi della Bce, una chiave che sarebbe pagata con la “grecizzazione” di chi incautamente vi facesse ricorso, ossia l’impoverimento del paese e la sua successiva spoliazione da parte delle economie più forti. » 

Con « grecizzazione » si intende l’applicazione di condizioni particolarmente devastatrici all’intervento del MES, tramite i cosiddetti memorandum, accordi redatti dal fondo e da altre istituzioni UE, basati su tagli alla spesa pubblica, specialmente nei campi della sanità e delle pensioni, accompagnati dalla privatizzazione di industrie, banche e servizi pubblici di ogni tipo. In Grecia smisero di acquistare persino le terapie oncologiche, per dire. Proprio l’ultima cosa di cui avremmo bisogno, magari. Gli aeroporti greci, con il loro traffico turistico, li gestiscono oggi aziende private tedesche. Tutte entrate in meno per lo stato greco, ovviamente. 

Inoltre, qualsiasi iniziativa in materia di accordi internazionali o sovranazionali che riguardi questioni finanziarie è per legge subordinata a un mandato del parlamento (legge Moavero). Mandato che l’attuale presidente del consiglio non ha e non ha neppure chiesto. Se mai ne ha avuto uno di senso opposto. Il negoziato è stato portato avanti in assoluta riservatezza, da poche persone, tra ministri e grand commis.

Vi sono quindi ragioni di merito e di metodo per vedere nella richiesta di intervento del MES una scelta rischiosa dal punto di vista economico, per le condizioni pesanti che verrebbero applicate al finanziamento secondo il trattato istitutivo del fondo, e istituzionale, per una decisione presa senza seguire le procedure prescritte dalla legge, che scavalcherebbe il ruolo previsto per il Parlamento, operando una forzatura molto forte delle prerogative dei due poteri.  
Tutto ciò non può che destare estrema preoccupazione.

Perché tanta fretta? Perché tanto segreto? Per forzare la mano approfittando del carnaio e dei morti che distolgono l’attenzione e la vigilanza? A vantaggio di chi?

L’appello prosegue dettagliando gli interventi realmente necessari, in particolare modo quelli della Banca centrale europea, la quale, acquistando titoli di stato senza bisogno di chiedere né rimborsi né interessi (come banca centrale non deve raccogliere denaro per disporne) permette agli stati di finanziarsi in momenti di crisi senza dover sottostare a speculazioni dei sacrosanti « mercati ».

La parte che non condivido riguarda soprattutto la proclamata necessità di pareggio di bilancio per la spesa pubblica corrente. La spesa corrente è quella che paga gli stipendi, ad esempio di insegnanti e medici, le spese di funzionamento, la manutenzione ecc. Quindi, se in una scuola ci vogliono insegnanti, è grazie alla spesa corrente e solo a quella che ce li puoi trovare. È una spesa essenziale quanto e forse più di quella « per investimenti » che invece dovrebbe essere secondo gli estensori dell’appello libera da obblighi di pareggio del bilancio. 
Nella spesa per investimenti, ad esempio la costruzione di un’autostrada, le risorse pubbliche si indirizzano quasi totalmente a grandi aziende private, mentre con la spesa corrente il denaro pubblico va in maggior misura ai salari o a piccoli privati, alimentando la domanda interna e i consumi.
Un aspetto particolarmente bieco della « spesa per investimenti » è che con questo nome si indicano anche tutti i fondi per gli appalti di manodopera nella PA. Un poveretto che lavora precario e sottopagato per un’azienda che ha un appalto per lo stato, viene calcolato come « spesa per investimenti », quindi « buona ». Un dipendente pubblico, che svolge esattamente lo stesso lavoro nello stesso luogo, ma con uno stipendio decente e una prospettiva che gli consente di pensare al futuro senza angosce eccessive, è vituperato come « spesa corrente », ovviamente « improduttiva ».

Improduttiva per chi? Per il ristoratore che se lo vede arrivare a cena, per il negozio in cui entra due volte anziché una, per l’associazione o il partito cui fa un’offerta, per la possibilità di mettere finalmente su casa insieme a una persona amata e essere più felici in due?
O non piuttosto perché quel salario decente non va a produrre profitti di una grande azienda che si spartiscono in molti di meno, ma benessere diffuso? 
Mah.

L’ossessione per il pareggio di bilancio andrebbe peraltro accantonata. Si tratta di una battaglia della destra storica, che provocò privatizzazioni e tasse indirette come quella impopolarissima sul macinato, ed è parte di una politica economica basata sul libero scambio.
Ma nulla permette di dire che il pareggio di bilancio sia in sé un bene da perseguire come obbiettivo primario di politica economica.

Men che meno l’Italia dovrebbe legarsi a un meccanismo tanto rischioso quanto inutile come il MES in un momento di concitazione e smarrimento collettivo come questo, su sola iniziativa di una parte dell’esecutivo, in circostanze che impediscono una riflessione ampia e ponderata sulla necessità e le conseguenze di una così grave scelta. 
Anzi, proprio la pervicacia con cui, tra le mille questioni urgenti in un momento simile, viene data priorità a questa richiesta (ricordiamoci quanti slittamenti hanno avuto i decreti del pdc in questi giorni fino a stasera, pur essendo misure di sostanziale buon senso), anche in presenza di un intervento molto più consistente da parte della BCE, portandola avanti in una totale mancanza di trasparenza, dovrebbe essere motivo di allarme e  prudenza.

1 minuto e 15 di meraviglia

https://www.facebook.com/srpskonarodnopozoriste1861/videos/bella-ciao-serbian-national-theatre/519000095693697/

Ah, questi devono essere nati più o meno quando un altro governo del PD, ben spalleggiato dai liberali-liberisti, ci spiegava come dovessimo essere orgogliosi di tirargli le bombe in testa. Radioattive naturalmente.

lunedì 16 marzo 2020

Mes=Grecia

Lo vogliamo capire, sì o no?
La vogliamo smettere  con la Fede e il Cuore, sì o no?

domenica 15 marzo 2020

Poco fa

Dopo la pioggia di sabato tempo smagliante a Roma. Sono entrata in possesso di un nuovo termometro, il che è una buona cosa. Sto più o meno come sempre.

C'è chi approfitta del tempo mite per spalancare la finestra, dare aria alle stanze e soprattutto rovesciare sulla strada l'equivalente sonoro di un aeroporto sommato a una decina di concerti da stadio. Bum bum bum bububububbubbubbbubbbu... sta dall'altro lato della strada e un palazzo più in su, ma è come avere un altoparlante incollato a un orecchio.

Dopo quattro ore mi trascino alla finestra per dirgli di smettere che c'è gente che sta male. Risposta: volume sempre più alto, sempre più alto. Poi un urlo "A pazzo!" Mica male: mi dev'essere venuta almeno la voce di un tenore.
Con il ruggito roco di chi sta per esalare gli ultimi suoni delle corde vocali prima di sputare un polmone ribadisco che sto male e che spenga quella musica per carità.

Si affaccia praticamente tutta la strada. Il personaggio no, ma se possibile alza ancora di più il volume. Mi accascio sul letto, molto depressa per non avere concluso nulla, riflettendo sulla probabilità che i vigili urbani possano: 1)rispondere al telefono, 2)avventurarsi sin in questo quartiere, periferia povera accollata dal sindaco Alemanno a una zona distinta di riccastri perbene.
Ma in strada continuano a sentirsi delle voci. La musica si abbassa, poi cessa. "Ce l'hai fatta coglione!" prorompe fuori dai gangheri una seconda voce. Dopo poco la musica riprende, per fermarsi di nuovo, in mezzo alle discussioni.
A me, ovviamente, riprende il mal di gola.

Alle 18, molto in sottotono e con repertorio più tranquillo, il diversamente intelligente dà il suo bravo contributo all'appuntamento sonoro, che però qui va detto non ha veramente attecchito. Ma su quello non avrei da ridire più di tanto, è un momento in qualche modo collettivo per ritualizzare e scandire l'isolamento, pace.

Insomma ho scatenato una mezza ribellione e permesso all'irritazione degli altri di esprimersi, fino a conquistare il silenzio.
Ma se non fossi stata male, in tempi di quarantena, sarebbe successo?

Tutto sommato non è stata una troppo cattiva prova.
Bonne nuit. 

La paura della notte

Da ragazza ho sofferto di una malattia dai sintomi piuttosto dolorosi di cui non si riusciva a capire le cause. Un medico che il mio caso aveva impietosito e la mia persona incuriosito mi suggeri’ di farmi ricoverare qualche giorno per una serie di esami altrimenti troppo complicati da realizzare.
Mi ritrovai in un grande ospedale semifatiscente come purtroppo tutti gli ospedali delle grandi città, isolato e lontano dal mio quartiere. L’attività principale era aspettare in questi grandi stanzoni, facendo ogni tanto un piccolo passo nella routine che precedeva il grande esame e poi la complicata dimissione.

La notte l’ospedale era tragicamente illuminato da fioche luci che creavano un’atmosfera di desolazione. Incapace di dormire  erravo per scale e corridoi fino a percorrere tutto il labirinto dell’edificio. Gli ospedali, giacché nella mia vita ne ho visto da presso più di uno,  hanno un’architettura infinitamente più complicata e disorganica di un qualsiasi altro palazzo. Quello era particolarmente grande e brutto.
La notte del giovedi’, vedendomi errare senza pace, gli infermieri mi fecero sapere che M.A. che in quell’ospedale avrebbe passato tutta la sua vita, era di guardia, mi spinsero quasi a passare da lui.
Sormontato il ritegno e la paura di disturbarlo andai nel suo reparto. Mi disse che prima o poi a stare i quegli ambienti sarebbe venuta una crisi. Non avevo collegato la tristezza indefinita di quei momenti alla nozione di crisi: dare un nome alla cosa mi rassicuro’ anche se mi domandavo con ansia quanto potesse durare una “crisi”.

Venerdi’ è stato il mio momento di crisi, non fisica, ma di tristezza. L’isolamento si faceva sentire. Il breve teatrino verso le sei non l’aveva lenito, anzi. Da due finestre sui due lati del palazzo avevano cominciato a suonare l’inno nazionale; si erano aggiunte le sudamericane del condominio con un cacerolazo, il che dava una sfumatura particolare alla cosa, una di loro aveva sfoggiato un meraviglioso tamburello tintinnante. Dall’altro lato della strada una famiglia di quattro persone occupava il balcone e rispondeva all’inno con Bella Ciao. I bambini erano piccolini: uno o una poco più di un neonato, in braccio alla mamma, scalciava e muoveva le braccine contento e incuriosito dal frastuono. Poi eravamo  rimasti alle finestre per un po’. Rientrare era stato doloroso, la solitudine pesava di più; quell’immagine di fagottino pieno di vita non se ne andava: stringeva il cuore.

La sera avevo cucinato la sua ottima, facile torta di ceci, con un resto di farina rimasta nel frigorifero (150 g. Farina, 450 di Acqua, 2 cucchiai EVO, un po’ di sale, 4 ore di riposo, forno a 240° per una mezz’oretta) accompagnandola con piccole zucchine freschissime e fiorite, trovate qualche giorno prima al mercato, complici queste settimane cosi’ calde e soleggiate.
 

Sbadata, mi addormento sul computer; alzandomi, rompo il termometro che cade di punta sul pavimento. Forse l’oggetto che meno bisognerebbe perdere in questo momento.



 

La notte quando mi sveglio ho paura, è vero. È il momento in cui più sento la malattia, i farmaci, e i suoi disagi appaiono inquietanti.
Ritorna anche il pensiero del mondo di fuori, e che non sarà mutato nella sua inutilmente oppressiva, disperante tristezza.


Dalla Francia mi chiedono notizie, giungono parole di sostegno, preoccupazioni inaspettate, notizie si intrecciano, auguri.

Attendo.
 

giovedì 12 marzo 2020

Ma si tolga di mezzo

 

Signora
cosa abbia fatto l'istituzione che lei guida da quando e nata e ancor più negli ultimi dieci anni, lo sappiamo e lo sanno del pari i nostri fratelli sulle sponde del Mediterraneo.
Cosa abbia fatto il paese da cui proviene non lo ignoriamo.
Così come non ignoriamo cosa abbia fatto lei.
Perciò signora oggi, oggi che ci mancano i posti letto, gli ospedali, i macchinari, i medici, ogni servizio pubblico,
Oggi che il poco personale è confrontato a scelte da scenari di guerra nel cuore del ricco Occidente,
Oggi che contiamo di ora in ora i nostri morti,
Oggi che ci viene proposto di sacrificare vite deboli, impoverite da anni di tagli salariali,
Oggi che cerchiamo di lottare contro un flagello evitabile di morti e sofferenze,
Oggi e a causa di oggi come di ieri non possiamo che dirle, adesso e per sempre, in scienza e coscienza:
Signora,
stia a casa. Sua.  

Alle cinque del mattino

Anche quando la notte è tranquilla mi capita sempre di svegliarmi a quest’ora.
Sollevarsi sui cuscini, respirare un po’ meglio, liberarsi del catarro.
Infilarsi il termometro, già che ci siamo.

Oggi continuo a sentirle di lontano. Le sirene.
Non le copre ancora lo sferragliare dei tram.

Mi struggo per non essere un medico, per non poter lottare con loro. Ma se anche lo fossi, ne avrei la possibilità? Mica possiamo assumere tutti, bisogna risparmiare! E mica possiamo assumerli per sempre: ad oggi la sanità assume, sì, ma non per coprire i vuoti di organico creati da decenni di politiche scellerate. No, si fanno contratti precari, ancora una volta.

Meglio che torni a dormire, mi dico.
Perché in mezzo a tutto questo continua a serpeggiare una preoccupazione: e se non dovessi sentire l’arrivo del medico fiscale?
Sono un dipendente pubblico e mi sono ammalata di venerdì: ovvio, volevo andare al mare.
Ho l’influenza (speriamo) forse una bronchite (speriamo) e quindi può capitare, come ognun sa, di addormentarsi profondamente durante il giorno: potrei non sentire il campanello? No, ovviamente: se non lo sentissi, sarebbe come minimo perché sono andata in palestra.

Così da anni, ogni volta che sono malata, attacco un gran cartello accanto ai citofoni, pregando che i condomini non lo stacchino, in cui scrivo a caratteri cubitali il mio numero di telefono, supplicando il medico fiscale di chiamarmi se non dovessi sentire il campanello, ché tanto di casa non esco.

E poco importa che in questo momento il residuo SSN abbia altro a cui pensare.

Non riesco a dormire senza agitazione. Il che ovviamente giova al recupero psicofisico.
Come dimenticare il sinistro personaggio privatizzatore occulto dell’INPS che pagava i medici precari in base a quante malattie riuscivano a revocare? Persino l’ordine dei medici aveva censurato questa clausola contrattuale.

Albeggia.

mercoledì 11 marzo 2020

La città si spense. La città si tacque.

Ferma in casa per le ragioni raccontate nel post precedente anche prima della non-chiusura del governo, ho avuto tempo di ascoltare.

Tutto questo non era inevitabile:
Art. 32.La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della colletti-vita`, e garantisce cure gratuite agli indigenti.Nessuno puo`essere obbligato a un determinatotrattamento sanitario se non per disposizione dilegge. La legge non puo`in nessun caso violare ilimiti imposti dal rispetto della persona umana.

Abito tra due grandi ospedali, in una via divenuta silenziosa.
Ma loro le sento e le vedo, nel sole radioso di questi giorni romani tutti oro e azzurro.

Tutto questo non era inevitabile.
I posti letto in terapia intensiva sono stati ferocemente decurtati da decenni.

Le ambulanze. Scorrono anche lungo la mia via, stretta e mai troppo trafficata in un quartiere vivo ormai divenuto silenzioso. Soprattutto ronzano intorno, lungo la via a veloce scorrimento in fondo alla mia, e tutt'attorno.
Le sirene suonano, sempre, in lontananza. Vanno a onde: ne tace una, ne sorge un'altra.

Tutto questo non era inevitabile.
Dal 2009 al 2017 46mila persone in meno lavorano nella sanità pubblica.

E poi li sento e li vedo.
Gli elicotteri. Uno dopo l'altro nel meriggio.
Conosco ormai la manovra. Giungono di tre quarti, alle spalle. Si girano un momento in piena fiancata. Diventano un punto, alla fine. Scompaiono.
So dove vanno. So dove si posano. Cercando vita, fuggendo morte.

Tutto questo non era inevitabile.
Non va accettato, a nessuna condizione.
Mai più.

Fa male, vero, essere trattati come la Grecia?

I cantori della Ue sono oggi sporchi del sangue e del muco di questi malati e di questi morti.
Della loro agonia e del loro dolore.
Di quello di chi resta.
Della rovina che stanno spandendo intorno a noi.

Della miseria che hanno versato arroganti, ciechi, spietati su questo continente dalla Grecia in poi.

Le ambulanze accompagnano la notte.

Tutto questo non era inevitabile.
Tutto questo non era inevitabile.
Tutto questo non era inevitabile.

37, 2 le matin

All'ennesimo piccolo grande sopruso inflitto con motivi pretestuosi di ottemperanza alle regole nella situazione che descrivevo un paio di biglietti fa, ho sentito qualcosa in me cedere di colpo. Erano tre giorni che cercavo di resistere ai brividi che mi coglievano sempre più spesso. Brividi di tristezza, brividi di malanno. Lì ho avvertito il mio corpo schiantarsi, desiderare di fuggire.

Ho cercato di non farci caso, dovevo resistere. Quel fine settimana mi aspettava Parigi. Non ancora certa di poter partire avevo bisogno di trovarmi un possibile tetto sopra la testa se il fosse giunto il sì. E la mia casa di un tempo non esisteva più. Dovevo lottare per difendere il diritto di partire quel fine settimana, in qualche modo. Non volevo dirmi che quei brividi non erano la stessa cosa degli sternuti e del bruciore agli occhi da polline che complice il vento primaverile ad agitare platani e cipressi mi avevano sconquassata tutta la settimana precedente.
Ma avevo sentito che le forze cedevano. Non trovando appoggi esterni, questa volta ero colpita dalla mia propria debolezza.

Ci sono momenti in cui la lotta sembra semplicemente impossibile: tutto cede.
Era giovedì.

Venerdì mattina mi sveglio con brividi, tosse, catarro, mal di gola, febbre: be', quella roba si chiama influenza. Mi trascino dal medico, perché siccome noi dipendenti pubblici siamo ipso facto delinquenti, un certificato medico te lo fanno solo de visu. Anche se poi stai peggio, il medico ti deve vedere e raccomandarti: "Riguardati. Non uscire." il che è logico e efficiente, si capisce. Soprattutto non costa ai malati e scova i furbi.

Ma questa volta, il medico mi caccia via. Non mi parla proprio. Nello studio non metto piede: pare che persino i dipendenti pubblici vengano creduti sulla parola, adesso.

Ascoltati i sintomi e chiestomi che lavoro faccio, ne conclude che sono a rischio. Ma attenzione: rischio non vuol dire analisi, prevista solo per chi ha avuto contatti con un caso accertato. Dobbiamo risparmiare! Vuol dire isolamento. Stare a casa, aereosol, e tachipirina. Non avere contatti con nessuno.
Mi consiglia se mai di chiamare il ministero. Ovviamente è impossibile riuscirci.
Spero di non dover mai sapere se ho contratto il benedetto COVID-19 perché, per saperlo, dovrei essere praticamente in fin di vita.
Ma come? e le statistiche?
Eh, le statistiche. Mica possiamo pretendere di pagare tutti quei test.

Quanto a me, era inverosimile rientrare a casa e sentire pur in queste condizioni che il mio tempo non era più sottomesso alle angherie meschine di altri ma paradossalmente mi apparteneva. Non dovevo render conto a nessuno, potevo gestire me stessa. Solo perché ero malata, però, e forse in grado di trasmettere una polmonite particolarmente bastarda: altri diritti mi erano negati.
La perversione di una simile riflessione rimarcava crudelmente quella del mio luogo di lavoro. Non ne era che il riflesso.
Come la scomparsa improvvisa e totale di quella voglia di dolci che aveva spazzato via la mia forma fisica negli ultimi due mesi.

E così da venerdì aspetto.
Scruto il termometro, apro fialette, consumo fazzoletti.
Fino a ieri, tutto andava per il meglio.

Certo la notte svegliarsi tossendo non era rassicurante, ma dopotutto ci sono abituata alle malattie da raffreddamento. Per questo invio le più cordiali maledizioni a tutti coloro che con il corrivo pretesto del "Tanto gira di tutto", preferiscono contribuire a mettere nei guai gli altri con i propri microbi che fare i conti con la prevenzione dei contagi, la protezione altrui e soprattutto le proprie fantasie di onnipotenza. Per poi magari farsi apostoli di qualche buona causa di loro gusto, figuriamoci.
 
Stamattina mi sveglio diversa. Per tutto il giorno mi sento un po' peggio. Questa sera inizio l'antibiotico.

sabato 7 marzo 2020

E figurarsi se non ci dovevamo tornare, alla selezione « tedesca »

Ovvio: bisogna abituarsi. Abituarsi a credere che siccome siamo nell’emergenza, l’emergenza impone la scelta di chi mandare in rianimazione e chi no. Facciamolo dire a un’associazione di medici che così fa scienza e coscienza.

Dio santo: stiamo parlando di una polmonite, non del flagello divino.

Non pensiamo ai posti letto tagliati dagli anni ‘80 a oggi, per ubbidire alle sane regole dell’Unione europea e del taglio della spesa pubblica.
Non pensiamo ai tagli del personale, sempre spesa pubblica, che hanno reso oggi così scarsi medici e infermieri da far richiamare pensionati e oberare di lavoro chi è in servizio, fino a farlo esaurire di stanchezza.
Non pensiamo al taglio delle borse di specializzazione a numero chiuso, che tarpa da anni tanti neolaureati che vorrebbero essere medici specialisti.
Non pensiamo ai tagli che i tronfi consulenti d’oltralpe hanno inciso sulla nostra spesa sanitaria, gloriandosene, fino a ridurre i livelli italiani quasi sotto ai minimi previsti dall’OMS.

No: flagelliamoci con l’idea del castigo divino, dell’essere che ha fatto il suo tempo e deve accettare sereno la sua mortalità, « come una volta » mentre la società di oggi la rifiuterebbe.
No: gettiamo, anzi rigettiamo quei corpi nell’inferno dei propri polmoni a soffocare la propria vita, ché il pareggio di bilancio l’esige, le regole, gli standard, i protocolli.
L’imbecillità di chi dice sempre di sì.
No: trastulliamoci con idee di finta libertà sulla gestione della propria vita, come se la maniera stessa di affrontare la malattia e la morte non fossero anzitutto profondamente condizionate dalla situazione sociale ed economica degli individui.
No: pensiamo che sacrificare i vecchi, i deboli, i malati, sia un olocausto necessario in una situazione supposta di risorse scarse, in un paese ancora tra i più ricchi del mondo.

No, non è necessario fare un triage sulla base delle aspettative di sopravvivenza.
No, non è l’unica scelta possibile.
No, questa emergenza non è inevitabile.
No, qui è questione di spendere tutti i soldi che servono per garantire letti, personale, strutture.
No, regione Lombardia, forse è il tuo modello di celeste privatizzazione selvaggia che sta portando alla morte i tuoi abitanti.

No, noi non dobbiamo chiedere il permesso a nessuno per stanziare tutto cio’ che serve a garantire un diritto umano: quello alla salute e alle cure.
No, non dobbiamo sottometterci a un mazzo di pazzi assetati di denaro a prezzo di morte, come è avvenuto in Grecia.

No, nessuno ha il diritto di impedirci di farlo.
Nessuno.
No, non è a questo principio che dobbiamo informare le nostre scelte.
No, mai.