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per gli scribi

Toulouse en érasmienne

venerdì 31 marzo 2023

Risotto al sugo di polpo (senza burro, come il pesto)

 Per mesi non ce l’ho fatta a cucinare: volevo riprendere a partecipare al #Clan del risotto del venerdì ma da ottobre ho cominciato a stare davvero meglio solo a metà marzo. Ogni volta che mi ripromettevo di sperimentare un risotto con mantecatura alla banana al momento di mettere mano alle pentole mi mancavano le forze e la voglia.

Allora ho pensato: faccio un risotto extra venerdì. Poi ho letto che questo venerdì il tema era libero e mi sono detta che avrei potuto sfruttare gli avanzi che avevo in casa per fare un risotto che un tempo facevamo regolarmente: il riso al sugo di polpo. Rientra nei piatti ‘scapà perché ovviamente il polpo non c’è. Nella mia personale classificazione zoologica il polpo è il maiale del mare: non si butta niente - e che lotte per evitare che il pescivendolo lo spelli a tradimento - e tutto quello che viene dal polpo è estremamente saporito. Quindi è un piatto assolutamente casalingo e banale.

Si mette un polpo verace pulito ma non spellato in pentola, di coccio se c’è, con prezzemolo e passata. Si chiude con un coperchio, si copre con un peso e si fa cuocere a seconda del peso del polpo. Quando è cotto si apre e si fa concentrare il sugo.

Si mangia il polpo e si tiene il sugo!

O si tiene il sugo e si mette da parte il polpo.

Si fa appassire la cipolla in olio, si tosta il riso, si sfuma con del vino bianco, si copre di sugo di polpo aggiungendo se ci va una stella di anice e si lascia asciugare. Si porta a cottura con del fumetto caldo, si unisce dell’origano pestato e della scorza di limone grattugiato e un pochino di olio nuovo (a mio parere questa aggiunta soffoca un po’ il polpo, ma io sono molto parca nei giri d’olio finali. Trovo molto meglio l’effetto dato dal burro, ma francamente, oltre che nel pesto in cui proprio non ha senso alcuno se non andare al risparmio, non lo vedo neanche nel polpo dove non c’è neanche quel motivo).

Tutto qui. Il sugo di polpo è molto ricco e saporito, condisce perfettamente il riso e lo rende morbido.



lunedì 27 marzo 2023

Dies albo notanda lapillo.

 Oggi per tutto il giorno, in ufficio, ho preparato e eseguito un compito che mi piace, che so fare, che sfrutta le mie conoscenze, preparazione e capacità in modo appropriato, che mi diverte e mi appaga e che è venuto come lo avrei voluto, diciamo al 95%, perché la perfezione non esiste (-;.

Dato il contesto in cui lavoro dovrebbe rappresentare un terzo di quel che faccio, mentre un altro terzo dovrebbe essere dedicato a preparare e approfondire occasioni simili e l’ultimo terzo a compiti di altro tipo.

Purtroppo non è così. Per una serie di ragioni dipendenti da fattori molto vari sono situazioni occasionali e rare, con perdita per tutti, non solo per la mia soddisfazione personale.

Oggi è stata la prova, l’ennesima, di quanto malgrado tutto io funzioni ancora bene. Non solo per i riscontri nettamente positivi che ho avuto.

La prova vera è che mi sento felice. Non viva, come ho scritto nel post precedente, non soltanto. Felice di aver fatto bene il lavoro cui tengo, certo, ma soprattutto felice per avere ricucito la scissione costante tra il mio lavoro effettivo e la mia capacità professionale. Felice, quindi sì, anche viva. 

Sono appena arrivata a casa con un sorriso stampato in faccia e non ho mangiato da ieri sera. Corro a fare merenda! (-:

domenica 26 marzo 2023

Qui comincia il racconto di un anno faticoso

 Lo scorso anno è iniziato bene, a Parigi. Mi avevano segnalato dall’Italia un buon concorso subito prima, a Natale. Concorso difficile non impossibile se non avessimo  avuto davvero poco tempo per prepararci, e se il programma non fosse stato davvero sbilanciato su materie non tecniche pur essendo in teoria un concorso tecnico. Dove lavoro siamo tutti talmente felici che chiunque avesse i requisiti lo ha tentato, tranne un pugno di capi già promossi. Nessuno ci è riuscito e chi è andato più avanti era diciamo dotato di una preparazione collaterale a quella tecnica, o aveva facilità di accesso a chi quella preparazione l’aveva. Anche così all’orale di noi non è arrivato nessuno. 

Era probabilmente un concorso come tanti da quando c’è la famosa norma Brunetta per cui se vuoi promuovere qualcuno devi mettere a concorso una certa quota di posti esterni, cosa questa doppiamente ingannevole perché obbliga gli interni a fare un concorso esterno in cui gli esterni a meno di non essere sotto la mano del padreterno non possono avere la minima chance. Per di più in periodo quasi elettorale. 

Comunque la fatica e lo stress ci sono stati, la paura anche, perché davanti a un esame capitale io ancora non riesco a non avere paura, e tanto più hai paura quanto meglio sai che se perdi quel concorso di altre chance vere ce ne sono pochissime. 

Nel frattempo diventa ufficiale che malgrado le intenzioni del precedente pensionando direttore non sarò io a succedergli, per motivi in larga parte ignoti: non so cioè se l’ostacolo viene direttamente dai colleghi più alti in grado per motivi di carriera personale che contemplano la mia esautorazione o da altri settori dell’amministrazione. A prescindere dal giudizio sulla persona, che non ha particolarmente brigato per avere quel ruolo, chi arriva non ha nessun titolo professionale specifico e in confronto a quelli che ho io, be’, meglio non infierire.

Ci avviamo verso un’estate precoce, e nella mia casa che è mal isolata da maggio non si resiste.  Senza sole, perché sole non ce n’è mai, ma sotto il tetto, per cui ho tutto il calore immaginabile senza godere della luce.  Questo mi impedisce di rilassarmi nei momenti in cui riesco a stare fuori dall’ufficio, mentre il mio reddito mi impedisce di trovare svaghi altrove, men che meno di partire per il fine settimana in un posto più ameno.

Con sorprendente coincidenza la mamma, che secondo me patisce il caldo anche lei, inizia a dare di matto sul serio e a rendere impossibile la vita a suo marito. Il quale chiama me a qualsiasi ora per spiegarmi quanto lei dia di matto, ma si rifiuta di chiamare un medico perché guai a disturbare. E guai una bandante perché no. Ovviamente di andarsene in un posto più fresco non se ne parla, perché per lui esistono solo casa sua e la sua casa fuori, entrambe calde mentre il resto costa soldi e guai a spendere benché la sua famiglia sia di condizioni economiche di gran lunga  migliori della mia. 

Il dolore per il peggioramento sensibile della mamma, ridotta a un esserino sconvolto che sta male senza capire ne porter dire il perché né dove trovare sollievo mi atterra già da solo; devo inoltre fare i conti con la continua colpevolizzazione implicita da parte di suo marito che si attende da me non si sa cosa: qualcosa tra l’ infermiera e la badante taumaturgiche con hotel annesso per ogni minuto in cui non sono in ufficio, suppongo. Nel frattempo io devo gestire, come faccio da anni, e come tocca anche a lui con sua moglie, l’addio alla mamma, perché questo è un addio, lunghissimo, straziante, sconvolgente, in cui le generazioni si confondono e si ribaltano, cosa che atterrerebbe chiunque anche senza ulteriori preoccupazioni logistico-materiali. Si comincia con medicine tremende che solo a leggerle vien voglia di scappare urlando.

Nello stesso periodo dell’anno  arriva una scadenza importante dove lavoro, a cui sono chiamata a collaborare, cosa che volentieri faccio, perché mi diverte e perché la persona che dirige la cosa è forse la sola con cui abbia un rapporto di cordiale collaborazione e legame anche personale. Scopro con grande sorpresa e sbigottimento, poi dispiacere e dolore che la persona che conoscevo, con cui avevo già lavorato, che mi ha anche difeso mettendosi a rischio in una circostanza difficile, arrestando così una serie di avvenimenti che avrebbero potuto diventare molto sgradevoli, si sta trasformando in una specie di individuo capriccioso che si diverte, si direbbe, a smontare il lavoro di fronte a tutti. Un atteggiamento assolutamente inedito che mai e poi mai mi sarei aspettata, ma che reiterandosi in vari episodi che non posso raccontare qui, culmina in due momenti talmente spiacevoli e pretestuosi che la nostra relazione professionale e personale ne finisce temo alterata per sempre, malgrado una spiegazione da lei voluta. Sono molto triste per questo, per me è una ferita affettiva prima che di orgoglio, ma quanto accaduto mi ha abbattuto moralmente ben più e più a lungo di quanto pensassi.

La cosa che mi ha deluso e su cui sono riuscita infine a metter un nome è l’idea che per una certa categoria noi non saremo mai altro che dei domestici. Ancora una volta sarà la Francia a soccorrermi per trovare una definizione. Ci si può riconoscere un certo livello intellettuale, offrire persino un attestato formale delle nostre capacità, ma quando e se dimostriamo di poter uscire dalla categoria dei domestici, anche se lo facciamo a servizio del lavoro comune e anche se nemmeno con la bacchetta magica potremmo mai insidiare il loro ruolo e la loro innegabile e meritata supremazia in certe circostanze neanche volendolo - volontà che peraltro non è mai stata il mio caso né il mio desiderio né il mio pensiero - andiamo abbassati, ci va fatto sentire che possiamo essere ridotti a niente se così piace a chi può, senza spiegazioni né motivazioni. E io tutta la vita mi sono trovata in questa situazione, con persone diverse, a cui  avevo affidato la mia fiducia, le mie speranze e talvolta il mio stesso avvenire, per non parlare dell’ammirazione e financo dell’affetto. Ma io ero e sono un domestico e devo dimostrare di non poter esser di più; altrimenti ci penseranno loro a ricordarmelo. Non posso essere troppo simile a loro, è inammissibile, non c’è mica l’eguaglianza a questo mondo. Altrimenti a costoro cosa resta?

Solo a fine giugno riesco a avere qualche ora di respiro: il 29 a Roma è festa. Dopo essere rimasta imbambolata senza riuscire a prendere l’iniziativa per far nulla talmente sono esausta di tutto riesco a proiettarmi fuori di casa sino a Anzio, dove hanno vissuto i miei nonni appena sposati dopo essersi trasferiti a Roma da Milano. Per loro era stato un nido d’amore di cui parlavano sempre con rattenuta tenerezza. Mi tuffo nella spiaggia tra le scogliere, cercando di non vedere l’orrore dei due lidi coperti da ombrelloni e grattacieli e gioco con le onde. Respiro tra la frescura e il mio amato mare, non c’è troppa gente perché è un giorno feriale, sono felice. Felice: no, sono viva e in pace, mi sento esistere e lavare via le ossessioni dopo mesi e mesi. Come se quella fuga di meno di un giorno fosse la sola vera scelta che ho potuto fare negli ultimi mesi. 

Su queste premesse affronto l’estate, calda fin in fondo alle Alpi. Tremila km in due andate e ritorno di dieci giorni ciascuna tra fine luglio e Ferragosto, inframezzate da settimane lavorative e notti in forno. La mamma rifiuta di mettersi la mascherina in qualunque luogo, se non mi vede per un attimo mentre sono in bagno esce dalla stanza o dall’appartamento gridando a squarciagola il mio nome e vagando disperata: tutti mi guardano come la irresponsabile figlia degenere. Solo la padrona di casa di uno dei due luoghi sa cosa vuol dire , ma anche così non le garba troppo il disturbo agli altri pensionanti. In luoghi meravigliosi siamo comunque sotto un clima quasi bollente, perseguitate dai tafani e con la mamma che non vuole più camminare; avanza a passi microscopici da bambino imbronciato e dispettoso, non mangia, neanche le cose di cui era più golosa, e grida tutto il tempo che vuole andare all’ospedale; getta nella pattumiera qualunque cosa mia sua o della casa non riconosca o non le garbi, come un fascio di preziose cartine accumulate nel corso dei decenni e ormai introvabili. Per di più in nessuna delle due case dove siamo riuscite a trovare posto c’è una stanza tutta per me: dormo in cucina, o meglio in quei disgraziati « angoli cottura » che andrebbero banditi per legge. In una di queste dev’esserci qualcosa di annidato nel divano dove dormo: mi risveglio con le gambe sfigurate di punture per quattro notti, finché decido di spostare una poltrona letto attraverso porte che la lasciano passare solo rovesciandola su un fianco, e mettermi lì’: il trasloco dura circa due ore, però le punture miracolosamente si arrestano. Quelle che ho pruderanno per un mese. 

A settembre comunico che partirò per i fatti miei una settimana, ovviamente la cosa è presa con impazienza mal celata dal marito di mia madre che continua a rifiutare una badante, parla malissimo della mia famiglia perché non passa con mia madre il tempo e le ore che lui vorrebbe e dio sa cos’altro ancora. Mi immagino anzi non ho voglia di immaginare cosa dirà di me agli altri, perché insomma è un maldicente e anche alquanto maligno, pur non essendo una persona cattiva, anzi.

Sono talmente oppressa che le vacanze senza la mamma sono di fatto un lungo poltrire stordito senza saper decidere cosa ho voglia di fare nel tentativo di riacquistare equilibrio e recuperare energie; ma dieci giorni sono troppo pochi. Le ferie sono finite e in ogni caso non ho i mezzi per permettermi nulla di più, neanche fuori stagione (grazie moderazione salariale). A Roma settembre è sempre caldissimo: quando esco dall’ufficio presto mi precipito a Anzio, a fare il bagno e guardo il tramonto dalla spiaggia di Enea. Ritorno a notte fonda mangiando un gelato. In casa non si resiste fino a notte inoltrata: come se fosse ancora agosto.

Dalla Francia malgrado precedenti accordi mi hanno comunicato a primavera che la casa non sarà disponibile. Dopo la fine della mia casa solita nel 2019 e la coabitazione con un’alcoolizzata nel 2020, con il rischio che mi sbattesse fuori di casa ad ogni settimana e infine con un ceffone e un’ingiunzione di andarmene su due piedi a tre giorni dalla prevista partenza ho deciso che non voglio più coabitare. Nel 2021 la pandemia ha permesso ancora di trovare a prezzi accettabili, ma ormai sono rincarati ancora di più e la soluzione amichevole che avevo trovato per quest’anno viene disdetta senza tanti complimenti. Andrò a Natale: a settembre compro i biglietti.

A ottobre inizia a fare freddo in ufficio, dove mi sento sempre più impotente malgrado le nuove cose che ho imparato e le idee che ho avuto e vorrei mettere in pratica, mentre fuori è ancora caldo. Anche lì non entra mai il sole, non nella mia stanza. Gli avvenimenti mi hanno fatto ingrassare orrendamente: la forma perfetta che avevo trovato nel lockdown è ormai meno che un ricordo e soprattutto per quanto tenti di stare a dieta in modo serio, non riesco né allora né ora a dimagrire neanche di poco, mentre il peso sta diventando se non obeso in modo patologico di certo eccessivo e imbarazzante. Conservo la silhouette perché ho una corporatura che lo permette, non mi trasformo in un barile ma mi sento sformata, tutti i vestiti che ho non mi entrano o mi stanno male e la moda non aiuta a trovare cose di foggia giusta (leggasi: scollature a ovale o a barchetta, maniche importanti, vita alta e segnata, gonne fluide o attillate in modo giusto, colori graziosi, fibre naturali).  

Nel frattempo arriva la risposta alla domanda di assegno di accompagno: negativa, perché viene giudicata autosufficiente, dato che ancora cammina. Eccerto, che altro, con quella diagnosi? Dobbiamo risparmiare! Il debito pubblico! Cottarelli e Della Vedova che frignano da bravi compari. Ora il marito della mamma si era categoricamente rifiutato di farle rifare le analisi prima di presentare domanda, malgrado le mie insistenze. Adesso fa il sostenuto e affida la cosa a mia zia che lei sì conosce un’associazione che... quattro mesi dopo risulterà che l’associazione è la stessa dove sono già andata io e dove, dopo il rifiuto, mi avevano fissato un appuntamento per il ricorso che lui mi ha fatto disdire protestando che era un’altra cosa rispetto a quanto stava facendo mia zia. Che farà gli stessi passi con due mesi di ritardo. E’ così  sistematicamente per tutto: ogni volta lui viene a piangere che succede qualcosa di catastrofico, ogni volta la sua scelta è di non fare nulla, e se faccio qualcosa io, lui deve sistematicamente sabotarla con ogni mezzo, disdicendo appuntamenti, trascurando visite analisi e controlli fissati da tempo (tra cui quella dermatologica e quella per l’osteoporosi), mettendo in mezzo altre persone e in buona sostanza montando una grande agitazione pur di non far nulla - e non pagare nulla - finché può. Lo spavento che ci ha fatto prendere quest’inverno è nato da un malanno trascurato che è iniziato a settembre e lui ha curato con lo sciroppo, senza dirmi che la mamma aveva la febbre da allora, pur di non andare dai medici. E io mi devo ancora giustificare per quanto non sarei stata capace di fare. Se non fosse che ci va di mezzo la mamma, lo coprirei di insulti e me ne laverei le mani per sempre. Già così ne trascura la salute oltre il livello di guardia e mi impedisce di occuparmene io. L’unica cosa che vuole è il mio tempo libero e quando sono stata male, alla fin fine mi rimproverava di trascurarli.

Devo riprendere la costosissima fisioterapia alla schiena perché mi sento più rigida che mai e ho dolori continui: sono spese significative, un terzo del mio stipendio ogni mese.

Un giorno, dopo esser andata alla fkt ho i brividi, ma non ci faccio caso. Dopo qualche giorno però inizio a tremare e a avere mal di gola. Tutto il giorno fino a sera, quando tornando a casa penso di passare in farmacia. Mi danno il propoli vediamo se funziona. Lo metta ogni due ore, va bene. Tampone? Passi domani. 

L’indomani il tampone segna 0,63.

(Continua)

    


  

lunedì 20 marzo 2023

Erano stati avvertiti (parole accumulate in confusione)

Anche peggio di quanto pensassi. Le intimidazioni marconiste non hanno risparmiato neanche le manifestazioni ufficiali. Come se da noi Renzi, D’Alema, Prodi caricassero cortei di CGIL CISL e UIL semplicemente perché sono per strada. Lo hanno fatto? be’ può anche darsi, a maggior ragione. @MaximeBorg

Macron teme il ritorno di una protesta dell’ampiezza dei Jaunes e sa che deve a ogni costo far passare la riforma per gli equilibri UEZ. O è semplicemente vendicativo fino al midollo. Tutte cose note prima della seconda elezione. Tutte.

Con poco tempo e poche forze.

Le manifestazioni spontanee di questa sera represse con brutalità gratuita. A Lille, Marsiglia, Parigi, Strasburgo. #Violencespolicières #MotionDeCensureTransPartisane (Twitter e blogger non sono più incorporabili.) Domani la manifestazione dei sindacati, rituale, sarà lasciata fare. Ma Macron vuole e deve a tutti i costi evitare che si riformi un movimento non controllato e trasversale come furono i Gilet Jaunes. Quello può dargli fastidio. Tutto il resto non gli fa paura. Sa di avere dietro di sé la UE, oltre a fondi pensione e sciacalli vari, politici e sindacati dietro l’opposizione di facciata. Quindi deve intimidire chi da solo è sceso in piazza stasera. Deve riprendersi le strade. Anche dai giornalisti, intimiditi e percossi come al tempo dei Jaunes.

Da parte mia, dopo la Grecia massacrata dalla UE malgrado le manifestazioni immense, sono sempre più scettica sulla spontanea potenza della folla, feticcio di una cosiddetta di movimento che non è più ne l’una né l’altra cosa. Se non è sostenuta da una adeguata leadership capace di agire anche in contesti istituzionali una manifestazione fallirà. Macron ha manifestamente contrattato prima di avanzare nella riforma. Da quel punto di vista i manifestanti sono del tutto scoperti. Né hanno una tradizione di ribellione rivoluzionaria. Per questo han già perso, si batteranno perché bisogna, ma chi dovrebbe rappresentarli in politica e sul lavoro li sta mandando, incoscienti, ma cosciente, al macello.

@violencepolice @AlsaceRevoltee @CStrateges @laluciolemedia @TaranisNews @Cemil

Il personaggio era sempre stato chiarissimo. Se lo sono ripreso dopo averla scampata una prima volta. Hanno già sperimentato che il livello di cinismo di costui lo lascia totalmente indifferente davanti a più di qualche pestaggio. Come con le precarizzazioni del lavoro volute da Hollande e affidate allo stesso individuo, il coraggio dei Francesi li farà esporre alla violenza fisica. Servirà solo a fare un po’ di teatro a spese di un coraggio mal utilizzato e fin troppo ben diretto. Lo abbiamo visto tante volte da quando quel febbraio del 2009 sbarcavo a Tolosa in mezzo a uno sciopero degli insegnanti cui Sarkozy stava tagliando la formazione. « Enseigner, c’est un métier » era scritto sul volantino che mi misero in mano durante la mia prima passeggiata in una sera nevosa. « La chaux, notre métier » campeggiava su un palazzo antico in ristrutturazione al sole qualche giorno dopo. Il livello dei servizi sociali e delle facilitazioni di accesso alle attività culturali a Tolosa era inimmaginabile. Vivere era facile e sereno, in una stanza di pensionato universitario con micro angolo cottura di nove m2 con bagno esterno (quello interno sarebbe costato troppo). Perché fuori c’erano spazi collettivi dove vivere e lavorare - cioè nel mio caso, studiare - biblioteche funzionanti di grande bellezza, teatri, concerti, concorsi di canto, cinema a pochi euro, conferenze ovunque, un dialogo continuo tra ruoli diversi; la piazza della città trasformata ogni settimana in un luogo dove trovare tende mongole con calligrafi, sofà dove conversare, giochi e giocolieri, attività di ogni tipo, gratuite e ben fatte. I grandi mercati attorno alle cattedrali ogni domenica. Si apriva per me la sperimentazione di una vita civile in un paese dove mobilità sociale e servizi pubblici funzionavano ancora. Sarebbero ben presto caduti sotto le passeggiate al mare di certi figuri. Ma chi venne dopo non le restaurò come avrebbe dovuto.

Oggi per me vedere distruggere l’essenza dello stato sociale conquistato da un popolo fiero intelligente colto e libero è straziante più che se fosse successo qui. Qui è già successo, con Dini e Prodi, in sinistra e non sorprendente analogia. Non sorprende chi per anni ha ricostruito come le politiche di liberalizzazione economica e distruzione dello stato sociale volute dalla UE siano state introdotte nei singoli paesi dai partiti di una cosiddetta sinistra progressista che ha trovato in questa miserabile scappatoia una possibilità di continuare a esistere dopo la fine dell’URSS. Condannando i popoli dell’UE alla miseria, a non avere pensione, a non avere abitazioni, a non avere salario, futuro, ospedali, istruzione, a pagare un biglietto di museo quindici o venticinque euro, a vivere per pagare bollette e trasporti a società privatizzate.

La Francia è stato l’ultimo paese UEZ a cedere. Si sono battuti contro il liberismo dal 1995 fino al 2014, resistendo passo passo. Il primo tentativo è stata la privatizzazione dei trasporti nel 1995, poi il contrat du premier emploi, l’equivalente dei cococo dell’amato Prodi, nel 2005. Contrariamente a qui, dove non vi fu un fiato, allora tutta la società francese si ribellò dalle Grandes Écoles ai sindacati che facevano il servizio d’ordine per proteggere gli studenti. Poi ci furono dieci anni di deindustrializzazione e delocalizzazione (lo Stato deve astenersi dall’intervenire nell’economia!) con il conseguente indebolimento dei sindacati, nonché la cecità voluta su quanto pesasse il liberismo UEZ  nelle politiche economiche ormai piegate a strozzo da Maastricht. La casse du code du travail firmata da El-Khomri (come sono brave le donne!) ma voluta da Macron e accettate da Hollande. Da allora il sindacato, sostanzialmente concorde con i due compari, cominciò a indire manifestazioni e scioperi dopo e non prima delle votazioni delle leggi, quando ormai si era davanti al fatto compiuto, con l’unico scopo di offrire uno sfogo a una base scontenta e ben diversamente mobilitata.  Quella base delusa e disperata in buona parte si ritrovò a salire a Parigi nel generoso tentativo dei Gilet Jaunes che a prezzo di sacrifici sanguinosi erano riusciti a far perdere la faccia a Macron davanti al mondo intero. Oggi le pensioni, che la pandemia aveva fermato nel febbraio 2020 dopo un Natale di scioperi. 

I servizi cedono a poco a poco, quelle piccole cose che « tanto basta organizzarsi, lamentarsi non sta bene». Alla BnF hanno cominciato a chiudere la distribuzione il sabato, giorno in cui possono andarci anche le persone che lavorano durante la settimana. I biglietti del métro sono aumentati a Parigi per l’ennesima volta. Al Louvre da due anni hanno prima ridotto poi soppresso le domeniche gratuite. In certi ambienti inverosimili si comincia a tagliarsi i fondi da sé. Il personale pubblico viene ridotto, declassato e precarizzato ovunque, spietatamente. La Francia che amavo sta venendo smantellata senza (voler) capire da un tipo che non ha mai nascosto di volerlo fare. Chi è causa del suo mal non mi consola: li amo troppo per non sentirmi straziata.

I Francesi si sono fatti massacrare da quest’uomo per tre anni, finché il confinamento li ha rinchiusi in casa infrangendo le ultime resistenze. Non so quale obnubilazione li abbia portati a rivotare un manganello, tra l’altro che non ha mai nascosto le proprie intenzioni. Come per la loi travail, adesso sindacati e partiti di non-sinistra li faranno sfogare un po’, tanto la legge è passata. Una strategia autocentrica e disastrosa.


 

lunedì 13 marzo 2023

Il cipresso in pandemia

 A me la pandemia ha rimesso in forma: mai stata più magra, scattante e nei limiti cittadini sportiva di quei due anni di lontananza prima totale e poi parziale dall’ufficio, un anti stress imbattibile. E serena, malgrado il dolore per quella strage, dovuta a volte solo alla mancanza di un impianto di ossigeno funzionante, come in un ospedale nel Molise, il caso più straziante che non riesco a dimenticare. Ma il mio corpo ha reagito bene, una volta fuori da una realtà insopportabile. Del resto, a leggere il post precedente si ha un’idea parziale dello scenario in cui passo inutilmente le giornate. Nel frattempo abbiamo anche messo su con entusiasmo un progetto e ripreso un materiale che stava ammuffendo, ma che vuoi che sia, il lavoro dev’esser soltanto routine, controllo del corpo e pena.

A qualcun altro ha fatto bene: agli alberi. Non ho mai visto una fioritura così esplosiva e rigogliosa come nelle lunghe passeggiate di giugno dopo la riapertura. Oleandri a piazza Verbano dai rami piegati sotto i fiori che cancellavano le foglie, cascate bougainvillée violette, ondate di gelsomino a ogni siepe; foglie luminose sugli alto fusto a Villa Ada, fiori a ogni filo d’erba, fronde felici, gerani esplosi. Il glicine, quello non ho potuto vederlo, fiorisce troppo presto: ma se qui si fosse fatta una chiusura ragionevole come in Francia, dove si poteva uscire per un’ora al giorno per fare attività fisica da soli, invece di perseguitare l’aria aperta, potrei dire com’è andata anche per lui.

Si era allentata una gabbia: il fermo delle automobili, degli aerei e di molte attività produttive aveva fatto sparire quella morsa di grigiore che grava ognora sulle città e i dintorni. Come dimenticare il polipo a nuoto nei canali tornati trasparenti di Venezia? Al punto che secondo me, invece di fare tante storie con le transizioni ecologiche che sostituiscono soltanto un prodotto con un altro, imponendo alle persone spese non indifferenti, sarebbe meglio per due mesi l’anno fermare tutto tranne le attività all’aria aperta e i mezzi pubblici e far pagare allo Stato indennizzi e stipendi. Sarebbe un investimento in salute e benessere per tutti. 

Quell’anno verso marzo cominciavo a starnutire. Ma più il governo chiudeva l’Italia più gli starnuti si diradavano. Oh che bello, quest’anno si mette bene. Gli starnuti non tornarono. 

Stessa cosa per due anni. Da tre settimane invece potrei diventare azionista di qualche casa di fazzoletti. Basta passare anche a diversi metri di distanza da un cipresso per diventare un mantice con gli occhi in fiamme. « C’è un cipresso da queste parti? » ho chiesto oggi dopo una raffica improvvisa di starnuti e naso che cola. « No no non si preoccupi »: volto l’angolo e ne vedo ben tre, dietro una recinzione militare casualmente aperta. Potrei fare una ricognizione dei cipressi della città a occhi chiusi. Finite le restrizioni, riprese le attività, il polline ha dovuto riagguerrirsi anch’esso per resistere in città. E se in campagna, come ieri, sento tutt’al più un vago pizzicorino al naso, in città è un disastro. Sono meglio di una calamita. 

La natura ci ha provato a chiedere di respirare. Ma per chi l’unico equilibrio concepibile è tornare a gennaio 2020, perché qualsiasi cosa sia avvenuta dopo è una perversione da stanare, questo è irrilevante. Quasi fastidioso come il polline del cipresso. Per me tornare in presenza è stato vivere per giorni ogni momento la ripulsa fisica del mio corpo che voleva fuggire da un luogo dannoso e mi diceva ad ogni passo che facevo di scappare, di salvarmi altrove. Corpo e cervello.

Come non capirlo, povero cipresso: soffoca e si sente frustrato quanto me, strozzato da una situazione immobile.


  

sabato 11 marzo 2023

Freddo o non freddo, ecco il dilemma

 Tutti i giorni feriali, la stessa scena.

Arrivo trafelata, accaldata in quella anticamera dove c’è la mia scrivania. Non voglio regalare un minuto di più di vita a un luogo dove conosco solo alienazione senza prospettive, malgrado tutti i miei sforzi professionali e malgrado le mie intenzioni di lavorare in modo leale per un’istituzione che di me e di quanto so fare e immaginare non sa che farsene se non tenermi quieta. Quindi lungo la strada corro, carica di borse e pacchettini, la schiscetta del pranzo e una maglia da indossare non appena mi fermerò perché camminando ho caldo, ma appena mi siedo in un ambiente sotto i 22°-23° rabbrividisco dal freddo.

Mi getto sul cartellino per timbrare strappando quei venti secondi che significano un minuto in più. Poi mi istallo al tavolo dove non arriva mai mai mai un raggio di sole, perché le stanze soleggiate sono riservate a oggetti mal riposti o a chi lì dentro ci passa per sbaglio un paio di volte a settimana, non chi si fa giornate di nove ore, sia mai.

Ingombro come sempre, come il davanzale, perché, come sempre, dopo anni in cui supplico per averli, non ho un armadio, una cassettiera, uno stipo qualsiasi dove riporre un foglio, archiviare una cartella, custodire un lavoro in corso o pochi oggetti di cancelleria. E ancora ancora che per me, freddolosissima in attività sedentarie, ci sia un sano termosifone A GAS alle mie spalle. Motivo per cui, a quel tavolo di anticamera senza sole e senza neanche una lampada che non sia centrale, dove tutti passano ma nessuno si ferma, ci tengo assai. Le prospettive.

Quel giorno sono tutti in movimento. Deve venire il capo in capo a metà mattina. La cosa non mi riguarda, né dall’alto né dal basso. Accucciata nel mio angolino, inizio a sentire un senso di disagio cui sulle prime non so dare un nome. Poi allungo una mano dietro la schiena e sento il metallo. Freddo. Il termosifone è spento. Faccio il giro del piano: tutti spenti. Passo al piano di sopra: gelati.

Inutile rivolgersi ai portieri, troppo presi dal capo in capo. Provo con qualcun altro che sappia a chi rivolgersi. Già perché, mentre una volta avevamo una centrale termica ragionevolmente efficiente, adesso siamo nel mirifico sistema della concorrenza! Il pubblico inefficiente!! Bisogna fare largo alle aziende!!! Loro sì che sanno come fare:  lo dice la UE e Bersani, per dirne uno, ha eseguito.

Di conseguenza, quando si rompe un termosifone, bisogna soltanto:

1) chiamare un numero verde, e già qui c’è un problema, perché di telefono che chiami certi numeri verdi ce n’è uno solo - i dipendenti pubblici fanno telefonate a sbafo! Bisogna tagliare le linee esterne!!

2) parlare con una o un disgraziato istallato chissà dove, che non ha assolutamente idea di come sia fatto l’edificio che non ha mai visto, né di dove sia, men che meno di cosa sia un impianto di riscaldamento, mentre i vecchi operai della centrale termica conoscevano il posto a menadito. Però questo fa risparmiare costi all’azienda che gestisce il lavoro, dato che così può metterci il primo che passa senza formazione veruna: loro si’ che sono tanto brave, le aziende! Lo dice la UE e la UE non sbaglia mai.

3) capirsi con il personaggio in questione, per cui l’istituzione è solo un insieme di codici e numeri.

4) il poveretto ci informa di « avere inoltrato la chiamata » mentre tu rimani lì a sperare che abbia azzeccato e capito.

5) inoltre il poveretto non ha idea alcuna dei tempi di intervento. Sa solo che per contratto « dovrebbero », condizionale d’obbligo, intervenire entro un certo lasso di tempo, che magari sono giorni. Sempre perché, per contratto, sarebbe poco conveniente per l’azienda avere più di un tot di dipendenti da mandare in giro, no? e le aziende non fanno beneficienza, giusto? Ma noi dobbiamo affidare tutto alle aziende, loro sono brave, lo dice la UE che i servizi pubblici vanno liberalizzati e i dipendenti pubblici tagliati, e la UE non è mica come quei boh, stavolta diciamo quei populisti che esprimono riserve, sia mai, se non funziona è solo colpa della burocrazia che va tagliata, mica delle aziende che sul pubblico fanno profitti profitti profitti pagando sempre meno salari e contributi, grazie ai cococo di Prodi e al Jobs Act di Renzi. 

6) E quindi ti tieni i brividi che ormai hanno cominciato a serpeggiare e aspetti alla cieca.

Quasi a metà mattina arriva la persona che ha organizzato l’arrivo del capo in capo. «Sai P., che fra un po’ viene il capo in capo... ». «Ah, già. Sai che siamo al freddo?» «Ah, al freddo... tu sei al freddo? » «Tutti siamo al freddo.» «Hm» Io: «Ma lo sa il capo in capo, che starà al freddo? ».

Venti minuti dopo i termosifoni bollivano.