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Toulouse en érasmienne

domenica 26 marzo 2023

Qui comincia il racconto di un anno faticoso

 Lo scorso anno è iniziato bene, a Parigi. Mi avevano segnalato dall’Italia un buon concorso subito prima, a Natale. Concorso difficile non impossibile se non avessimo  avuto davvero poco tempo per prepararci, e se il programma non fosse stato davvero sbilanciato su materie non tecniche pur essendo in teoria un concorso tecnico. Dove lavoro siamo tutti talmente felici che chiunque avesse i requisiti lo ha tentato, tranne un pugno di capi già promossi. Nessuno ci è riuscito e chi è andato più avanti era diciamo dotato di una preparazione collaterale a quella tecnica, o aveva facilità di accesso a chi quella preparazione l’aveva. Anche così all’orale di noi non è arrivato nessuno. 

Era probabilmente un concorso come tanti da quando c’è la famosa norma Brunetta per cui se vuoi promuovere qualcuno devi mettere a concorso una certa quota di posti esterni, cosa questa doppiamente ingannevole perché obbliga gli interni a fare un concorso esterno in cui gli esterni a meno di non essere sotto la mano del padreterno non possono avere la minima chance. Per di più in periodo quasi elettorale. 

Comunque la fatica e lo stress ci sono stati, la paura anche, perché davanti a un esame capitale io ancora non riesco a non avere paura, e tanto più hai paura quanto meglio sai che se perdi quel concorso di altre chance vere ce ne sono pochissime. 

Nel frattempo diventa ufficiale che malgrado le intenzioni del precedente pensionando direttore non sarò io a succedergli, per motivi in larga parte ignoti: non so cioè se l’ostacolo viene direttamente dai colleghi più alti in grado per motivi di carriera personale che contemplano la mia esautorazione o da altri settori dell’amministrazione. A prescindere dal giudizio sulla persona, che non ha particolarmente brigato per avere quel ruolo, chi arriva non ha nessun titolo professionale specifico e in confronto a quelli che ho io, be’, meglio non infierire.

Ci avviamo verso un’estate precoce, e nella mia casa che è mal isolata da maggio non si resiste.  Senza sole, perché sole non ce n’è mai, ma sotto il tetto, per cui ho tutto il calore immaginabile senza godere della luce.  Questo mi impedisce di rilassarmi nei momenti in cui riesco a stare fuori dall’ufficio, mentre il mio reddito mi impedisce di trovare svaghi altrove, men che meno di partire per il fine settimana in un posto più ameno.

Con sorprendente coincidenza la mamma, che secondo me patisce il caldo anche lei, inizia a dare di matto sul serio e a rendere impossibile la vita a suo marito. Il quale chiama me a qualsiasi ora per spiegarmi quanto lei dia di matto, ma si rifiuta di chiamare un medico perché guai a disturbare. E guai una bandante perché no. Ovviamente di andarsene in un posto più fresco non se ne parla, perché per lui esistono solo casa sua e la sua casa fuori, entrambe calde mentre il resto costa soldi e guai a spendere benché la sua famiglia sia di condizioni economiche di gran lunga  migliori della mia. 

Il dolore per il peggioramento sensibile della mamma, ridotta a un esserino sconvolto che sta male senza capire ne porter dire il perché né dove trovare sollievo mi atterra già da solo; devo inoltre fare i conti con la continua colpevolizzazione implicita da parte di suo marito che si attende da me non si sa cosa: qualcosa tra l’ infermiera e la badante taumaturgiche con hotel annesso per ogni minuto in cui non sono in ufficio, suppongo. Nel frattempo io devo gestire, come faccio da anni, e come tocca anche a lui con sua moglie, l’addio alla mamma, perché questo è un addio, lunghissimo, straziante, sconvolgente, in cui le generazioni si confondono e si ribaltano, cosa che atterrerebbe chiunque anche senza ulteriori preoccupazioni logistico-materiali. Si comincia con medicine tremende che solo a leggerle vien voglia di scappare urlando.

Nello stesso periodo dell’anno  arriva una scadenza importante dove lavoro, a cui sono chiamata a collaborare, cosa che volentieri faccio, perché mi diverte e perché la persona che dirige la cosa è forse la sola con cui abbia un rapporto di cordiale collaborazione e legame anche personale. Scopro con grande sorpresa e sbigottimento, poi dispiacere e dolore che la persona che conoscevo, con cui avevo già lavorato, che mi ha anche difeso mettendosi a rischio in una circostanza difficile, arrestando così una serie di avvenimenti che avrebbero potuto diventare molto sgradevoli, si sta trasformando in una specie di individuo capriccioso che si diverte, si direbbe, a smontare il lavoro di fronte a tutti. Un atteggiamento assolutamente inedito che mai e poi mai mi sarei aspettata, ma che reiterandosi in vari episodi che non posso raccontare qui, culmina in due momenti talmente spiacevoli e pretestuosi che la nostra relazione professionale e personale ne finisce temo alterata per sempre, malgrado una spiegazione da lei voluta. Sono molto triste per questo, per me è una ferita affettiva prima che di orgoglio, ma quanto accaduto mi ha abbattuto moralmente ben più e più a lungo di quanto pensassi.

La cosa che mi ha deluso e su cui sono riuscita infine a metter un nome è l’idea che per una certa categoria noi non saremo mai altro che dei domestici. Ancora una volta sarà la Francia a soccorrermi per trovare una definizione. Ci si può riconoscere un certo livello intellettuale, offrire persino un attestato formale delle nostre capacità, ma quando e se dimostriamo di poter uscire dalla categoria dei domestici, anche se lo facciamo a servizio del lavoro comune e anche se nemmeno con la bacchetta magica potremmo mai insidiare il loro ruolo e la loro innegabile e meritata supremazia in certe circostanze neanche volendolo - volontà che peraltro non è mai stata il mio caso né il mio desiderio né il mio pensiero - andiamo abbassati, ci va fatto sentire che possiamo essere ridotti a niente se così piace a chi può, senza spiegazioni né motivazioni. E io tutta la vita mi sono trovata in questa situazione, con persone diverse, a cui  avevo affidato la mia fiducia, le mie speranze e talvolta il mio stesso avvenire, per non parlare dell’ammirazione e financo dell’affetto. Ma io ero e sono un domestico e devo dimostrare di non poter esser di più; altrimenti ci penseranno loro a ricordarmelo. Non posso essere troppo simile a loro, è inammissibile, non c’è mica l’eguaglianza a questo mondo. Altrimenti a costoro cosa resta?

Solo a fine giugno riesco a avere qualche ora di respiro: il 29 a Roma è festa. Dopo essere rimasta imbambolata senza riuscire a prendere l’iniziativa per far nulla talmente sono esausta di tutto riesco a proiettarmi fuori di casa sino a Anzio, dove hanno vissuto i miei nonni appena sposati dopo essersi trasferiti a Roma da Milano. Per loro era stato un nido d’amore di cui parlavano sempre con rattenuta tenerezza. Mi tuffo nella spiaggia tra le scogliere, cercando di non vedere l’orrore dei due lidi coperti da ombrelloni e grattacieli e gioco con le onde. Respiro tra la frescura e il mio amato mare, non c’è troppa gente perché è un giorno feriale, sono felice. Felice: no, sono viva e in pace, mi sento esistere e lavare via le ossessioni dopo mesi e mesi. Come se quella fuga di meno di un giorno fosse la sola vera scelta che ho potuto fare negli ultimi mesi. 

Su queste premesse affronto l’estate, calda fin in fondo alle Alpi. Tremila km in due andate e ritorno di dieci giorni ciascuna tra fine luglio e Ferragosto, inframezzate da settimane lavorative e notti in forno. La mamma rifiuta di mettersi la mascherina in qualunque luogo, se non mi vede per un attimo mentre sono in bagno esce dalla stanza o dall’appartamento gridando a squarciagola il mio nome e vagando disperata: tutti mi guardano come la irresponsabile figlia degenere. Solo la padrona di casa di uno dei due luoghi sa cosa vuol dire , ma anche così non le garba troppo il disturbo agli altri pensionanti. In luoghi meravigliosi siamo comunque sotto un clima quasi bollente, perseguitate dai tafani e con la mamma che non vuole più camminare; avanza a passi microscopici da bambino imbronciato e dispettoso, non mangia, neanche le cose di cui era più golosa, e grida tutto il tempo che vuole andare all’ospedale; getta nella pattumiera qualunque cosa mia sua o della casa non riconosca o non le garbi, come un fascio di preziose cartine accumulate nel corso dei decenni e ormai introvabili. Per di più in nessuna delle due case dove siamo riuscite a trovare posto c’è una stanza tutta per me: dormo in cucina, o meglio in quei disgraziati « angoli cottura » che andrebbero banditi per legge. In una di queste dev’esserci qualcosa di annidato nel divano dove dormo: mi risveglio con le gambe sfigurate di punture per quattro notti, finché decido di spostare una poltrona letto attraverso porte che la lasciano passare solo rovesciandola su un fianco, e mettermi lì’: il trasloco dura circa due ore, però le punture miracolosamente si arrestano. Quelle che ho pruderanno per un mese. 

A settembre comunico che partirò per i fatti miei una settimana, ovviamente la cosa è presa con impazienza mal celata dal marito di mia madre che continua a rifiutare una badante, parla malissimo della mia famiglia perché non passa con mia madre il tempo e le ore che lui vorrebbe e dio sa cos’altro ancora. Mi immagino anzi non ho voglia di immaginare cosa dirà di me agli altri, perché insomma è un maldicente e anche alquanto maligno, pur non essendo una persona cattiva, anzi.

Sono talmente oppressa che le vacanze senza la mamma sono di fatto un lungo poltrire stordito senza saper decidere cosa ho voglia di fare nel tentativo di riacquistare equilibrio e recuperare energie; ma dieci giorni sono troppo pochi. Le ferie sono finite e in ogni caso non ho i mezzi per permettermi nulla di più, neanche fuori stagione (grazie moderazione salariale). A Roma settembre è sempre caldissimo: quando esco dall’ufficio presto mi precipito a Anzio, a fare il bagno e guardo il tramonto dalla spiaggia di Enea. Ritorno a notte fonda mangiando un gelato. In casa non si resiste fino a notte inoltrata: come se fosse ancora agosto.

Dalla Francia malgrado precedenti accordi mi hanno comunicato a primavera che la casa non sarà disponibile. Dopo la fine della mia casa solita nel 2019 e la coabitazione con un’alcoolizzata nel 2020, con il rischio che mi sbattesse fuori di casa ad ogni settimana e infine con un ceffone e un’ingiunzione di andarmene su due piedi a tre giorni dalla prevista partenza ho deciso che non voglio più coabitare. Nel 2021 la pandemia ha permesso ancora di trovare a prezzi accettabili, ma ormai sono rincarati ancora di più e la soluzione amichevole che avevo trovato per quest’anno viene disdetta senza tanti complimenti. Andrò a Natale: a settembre compro i biglietti.

A ottobre inizia a fare freddo in ufficio, dove mi sento sempre più impotente malgrado le nuove cose che ho imparato e le idee che ho avuto e vorrei mettere in pratica, mentre fuori è ancora caldo. Anche lì non entra mai il sole, non nella mia stanza. Gli avvenimenti mi hanno fatto ingrassare orrendamente: la forma perfetta che avevo trovato nel lockdown è ormai meno che un ricordo e soprattutto per quanto tenti di stare a dieta in modo serio, non riesco né allora né ora a dimagrire neanche di poco, mentre il peso sta diventando se non obeso in modo patologico di certo eccessivo e imbarazzante. Conservo la silhouette perché ho una corporatura che lo permette, non mi trasformo in un barile ma mi sento sformata, tutti i vestiti che ho non mi entrano o mi stanno male e la moda non aiuta a trovare cose di foggia giusta (leggasi: scollature a ovale o a barchetta, maniche importanti, vita alta e segnata, gonne fluide o attillate in modo giusto, colori graziosi, fibre naturali).  

Nel frattempo arriva la risposta alla domanda di assegno di accompagno: negativa, perché viene giudicata autosufficiente, dato che ancora cammina. Eccerto, che altro, con quella diagnosi? Dobbiamo risparmiare! Il debito pubblico! Cottarelli e Della Vedova che frignano da bravi compari. Ora il marito della mamma si era categoricamente rifiutato di farle rifare le analisi prima di presentare domanda, malgrado le mie insistenze. Adesso fa il sostenuto e affida la cosa a mia zia che lei sì conosce un’associazione che... quattro mesi dopo risulterà che l’associazione è la stessa dove sono già andata io e dove, dopo il rifiuto, mi avevano fissato un appuntamento per il ricorso che lui mi ha fatto disdire protestando che era un’altra cosa rispetto a quanto stava facendo mia zia. Che farà gli stessi passi con due mesi di ritardo. E’ così  sistematicamente per tutto: ogni volta lui viene a piangere che succede qualcosa di catastrofico, ogni volta la sua scelta è di non fare nulla, e se faccio qualcosa io, lui deve sistematicamente sabotarla con ogni mezzo, disdicendo appuntamenti, trascurando visite analisi e controlli fissati da tempo (tra cui quella dermatologica e quella per l’osteoporosi), mettendo in mezzo altre persone e in buona sostanza montando una grande agitazione pur di non far nulla - e non pagare nulla - finché può. Lo spavento che ci ha fatto prendere quest’inverno è nato da un malanno trascurato che è iniziato a settembre e lui ha curato con lo sciroppo, senza dirmi che la mamma aveva la febbre da allora, pur di non andare dai medici. E io mi devo ancora giustificare per quanto non sarei stata capace di fare. Se non fosse che ci va di mezzo la mamma, lo coprirei di insulti e me ne laverei le mani per sempre. Già così ne trascura la salute oltre il livello di guardia e mi impedisce di occuparmene io. L’unica cosa che vuole è il mio tempo libero e quando sono stata male, alla fin fine mi rimproverava di trascurarli.

Devo riprendere la costosissima fisioterapia alla schiena perché mi sento più rigida che mai e ho dolori continui: sono spese significative, un terzo del mio stipendio ogni mese.

Un giorno, dopo esser andata alla fkt ho i brividi, ma non ci faccio caso. Dopo qualche giorno però inizio a tremare e a avere mal di gola. Tutto il giorno fino a sera, quando tornando a casa penso di passare in farmacia. Mi danno il propoli vediamo se funziona. Lo metta ogni due ore, va bene. Tampone? Passi domani. 

L’indomani il tampone segna 0,63.

(Continua)

    


  

5 commenti:

  1. Un anno decisamente complicato :(

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    1. Eh te lo dicevo. E siamo solo a tre quarti (-; Pellegrina che non riesce a commentare sul suo blog.

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    2. ma come puoi non riuscire a commentarti! Ci riesco pure io :D

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  2. Anche tu non sei stata messa benissimo…

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