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per gli scribi

Toulouse en érasmienne

mercoledì 10 novembre 2021

Scrivo. E dovrei proprio scriverlo, con un grido e con terrore.

 Scrivo. E questa volta non è più questione di farlo dietro la lingua straniera, come ho fatto per altri due traumi catastrofici della mia vita. Quella lingua che lui ha permesso di parlare. Quella lingua che mi ha permesso di narrare, di fare una storia delle parole indicibili, indicibili perché, lo dico d’un fiato prima che mi si mozzi, perché raccontare nei dettagli alcuni gesti della propria madre è assumere e traversare una tempesta di vergogna come se ne fossi io la responsabile. Singhiozzi e termore. Ma mica lo so se ci riesco. Eppure, bisogna spezzare la congiura non detta del silenzio.

Scrivo per come ne ho avuto l’impulso l’altro ieri sera, da un posto pubblico in una biblioteca, dove non potevo aprire il blog per via delle manie di localizzazione del discretissimo google, che per proteggere la tua casella, si capisce, non ti lascia aprire la posta se non gli dai il numero di telefono. Molestatore.

Perché mamma, quella volta tu c’eri. Non eri in cima alle scale. Tu c’eri e l’aggressione è successa sotto i tuoi occhi, in una situazione che tu stessa avevi creato. E tu hai aspettato prima di intervenire. E quando sei intervenuta, mi hai sottratta a quelle mani, si’, ma non l’hai fatto fino in fondo. Mi hai lasciato davanti a quella presenza quasi quotidiana per un tempo che a me è parso lunghissimo. Forse non lo è stato, ma così io l’ho percepito. L’episodio è stato uno soltanto. Per fortuna. Molto meno invasivo del precedente. Ero più grande e tu, con il barlume di coscienza rimasto, sei riuscita a capire che dovevi fare qualcosa, e a farlo. Ma dopo, dopo, invece di mettermi al riparo da quella presenza, hai messo le mie forze di appena dodicenne davanti a quelle di un quaranta-cinquantenne, come se toccasse a me, ancora una bambina, sbrogliare quella matassa.

No, non toccava a me. Toccava a te spiegare a quell’uomo, dominatore, crudele, che odiava i bambini, che non sopportava di averli vicino - me lo ha detto tante volte - che riteneva i bimbi delle Zazie e nulla più, che voleva metterli a tacere ad ogni costo, che non avrebbe mai più dovuto rimettere piede in casa tua. Anzi, in casa nostra, dato che ci tenevi tanto a « avere la nostra casa per stare con me », salvo poi  tenermi il muso per mesi o anni, perché a me, abituata alla grande e animata casa dei nonni, quella situazione a due proprio non piaceva.

Ma evidentemente non piaceva neanche a te. Perché d’accordo, che i tuoi tentativi di fondare una relazione stabile, con mio padre e con un altro uomo, erano falliti tutti e due. Ma era forse il caso di esporre tua figlia a un essere siffatto, una volta che si era rivelato tale, e esigere da lei amabilità e cortesia verso costui?

Tu eri debole, mamma. Tu avevi bisogno di affetti. Disperatamente. E anche se ti facevi forte di una diversa morale, quella morale in fondo a te non andava affatto bene. Troppe mancanze nel suo fondo. Ma anche troppo amore per chi solo nella misura in cui accettavi quella morale avrebbe accettato te. E tu lo amavi sopra ogni cosa. Mio padre. Il mio maledetto, vile, intelligente, colto, appassionato, rivoluzionario, padre, impegnato fino a morire schiantato di delusione quando le prospettive ideologiche ed economiche (ma questa seconda cosa la so adesso) della nostra società mutarono, e quel mutamento gli impedì di continuare a fare il suo più amato lavoro, ovviamente anche quello politicamente connotato. Morire ovviamente lontano da te. Anche se a mio parere conta di più come si vive che dove si muore. E lui non aveva vissuto con te.

Quello che un giorno, vedendomi sdraiata sul vostro letto brucando foglie d’insalata esclamò: « Ah, perché non ho una cinepresa! » Credo sia stato l’unico slancio di vero affetto che l’ho sentito proferire nei miei confronti.

Ma in quel periodo mio padre non c’era, come del resto mai ci fu in modo stabile. Credo di aver dormito  sotto lo stesso tetto con lui forse tre volte e due non sono nemmeno sicura di ricordarmele. Adesso che ci penso, non c’è neanche nel mio certificato di nascita, l’ho sempre saputo, ma non son mai riuscita a guardarlo dall’esterno questo fatto. Dicendo che insomma, non è normale.

Insomma, la sto tirando in lunga per darmi coraggio. Ma fra un quarto d’ora devo uscire e quindi devo raccoglierlo, il coraggio, e scriverle queste parole tremende. Dopotutto non sono tremende per me. Sono tremende per lei. Ma perché oggi io mi devo sentire ancora di dover proteggere lei? Forse dopo andrà meglio.

Una notte mi svegliano dei rumori soffocati e incomprensibili. Dormo nello stesso letto della mia mamma. L’appartamento non è più quello dove lei mi porto’ urlante e scalciante la sera dell’Epifania di tanti anni fa. I prezzi degli affitti sono aumentati, il suo salario è diminuito. L’uomo con cui avrebbe voluto condividere quell’appartamento, devo dire assai bello, è tornato anch’egli da sua moglie (gli uomini sposati e confusi non sono un’esclusiva della nostra epoca). La padrona lo rivuole. 

Questo secondo è brutto, piccolo e inadatto a una madre con una figlia preadolescente. Affaccia su un cortile grigio di cemento. Ma è centrale e a te piace. Però ha due sole stanze: una sala, dove si entra direttamente senza ingresso, una cucina parzialmente chiusa, un bagno da un lato e una piccola stanza dall’altro lato. Dove ci sta un solo letto matrimoniale. E dove dormiamo tutt’e due. A me in via di principio la cosa non dispiace. Avevamo dormito in due letti gemelli nella stessa stanza a casa dei nonni e il cambiamento dell’appartamento non lo avevo capito bene.

Ma mai avevo dormito con altri. Come tu hai fatto quella notte, mamma. Perché io non dovevo essere svegliata dal vostro accoppiamento, con un essere sconosciuto, nel mio stesso letto. Perché c’era un letto singolo usato come divano nella sala. E io credo bene di avervici visto dormire una notte alzandomi per andare in bagno. E già la cosa non mi era piaciuta, dato che eravate semisvestiti. E quella intimità non mi piaceva vederla.

Forse avete pensato che ormai « sapevo » e quindi potevate installarvi più comodamente. Già questo sarebbe gravissimo da parte tua e sua. Anche se capisco che nelle nostre campagne era del tutto normale fino a pochi decenni fa. Ma la nostra famiglia non viveva in campagna e non c’era niente di normale. Ero paralizzata dallo stupore e non sapevo cosa fare. Non mi rendevo conto che avrei potuto uscire dal letto. Per andare dove? Quello era il MIO letto. Non il suo. Ma il peggio doveva ancora venire. Perché a un certo punto sento una mano sul mio pigiama, all’altezza del pube. Che mi gela. Che non mi piace. Che non voglio! No, non voglio. È il mio letto, vattene, lasciami in pace.

Non più lascia in pace. Io mi allontano verso il lato più lontano, ma il letto è piccolo e il suo braccio è lungo. Mi giro bocconi per proteggere il mio sesso. Mi tocca anche le natiche, non mi lascia in pace. Io non ho voce, non capisco, come può essere, cosa mi sta facendo? Io sono una bambina, so come nascono i bambini, ma non riesco a legare le due cose. Non capisco che senso abbia tutto quello che succede.

A questo punto mia mamma (inorridisco. Ma non dovrebbe inorridire lei?) articola « Lasciala stare ». E lui, « Le piace. Ma le piace. Lo so che le piace. ». A me tutto viene in mente fuorché il piacere. O quel che dicono proverebbero i bambini, cioè la curiosità. A me viene un disgusto senza fine. Paura, paralisi. Non sapere dove rifugiarsi. Non sapere dove sia il nemico, chi sia amico e chi nemico. Se sta con la mamma, come può essere un nemico?

Alla fine mia madre si alza, accende la luce, fa il giro del letto, mi prende per un braccio, mi trascina fuori dalla stanza, prepara l’altro piccolo letto che del soggiorno e mi mette a dormire li’. Poi ritorna da lui. Almeno mi lasciano in pace. Ma io sono sconvolta, atterrita e disgustata. Non riesco a riprendere sonno.

Qualche notte dopo, stessa scena anche se senza molestie. Inescusabilmente. Stavolta però è come se mia madre mi avesse dato l’autorizzazione a reagire, penso. Conosco la scena, mi dico. E così mi alzo, faccio il giro del letto, esco dalla stanza sbuffando e sbattendo la porta. 

E mi pare il minimo.

Qualche tempo dopo - giorni? Ore? « Non va bene che tu ti comporti così con Mario. Alzarti sbuffando, andartene sbattendo la porta. Se io ho piacere di dormire con un uomo nel letto tu non mi puoi fare ricatti emotivi. Se vuoi andare di là ti alzi, saluti e te ne vai piano piano. ». Come hai potuto pensare parole simili, preferirle e difenderle? Come hai potuto spezzare in me ogni coscienza del diritto sacrosanto al rispetto e alla mia integrità? Cosa diavolo avevi in mente quando mi hai detto quelle cose? Hai mai capito quanto mi avessero fatto male, sconvolgendo il mio orizzonte e la mia idea di limite fra bene e male, fra genitore protettivo e aggressore?

Devo uscire, ma non ho ancora finito.

2 commenti:

  1. Difficile uscire, in tutti i sensi, ma ce l’hai fatta, anche se conservi il ricordo. Ora chiudi la porta e non tornare indietro.

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