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Toulouse en érasmienne

venerdì 12 novembre 2021

Avanti, continuo

 ... un’esperienza del genere lascia in una bambina un’enorme confusione. Perché io all’epoca ero ancora una bambina, nel fisico e nella mentalità.

Quella sera per me non c’erano parole. La mamma adorata non mi ha detto nulla durante tutta la situazione. Durante ha parlato solo a lui. Quando si è alzata e mi ha portato fuori per un braccio, era soprattutto seccata. Voleva finire con me al più presto possibile e ritornare in camera da letto. Non una parola per me, per spiegarmi. Io la guardavo allibita tirare fuori con gesti impazienti le lenzuola dal canterano, strappare il copriletto a righe variopinte dal letto singolo del soggiorno, rifarlo approssimativamente con gesti sbrigativi, pari alla sua indifferenza verso di me in quel momento, trovarmi una coperta di emergenza - faceva freddo - e poi mettermi lì dentro e andarsene. Senza un abbraccio, senza una parola, senza chiedermi come stessi, senza permettermi di parlare. Poche storie. Ma io ero appena uscita dal trauma di un’aggressione sessuale al limite dell’incesto. À undici-dodici anni. Non stavo facendo i capricci. Ammutolita nel terrore e nella paura di qualcosa che non potevo conoscere.

Io la guardavo, ed ero attonita. Avevo bisogno del suo calore, avevo bisogno che mi abbracciasse lei, nel suo modo rassicurante. Lei, che fuggiva verso quel letto di mostruosità.

Soprattutto avevo bisogno che mi spiegasse cosa diamine stesse accadendo. Un senso a ciò che succedeva. Abituata a vivere nella casa dei nonni, senza che lei avesse chiare relazioni stabili, il vederla fugacemente in coppia, sempre senza una spiegazione, era qualcosa che non avevo mai compreso appieno. Certo gli altri bambini avevano in genere una famiglia con due genitori, ma io non li vedevo praticamente mai insieme - i padri erano quasi sempre assenti quando andavo a giocare a casa delle amiche e non conoscevo né i rituali né le abitudini di una famiglia classica di tre persone. A tutt’oggi credo di avere un’idea molto vaga e indiretta di cosa sia un padre. Quando la mamma decise di andare a vivere con un uomo in un appartamento tutto per loro, non mi spiego’ nulla né della sua scelta, né dei cambiamenti che ciò avrebbe comportato. 

Mi portò in quella per me maledetta casa, mi disse che c’era una stanza per me e stop. Prima di trasferirsi, mi disse anche che un suo amico sarebbe venuto a prendermi in macchina per andare in un posto, e di farlo divertire per il tempo del tragitto. Io non capii nulla, mai mi aveva parlato in questi termini. Tentai di parlare, senza sapere bene di che. Ma quella persona si rivelò poi gentile e avendo anche lui dei figli, capace di interagire con un bambino e sinceramente interessato, in quella visita preliminare, a farmi parlare a capire qualcosa di me. Con i suoi figli, giacché poi mi toccarono fugacemente anche loro, non andò particolarmente bene. La figlia, un anno più di me, insopportabilmente egocentrica schizzinosa, e lui la portava in palma di mano. Il figlio, due anni di meno, decisamente troppo piccolo e con interessi del tutto diversi.

Ricordo che mi fece mangiare, in quella casa allora quasi vuota, forse la loro garçonnière, e che mi parve molto buffo e un po’ inquietante dover divertire un signore che mi spiegava come lui mangiasse i buchi del groviera e solo il pepe, che a me non piaceva, della mortadella. Qualcosa mi lasciava interdetta.

Però era innocuo. E mi guardava in modo in qualche senso paterno misto a curiosità. Forse è l’unica persona ad avermi guardato così. Il nonno è il nonno, sia ben chiaro, ma è un’altra cosa.

Fu molto meno semplice alzarmi una notte e trovare che dormiva, non è un eufemismo, nella stanza della mamma insieme a lei.

Mia mamma non mi spiegò mai perché noi dovessimo vivere con costui. Non mi disse nulla di cosa significasse per lei, del suo ruolo verso di lei né men che meno verso di me. Tutto sommato tirai un sospiro di sollievo quando scomparve. Lei no. Ne apparve un altro, e fu peggio. Pure questo non era libero (un vizio!), o meglio era separato in qualche modo, aveva una bimba poco più piccola di me. Non avevamo granché da dirci, la piccola era gelosissima del papà, comprensibilmente temeva di perderlo, e quindi delle attenzioni che lui riservava alla mamma. Non ne voleva sapere di doversi gestire pure una potenziale terza rivale. Come darle torto? Ma la mamma mi aveva obbligato, in quel suo nuovo modo tirannico, a giocare con lei, a stare con lei e soprattutto a comunicarle che doveva accettare la situazione senza fare storie, cioè a evitare di farla piangere. Quindi io non appena lei faceva una smorfia mi sentivo terrorizzata e sommersa dai sensi di colpa, per la mia inadeguatezza verso il compito richiesto dai desideri materni e perché con la consapevolezza di allora, ritenevo che il rifiuto di Barbara nei miei confronti fosse personale, il che distruggeva doppiamente la mia autostima. Avrei dovuto, secondo mia madre, gestire, quanto meno nel tempo che passavamo insieme, le angosce di una settenne che vede sfasciarsi la coppia genitoriale, il padre con un’altra donna e pure con la di lei figlia, avendo io forse nove anni e una scarsissima comprensione del senso di una coppia, che ad aggiungere incomprensibilità su incomprensibilità, non assomigliava per nulla a una classica vita di famiglia e mancava del tutto di stabilità. Cosa sarebbe successo adesso? Ne sapevo meno di loro. Bel colpo, madre! Ma come potevi essere diventata così rozza intellettualmente e totalmente cieca a ciò che è un bambino per soprammercato? 

 Barbara si ribellava contro la situazione e rivoleva il padre e la coppia genitoriale che aveva conosciuto, mentre io di ribellarmi non ero capace, sapevo che dai nonni comunque non si sarebbe tornati e mi lasciavo sommergere, inghiottire da questo nulla senza confini. Paralizzata dalla situazione, non potevo provare altro che la mia incomprensione di ciò che accadeva (nel frattempo mi era successo l’episodio delle scale). Peraltro Piero, diversamente dal primo, non era gentile né attento nei miei confronti. Noi figlie eravamo due impedimenti, ma anziché lasciarci altrove come avremmo desiderato, ci obbligavano a fare i terzi incomodi, o forse usavano me mentre lei era con il padre per tentare di tenerla tranquilla, laddove io avrei dovuto fornire compagnia poca spesa tanta resa e zero cognizione. Una volta mi strapparono dalla mia amata villeggiatura a Fiuggi con mia zia che passava le acque, per andare in un odiatissimo campeggio selvaggio nel parco nazionale d’Abruzzo, a vedere degli orsi che ovviamente non c’erano, scomodissimi in tenda sui materassini del mare, sotto la pioggia, dove finimmo per ammalarci di brutto tutti e otto, noi quattro e due coppie di amici di lui. Un’altra al Circeo, sempre in canadese, sempre scomodissimi, con Barbara sulle braccia che aveva paura del mare e frignava, mentre io sognavo solo di sguazzare otto ore al dì lontana da tutti costoro. I rimproveri senza fine perché io non ne avevo voglia: « Per una volta che ti porto in vacanza con un’altra bambina invece di restartene tutto il tempo a Fiuggi con la S. a non fare niente, tu fai anche storie? », « Ma come, tu fai sempre storie Gaeta Gaeta e poi ti porto al mare e non ti va bene? ». Gaeta era una vacanza ben diversa e lei lo sapeva. Fiuggi, non fare niente? Le sue urla uscire perentorie dal telefono, invece dei suoi saluti e dei suoi baci e io che non capivo: avevo sempre potuto esprimere il mio parere, i miei desideri e se del caso negoziare: « fare un patto » lo chiamavamo. Cos’era adesso, a partire dalla casa senza nonni, quell’impossibilità totale di avere una volontà che non collimasse con la sua? Quella necessità di obbedienza assoluta e adesione gioiosa al suo desiderio, annientando fin la consapevolezza della liceità del mio, fino a sfiorare, qualche anno dopo, la violenza sessuale? 

Ancora una volta, non capivo.

Avessi chiesto qualche cosa... dovetti tornare da sola in treno da Fiuggi a Roma,  azzeccare una coincidenza, con una certa preoccupazione, non avevo ancora dieci anni, e avevo paura di perdermi. Soprattutto avevo paura di tornare sotto la sua rabbia crescente ogni volta che le dicevo di no, che i miei gusti non erano i suoi, che le cose che mi imponeva di amare e accogliere con gratitudine, così diverse da quelle di quando eravamo dai nonni, non mi dicevano nulla, mi annoiavano o mi dispiacevano. 

Adesso capisco che in quel periodo tra i miei otto e diciotto anni i suoi desideri passavano avanti a tutto. Dieci anni infernali, soprattutto i primi otto. Lei voleva costruirsi una vita di donna, di amante, di compagna, cosa comprensibile, e io dovevo servire a renderglielo più facile, cosa del tutto sbagliata. Mai mai mai nel presentarmi tutte queste scelte ha pensato a me, a cosa volessi io, a come agire per rendermi più facile la situazione, a lasciarmi scegliere cosa preferivo fare nel quadro dato. Non era strano che mi sentissi spaesata: io non esistevo più, o il minimo possibile. Lo voleva, d’accordo, ma lei era l’adulta, lei aveva ogni potere. Io sentivo di perdere il suo affetto, sentivo che avrebbe voluto annientarmi, che avrebbe preferito che non esistessi, perché non volevo quello che lei voleva e soprattutto, reclamavo, senza avere le parole per dirlo, ma con fiducia in lei, il diritto di volere altro da quello che lei voleva. Non me lo ha mai riconosciuto, allora, questo diritto di esistere, di essere autonoma dai suoi desideri. La mia volontà, il mio desiderio, non dovevano esistere, non potevano essere riconosciuti, pena il rigetto della mia stessa esistenza. Sentivo, ma non potevo mettere parole su tutto questo. Mi sembrava che il mondo si fosse capovolto, ovviamente per colpa mia. Una colpa incomprensibile, perché quegli individui estranei, non particolarmente amabili, che importanza potevano avere, rispetto ai nonni, rispetto a noi, a me? Apriti cielo. « Sei solo gelosa! »

Il tutto, da parte di mia madre, sempre senza una spiegazione. Al massimo : «Andiamo  a... con Piero, c’è anche Barbara che è tanto simpatica, così tu non stai sempre coi grandi come quando vai dai nonni, che stai sempre con loro, alla fine, eh. », Ah, be’, allora.

Una notte dormimmo a casa sua. Io e Barbara ci guardavamo come le uniche persone adulte dotate di senno, capaci di restare reciprocamente cortesi nella vicendevole indifferenza in un mondo che aveva perso senso.

La mattina sentii dei colpi terribili alla porta, come qualcuno che vuole abbatterla, poi delle grida aumentare di tono. Mi dissi che dovevano esserci gli operai nel palazzo e tentai di continuare a dormire. Invano. Entrò mia madre, dopo un bel po’, mi fece alzare, malgrado le mie proteste che erano solo gli operai; Barbara si era già alzata e stava in piedi davanti alla porta piangendo in pigiama, terrorizzata. I due grandi erano in piedi davanti alla porta. Lui tentava di parlare alla persona che spingeva e gridava frasi incomprensibili, poi arrivo’ una terza persona fuori e tentò di placare la prima che di domenica mattina e con una voce femminile, sia pure sconosciuta, non poteva essere un operaio.        

Infatti era Stefania, la moglie di Piero e la mamma di Barbara. Che aveva il cattivo gusto, a sentire mia mamma, di non rassegnarsi alla situazione. In modi parecchio brutali, dato che la scena avveniva davanti alla figlia e davanti a me, che ne capivo sempre meno. Avevo otto o nove anni e per la prima volta sentivo parlare di separazione e divorzio, allora non così comuni, o meglio, magari ne avessero parlato. Mi trovavo in mezzo a una scena coniugale causa separazione non consensuale e non capivo cosa fosse. Il suo vocabolario era incomprensibile: « Sgualdrina, sgualdrina » cosa vorrà mai dire? Cercava qualcosa, un oggetto? Il tono era inequivocabile, ma con chi ce l’aveva? E perché?

Uscimmo da li’ con due poliziotti che tenevano Stefania per le braccia. Lei gridava, stravolta: « La sgualdrina! La donna coi poliziotti! » il che per il mio ambiente era un insulto molto peggiore di sgualdrina perché Police partout justice nulle part. La mia mamma con i poliziotti? Mia mamma aveva chiamato i poliziotti?  Impossibile. E poi, perché?

Anche stavolta, quasi nessuna spiegazione diretta, malgrado io abbia chissà farfugliato un: « Ma come mamma, ma i poliziotti non sono quelli che ci picchiano alle manifestazioni? Perché adesso li hai chiamati? ». Forse un: « La moglie di Piero non accetta la separazione e fa delle storie», detto con il solito tono spazientito magari nemmeno a me, ma a qualcun altro. Il che non è proprio il massimo dell’intelligibilità.

La sera stessa, o un’altra non molto dopo, eravamo a piazza Navona, sempre con l’eterno Piero e sempre con Barbara, accompagnata dall’amica che aveva tentato di trattenere Stefania quella mattina, senza riuscirci. Seduti al bar di fianco ai Tre scalini, o forse proprio ai Tre scalini, una cosa a pensarci ora, nel nostro ambiente praticamente inverosimile, un posto così borghese, costoso. Comunque niente gelato che costa troppo. Per i non romani, o per quelli più giovani, la specialità dei Tre scalini era il tartufo artigianale al cioccolato fondente, ben prima che esistessero quelli confezionati. Andrea, il mio primo ragazzo importante, anni dopo, amava invitarmi proprio lì, senza che io riuscissi a capire il vago senso di disagio che mi coglieva, malgrado la passione inveterata per i gelati e le scaglione di cioccolato nero da squaglio, oggi introvabile, grosse come due dadi di tavoletta. Parlavamo, e ecco ancora Stefania - avrà assoldato un investigatore privato? Ci pedinava? - piomba li’ e attacca a urlare. Barbara, che non so più se fosse con lei e dovesse tornare con il padre, o se fosse con noi, incomincia a piangere, forse perché non vuole più stare con il padre, e magari con due estranee per soprammercato - come darle torto? - io sto per piangere anch’io, perché non ne posso più di quell’atmosfera, di quelle persone, di questa bambina che mi sbattono addosso, che mi è estranea e piange sempre senza neanche essersi fatta male. Mia madre, durissima, mi fulmina: « Non ti metterai a piangere anche tu, adesso? Guai se lo fai,  eh. Non si fa, non ti permettere. ». Avevo nove anni. A un certo punto si alza, mi prende per un braccio, mi porta via, loro restano lì, e lei furiosa contro la povera Stefania, che certo era isterica e a suo dire manipolava la figlia, e contro Piero, perché si lasciava scuotere da quelle scenate, e forse, lui sì, dal pianto di sua figlia.  

Io, allora, non posso piangere. Io inghiotto la mia paura, e via, a piedi, di notte, stanca, trascinata fino a casa, sballottata, stordita. Sempre senza parole per me, per quello che ho dovuto subire per scelte non mie. La casa, che è quella casa, e le sue scale.


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