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Toulouse en érasmienne

sabato 30 ottobre 2021

Il groppo

 Risveglio nel cuore della notte. Fremito di paura. No, non ho sentito rumori sospetti, anzi sta cominciando a piovere e lo fa sul tetto di metallo delle case parigine. Un fruscio rassicurante sempre e senz’altro nei primi tempi che ero in questa casa.

Eppure sale la paura. Niente di incontrollabile, ma è pur sempre come sentirsi afferrati in uno strano luogo tra il petto e lo stomaco da una contrazione incomprensibile. Orami accade tutte le notti. E’ una novità, mai sofferto di roba del genere, prima. La mente si agita in cerca di una via di fuga. Ma non ne vede. Il giorno purtroppo non va meglio. Sempre attaccata a internet, per ore e ore, senza arrivare da nessuna parte, senza fare quel che vorrei. Senza alcun visibile vantaggio, salvo forse soffocare l’invisibile, qualcosa di vischioso che mi trattiene per i piedi e mi blocca l’anima.

Ho incontrato infine la padrona di casa. Le ho fatto i complimenti per il monolocale. Viene fuori che è italiana, dopo che abbiamo parlato più di un’ora e solo perché ci scambiamo i numeri di telefono. Non aveva capito che lo fossi, il che mi lusinga. Lei è arrivata qui dalla provincia, a diciotto anni dopo la maturità. Voleva studiare qualcosa che in Italia avrebbe richiesto altri punti di partenza. 

Fu suo padre a incoraggiarla a partire, già negli anni ‘80. Qui ha avuto una carriera rispettabile, ha incontrato e studiato con i grandi del mestiere e le loro scuole. Ha voluto e avuto una famiglia, almeno due case in un quartiere da sogno anche se non chic come altri, ma per come siamo fatte, non ce ne interessa poi così tanto, dello chic. Si, comodo, ma anche obligeant, un po’ di bohème allarga i polmoni e apre più orizzonti, alla fin fine. 

I genitori le comprarono il monolocale dove sono adesso io, appena arrivata. Studiare così, a queste condizioni, in pieno centro, con un bello spazio. Andare fuori stabilmente, non come l’elastico cui sono stata sottoposta io.  Costruirsi la propria vita in una città stimolante come poche. Una città dove le cose accadono, si evolvono. Dove si costruisce, si guarda, si pensa a come modellare il futuro. Parigi è questo. Qualcosa di vivo, in movimento. Effervescenza scientifica, culturale, artistica, economica. Roma è immobile. L’Italia è immobile.

Né lei né io sopportavamo l’Italia. Impossibile aderire a quel mondo chiuso, sottomesso. Le persone come le strade ci apparivano soffocanti. Mai avremmo potuto trovarci bene. La sua famiglia però aveva i mezzi per comprarle una casa in un luogo che la facesse sentire realmente parte di questo posto. Mia mamma, al di là di tutte le sue volontà, non l’avrebbe mai avuto. E questa differenza negli anni ‘80 ci sarebbe già stata. La Francia fino a Sarkozy - Macron era un paese che dava futuro e che queste differenze permetteva di superarle. L’Italia lo è stata per un brevissimo periodo. La mia nonna, anche lei figlia di una madre sola, perché era sposata ma il marito era fuggito chissà dove lasciando la moglie con tre figlie sulle braccia, crebbe con i geloni in affitto su una casa di ringhiera, peraltro nel centro di Milano. Con mio nonno finirono con il possedere quattro appartamenti, certo non in centro città. Ma i figli già incontrarono difficoltà a trovare un lavoro. Le uniche che se la cavarono furono le mezzane: tutt’e due dipendenti pubblici, una insegnante, l’altra impiegata credo come quadro. L’ultimo si becco’ in pieno la disoccupazione degli anni ‘80. Dei quattro nipoti, una è emigrata, l’altra vorrebbe farlo e ha avuto una carriera frustrante e una vita sempre faticosa. Un altro ha dovuto chiudere un’attività aperta con passione, con successo - e con tutti i risparmi di una delle zie di cui sopra, il cui marito divenne anch’egli uccel di bosco, perché i capitali vanno solo a chi già ne ha, aiuti UE alle piccole imprese inclusi - e oggi vive con il RDC. L’ultimo anche lui con un diploma specializzato, ha visto chiudere e smantellare il suo settore e vive facendo consegne, abitando insieme al padre. Se due di noi hanno una casa, lo devono a quanto hanno potuto accumulare i nonni. In Francia no. 

Purtroppo nella mia famiglia sono mancati i mezzi, relazionali e economici, per dirmi vai a diciotto anni. Vivere nascosti e protetti, non uscire dal nido: o anche uscirne, ma per tornare indietro alla fine della giornata, della vacanza. Altro sarebbe stato inconcepibile. L’estero non era un orizzonte. Aspettare non si sa cosa « lasciamo che passi questo momento » era la grande risposta di mia madre ogni volta che bisognava prendere una decisione. E io che pensavo si trattasse di qualcosa di grave che non sapevo, smettevo di insistere. Invece non era nessun momento. Era rimandare e respingere il pensiero della scelta. Oppure, i soldi. Non spendere soldi. A lungo ho pensato che i suoi rinvii celassero il segreto desiderio di affrontare tutto ciò insieme a mio padre, il giorno del mai del mese del poi in cui si fosse deciso a lasciare sua moglie come (poveretta, pure lei), come mille volte promesso.

In realtà probabilmente non era così, o almeno non era solo così. Mia madre è stata probabilmente una donna angosciata da mille paure che razionalmente ha tentato di non trasmettermi, ma che devono essere passate per altre vie. Paura degli animali, ad esempio, e per non trasmetterla mi portava da bambina tutte le domeniche allo zoo. Bellissimo, per me, ma la familiarità fisica con un essere vivente di un’altra specie mi è ignota e oggi di fatto neanche la vorrei. O forse vorrei un cavallo. In realtà mi sarebbe sempre piaciuto un elefante. Il cavallo è un ripiego. L’idea di giocare con la sua grossa mole e soprattutto di farmi sollevare avvolta nella proboscide mi ha sempre divertito. Io, comunque, cose economiche, mai. Non voglio darmi delle arie: non mi interessano proprio. Anzi, nemmeno le vedo, tendenzialmente.

Paura di guidare, e per anni mi ha catechizzato con la tiritera del si può vivere anche senza macchina, riconducendo la scelta a qualcosa di vagamente pasoliniano - lei peraltro non amava questo autore e per ragioni più che condivisibili, il suo moralismo, il suo compiacimento morboso per gli ambienti degradati.  Dati i pochi interdetti che mi poneva, tendevo a ricondurli a ragioni importanti, pur se per me incomprensibili in quanto bambina. Raramente insistevo. Mentre in me si radicava la necessità di una automobile, perché i viaggi che avrei amato fare con i mezzi pubblici erano impossibili, con buona pace dei greenismi oggi alla moda, e poi perché in città non hanno mai funzionato. Impossibile dimenticare le attese infinite per tornare da scuola e arrivare a casa spossata, o per andare il pomeriggio a fare attività di qualsiasi tipo, che finivo con l’evitare per non doverli più prendere, lenti, carichi, scomodi.

Nel frattempo arrivati a oggi, a questi ultimi giorni, da ormai tre settimane, non riesco a fare più nulla di studio, men che meno di scrittura. Nessuno mi obbligherebbe a fare certe cose peraltro. Ma vorrei farle. Solo, non ci riesco. Ho provato a riposarmi, a distrarmi, a prendere delle mini vacanze di qualche giorno facendo altro.

Non è servito. Finisco con il passare tutto il giorno in casa davanti allo schermo, cercando non so cosa, perdendo anche il tempo di fare cose che pure m’interessano e vorrei. E’ come se cercassi di riacchiappare qualcosa ancora e ancora, dietro quello schermo. Qualcosa che non so. Un sésame. Una chiave di una porta segreta. Acciuffare il vento che passa. Insensato, inspiegabile, insaisissable. Non capisco cosa sia, cosa possa essere, né quali siano i suoi pregi. In realtà è come qualcosa di vischioso che acchiappa me, inverte il giorno e la notte, mi sprofonda in un’esplorazione, in un tentativo di apprendimento che non esiste, che non mi serve, che non mi rappresenta, non mi soddisfa. E che non voglio. La vischiosità, la permanenza di qualche cosa. Questa è l’immagine che riesco a darne ora. So che è stupido buttare così, per qualcosa che potrei fare ovunque e in qualsiasi momento, gli ultimi mesi in questa città e in questa amatissima casa. Ma non è una scelta volontaria, ovviamente. 

È come se mi mancasse una misura, la misura. Il ritmo. Come se l’avessi perduto. Paura di qualcosa che possa sorgere di colpo dall’ignoto? Ma quale ignoto, dio mio? Retaggio personale, familiare? Non c’è nell’esterno, qui, un pericolo. Ci sarebbe al contrario sia pur con mille economie, la possibilità di gestirsi liberamente le giornate. Che sia quello che sotto sotto mi fa paura? Sfiora un interdetto inconsapevole? Vado contro mia madre? E contro i suoi interdetti inespressi? 

C’è un pericolo non fisico e non immediato in Italia, se non riuscirò ad andarmene. Ma perché riverberarlo sugli ultimi momenti di libertà, di gioia, di soddisfazione, di piacere, per autodistruggermeli? Perché allontanare la riuscita, concludendo i lavori che ho cominciato, per vedere aprirsi un futuro su una realizzazione, non su un incompiuto da rimandare in eterno? Da rimandare come il famoso « lasciamo che passi questo momento »? Non uscire dall’ordine materno?

Guardo la posta istituzionale, belle parole e volontà ossessiva dell’amministrazione. Nausea.

Guardo la casella personale. Silenzio da dove vorrei andare, nessuna risposta ai solleciti da parte mia che chiedo notizie. Nessuna risposta. Ansia. 

Da dove questo impulso incomprensibile di attaccarsi a internet per giornate intere? Bisogno di controllare l’esterno rinchiudendolo attraverso uno schermo, allontanandolo, a causa di un’angoscia interna delle cui cause sono inconsapevole? 

Ricerca almeno di un limite. Che non mi soffochi tutto il giorno. Non mi divori la bellezza.

Poi di notte, di colpo, il risveglio. Notte dopo notte. La paura forma un groppo in petto. Un brivido mi scuote. Controllabile quanto inspiegabile. Mai provato, prima.

Non capisco cosa mi sta succedendo.

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