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Toulouse en érasmienne

giovedì 28 ottobre 2021

Sdegno rabbia dispetto spavento

 Girare li sento e fanno impazzire le giornate.

Credo di star a tal punto soffocando nella rabbia da non riuscire più a vivere nient’altro. Quel che peggiora le cose è la sensazione di solitudine assoluta in cui affronto la situazione lavorativa che somiglia sempre più a una prigione. Anche se fisicamente non me ne rendo conto, la rabbia per le scelte devastatrici dell’amministrazione è a un tale livello da imprigionarmi in un tale viluppo di ansia incompresa, inespressa e inesprimibile, soprattutto irrisolvibile, che per tenerla in qualche modo sotto controllo mi aggrappo all’iPad e ci passo le giornate sopra, in internet, cercando non si sa che.

Il che è stupido. Uscissi almeno e mi godessi Parigi, dove ieri c’era un sole favoloso e dolce - da agosto a ottobre sono i suoi mesi più belli. Le stagioni le hanno definite i Celti: qui il 1 agosto iniziava l’autunno, lontani ormai dalla mezza estate, il 1 novembre l’inverno, e infatti l’aria cambia, e il 1 febbraio la primavera, che è sempre fredda e bagnata, ma a maggio poi arriva l’estate e le sue infinite sere luminose. E mentre da noi, più vicini all’equatore, queste stagioni si confondono molto di più, qui restano quasi sempre molto leggibili e chiare. Io amo questo paese e questa latitudine. E l’altro ieri ho fatto la sera una lunga pacificante passeggiata lungo la Senna, da Hôtel de Ville alla Tour Eiffel e ritorno, in quell’aria a un tempo umida e calda che qui arriva dopo o prima delle giornate di pioggia. 

Ma il guaio è il giorno. Non riesco a combinare nulla, mi angustio, apro gli occhi con l’idea di mettermi sul lavoro, ne ho persino voglia, un piccolo esserino attivo e allegro si stiracchia dentro di me, sorride e non vede l’ora. Poi arriva un’enorme onda nera, mi travolge nella sua confusione, e non lo faccio. Divento un pesce che boccheggia nel suo ricciolo, ma non vede più la luce né il fondo del mare. Sommersa, svogliata, stanca. Bloccata. Scrivo qualcosa che mi riporta là, per questo inane tentativo di opporci a ciò che stanno facendo, sbircio ancora e ancora la posta da cui dovrebbero arrivare notizie dello spostamento, non trovo nulla, ed è fatta. Finita, la giornata passa attaccata a internet, senza uscire di casa, con qualche lavoretto domestico. E non capisco perché. Assurdo sprecare gli ultimi mesi che potro’ passare qui così. Buttando via, oltretutto, i tanti lavori intrapresi con slancio, curiosità e gioia e che questi ultimi mesi e settimane dovevano servire a chiudere, dandogli forma compiuta, permettendo un distacco che non fosse ahimé solo una perdita.

Almeno me li godessi passeggiando gli ultimi giorni, andando in uno dei tanti musei che ancora non ho visto, facendo una gita in uno dei tanti castelli di queste meravigliose campagne. 

Invece no: casa, internet, carboidrati. Perdita degli scarichi e l’agenzia che non manda l’idraulico.

Insomma: stress.

E furia. Soprattutto furia. Perché, come dicevo, ho la sensazione di essere sola a oppormi a forze soverchianti. Ora, lo so benissimo che quanto viene fatto non è diretto contro di me, né contro una persona in particolare, nemmeno contro cio’ che come gruppo siamo. E’ diretto contro i “costi” che la nostra area rappresenterebbe ad occhi profondamente incolti e ignoranti, perché ormai il criterio di valutazione del servizio pubblico è diventato questo, da quando la linea guida è il trattato di Maastricht, cioè la libera concorrenza anche nel settore pubblico, e l’idea di fondo di questa politica è che esso vada tagliato e smantellato finché non sia necessario appaltarlo alle sacrosante aziende per mancanza di risorse e personale, ma per farlo le prestazioni che dà vanno tagliate abbastanza da diventare redditizio per chi lo prenderà in appalto, perché quello che dovrà fornire sarà ridotto a un punto tale da costargli poco e permettergli un livello di profitti tale da soddisfarlo. E’ esattamente quello che sta venendo fatto con le pensioni (anche questo fa parte delle richieste della Commissione UE cui adempiere entro dicembre e Draghi ci sta lavorando, con i media al fianco mentre tutti strillano di vaccinazioni e altre amenità di distrazione). Ma un servizio pubblico non può e non deve essere redditizio come primo scopo: deve portare un beneficio di lungo termine alla popolazione, perché appunto è tutto fuorché un’azienda e soprattutto non deve esserlo. Deve migliorare le condizioni di vita delle persone, anche essendo in perdita a livello immediato se del caso, non fruttare quattrini a un gruppo economico-sociale preciso. E non dovrebbe venire meno alla Costituzione, che prevede pensioni dignitose e rimozione degli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana. Cosa quest’ultima che appunto il servizio pubblico puo’ e deve garantire. 

E’ questo il suo modo di essere redditizio.

Ma di questo ho scritto tante volte e si sa, chi non ha orecchi non intenderà mai né vorrà farlo né vorrà soprattutto saperlo.

Quello di cui non riesco a scrivere è la rabbia di sentirsi prigioniera che sfocia in angoscia e in ansia. Perché potrebbe essere quello a bloccarmi le giornate. 

Sul lavoro... mi fanno ridere quelli che straparlano di “presenza fisica” che sola può sviluppare la solidarietà. L’ilarità che suscitano la batte solo quella riservabile ai sindacati, che hanno firmato il nostro smantellamento con l’amministrazione e ora lo propagandano come un progresso e arrivano a imporre la loro decisione anche ai rappresentanti di categoria nazionali. Di solidarietà tra noi ce n’è ben poca, ci sono quelli che di questo taglio hanno fatto base per la propria carriera e si agitano perché non va abbastanza svelto, ci sono le legioni di indifferenti, ci sono i pavidi, ci sono quelli che si’ capiscono, al limite solidarizzano pure, ma ormai hanno tirato i remi in barca e lavorano solo per sé stessi, perché hanno più chance di farcela anche se sempre poche. Ci soprattutto i caduti dal pero, e sono così tanti ma così tanti che è un miracolo come tutti i peri d’Italia non si siano ancora spezzati sotto tale carico.

E questa cosa dio sa perché mi ammazza. Vedere con chiarezza la direzione che l’amministrazione sta prendendo e ritrovarsi a fare la Cassandra. Imprigionata e inascoltata, salvo poi cadere dal pero perché quel che prevedevo si è toh! verificato. Lottare per lasciare con dolore un posto che vorrei solo veder fiorire, perché ci sono le potenzialità e un solido sostrato e meriterebbe di essere tenuto con la dignità che gli spetta. Il solo vantaggio di questo furor demolitorio della dirigenza è avermi almeno tolto i sensi di colpa per la voglia di scappare, ma il dolore di veder distruggere una struttura costruita in lunghi decenni con sapienza, intelligenza e cultura e che sarà saccheggiata e uccisa non finisce, non scompare ancora, malgrado tutto, non riesce a uccidere il desiderio di darle un destino diverso. Sarà che per me le cose hanno un’anima anch’esse, la loro distruzione non si abbatte su entità prive di sensi, di senso e di dolore.

Se penso alla fuga, le cose non vanno meglio: penso che potrei trovarmi bene dove andrei, non benissimo perché il lavoro che davvero vorrei fare è già preso da altre due persone di cui una più anziana ma l’altra coetanea, quindi me la dovrei sciroppare fino alla pensione e non è detto che mi assegnino a quel servizio. Ma ormai posso anche starci, almeno spero, a non fare mai remunerata quel che avrei voluto e studiato. In questo momento sono così stanca di lottare e faticare che vorrei tranquillità. Soprattutto tranquillità, ma una situazione indegna come Roma non me la puo’ dare. 

Quel che mi angoscia sono i prezzi degli alloggi là dove vorrei andare, l’idea che non troverò mai un luogo dove posare, luminoso, bello, comodo, asciutto, silenzioso, con un ingresso, due stanze, una cucina vera, un bagno, una vasca da bagno, un terrazzo assolato, il riscaldamento non elettrico e davanti il verde e magari se ci fosse il mare. A distanza di passeggiata dall’ufficio. Come chiedere la luna. 

Davvero dobbiamo pensare che sia troppo? Che non rientri nell’esistenza libera e dignitosa?



 

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