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Toulouse en érasmienne

lunedì 11 ottobre 2021

Ci sarà un futuro?

 Sta tutto nell’articolo indeterminativo, ovviamente. Il futuro esiste, fino alla morte.

Un futuro consono non è detto affatto.

Anzi, per me finora non c’è mai stato un futuro stabile. Si’, ho il posto fisso che ho voluto con pervicacia, perché avevo visto cosa voleva dire non averlo, in una famiglia monoparentale con genitore unico licenziata tre volte, ogni volta perdendo in salario e contributi rispetto all’impiego precedente - l’ultimo lavoro essendo stato con i magnifici contratti cococo senza contributi regalatici nel 1997 dall’amato Prodi - giacché qualche poveraccio pure lo ama -: finché lo amano i padroni e padroncini, si capisce, i salariati no, i dipendenti pubblici, poi, dovrebbero chiedersi dove sia finito il senso del loro lavoro, davanti a chi i servizi pubblici precarizza sempre più, depauperando formazione, trasmissione, pianificazione e conoscenze, insomma li distrugge. 

Io invece ho iniziato direttamente con il lavoro nero, perché si sa, non bisogna essere schizzinosi e la disoccupazione sparirà. O con il lavoro non pagato: tirocini su tirocini, lavoro intellettuale bello fatto gratis per riuscire a risollevare la mente dalle kapo’ dei centri assistenza telefonici che ti chiedono i titoli di studio per poi scoppiarti a ridere in faccia e ti lasciano a casa dall’oggi a stasera. L’amato Prodi, con le sue belle leggi sulla precarizzazione del lavoro (quelle che la Francia ha respinto compatta per dieci anni, prima che i sindacati cedessero a Macron, e viva la Rivoluzione perché farla serve sempre a qualcosa, non fosse che a liberarsi dalla soggezione feudale), l’ha reso possibile, questo. Seguito in perfetta consonanza da Berlusconi, con la legge Biagi e il concordato Sacconi.  E se noi lo ricordiamo, questo, altri preferiscono ricordare, senza dirlo, dove tali benemerenze lo hanno portato, l’amato Prodi: alla Commissione UE.

Durante uno dei periodi di disoccupazione della mamma, sua sorella mi spiego’ i vantaggi dell’impiego pubblico: li’ il lavoro non si poteva perdere. Anche lei aveva penato un po’ per diventare di ruolo a scuola. Dapprima aveva lavorato in un liceo ribelle all’epoca della contestazione, “il XXII” e le piaceva molto, credo. Poi era finita sui monti della provincia, poi nelle borgate dure che l’avevano per la prima volta fatta disperare e sciogliere in lacrime; proprio non era l’ambiente per lei, poi le cattedre spezzate con intervalli impossibili per spostarsi in una cittadaccia come Roma e non parliamo della qualità del lavoro che si poteva riuscire a dare, ma quella con tutta evidenza non interessava a chi doveva avere i conti in regola, poi negli ultimi decenni, vicino a casa “ma non troppo se no va a finire che incontri tutti i genitori appena esci”. Il suo lavoro non le dispiaceva, credo, ma non esprimeva mai pareri decisi su questo in famiglia. Forse avrebbe preferito rimanere nel liceo di un tempo, per l’ambiente costruito con i compagni di lavoro, che non penso abbia più ritrovato. Forse erano gli anni formidabili l’oggetto vero del suo rimpianto. Ma non so, non ho certezze. Lei non è mai stata una ribelle.

Aveva vissuto sempre con i genitori, perché i suoi amori non ebbero mai quella fine felice che il suo cuore avrebbe voluto. Divenuta a un certo punto molto accorta, era riuscita a comprarsi una casa come le piaceva e a arredarla nel suo stile preferito di Ottocento inglese, pizzi, porcellane di antiquariato da poco prezzo, e qualche pezzo di art nouveau. Mia mamma, con cui i rapporti non erano buoni, lo detestava e io finivo in mezzo perché da bambina a me ovviamente piaceva e avrei voluto anche io possedere oggetti cosi’.

Insomma quel giorno, ero proprio molto piccola, davanti a quel discorso, avevo preso la risoluzione di diventare anche io un dipendente pubblico. Credo sia stata la mia prima decisione autonoma e razionale di lungo periodo, che peraltro non si smenti’ mai. Volevo escludere dalla mia vita quell’angoscia per sempre. E poi, senza averne allora chiara nozione, mi piaceva l’idea di “lavorare per tutti”, in qualche modo, e di potermi spostare su realtà diverse. Sapevo già, pero’, che mai avrebbe potuto essere la scuola: per me la scuola fu sempre un’oppressione infantilizzante, tranne qualche momento delle elementari Montessori, e eccettuata l’insegnante di storia, la “signorina Luciana”, già anziana, magra, alta, grembiule colorato, chignon e trucco, rigorosa si’, ma certo mai sadica né pazza, che mi avrebbe segnata, in positivo, per sempre, indicandomi la strada; ma il resto, dopo la prima elementare, fu un trionfo della banalità, o dell’assurdità, come la prova del nove che a tutt’oggi non ho capito. Variava solo il grado di sopportabilità. Ultimo ricordo di lei, il suo ritorno dopo un periodo di malattia durante il quale un’improvvida supplente tento’ di portare in una scuola sostanzialmente laica il concetto che il prevalere dell’autorità imperiale sul papato avesse spalancato il precipizio di una decadenza morale in cui non ricadere nei nostri tempi civili. Il concetto di egemonia era spiegato in un lungo pannello appeso in classe, scevro da ogni giudizio morale: era un fatto, semplicemente. Ma quando provai a accennare alla signorina Luciana quanto ci era stato insegnato in sua assenza la vidi aggrottare le sopracciglia in modo fosco - e fu l’unica volta. Concluse che il tutto era molto confuso e rimise le cose al loro posto. Del tutto scevra da compiacimento, presumo che in cuor suo stesse ruggendo, piazzando ad ogni buon conto la supplente in una lista di stampo augusteo.

Brava.

Oggi devo fronteggiare l’ultimo atto di Francia; atto ho preso da tempo che qui per me non c’è futuro remunerato. Ma questo è l’ultimo anno, e ho dovuto deciderlo da sola. Non so come sopravvivro’. Vivo per ora in un tempo sospeso: e temo di non riuscire a finire cio’ che devo e vorrei. Sono come stordita. Mi rifiuto fisicamente di prendere atto di cio’ che so perfettamente, e vivo come se non ci fosse un domani.

Per continuare a respirare, forse.

Non posso pero’ tornare da dove venni: perché stanno distruggendo il mio settore, cestinando la graduatoria per la sospirata carriera direttiva, cui appartengo da lustri di fatto se non di diritto, e bloccando ogni speranza di arrivarci mai. Una nuova dirigenza, ansiosa di virtù maastrichtiane e vogliosa di premi di risultato e disponibilità di posti da distribuire per consolidare il proprio novello potere, ha deciso di procurarseli a spese dell’area più debole, stavolta prendendo di mira non solo le strutture ma le carriere delle persone. Anzi, proprio la nostra stessa presenza, perché, dopo dieci anni di pensionamenti non rimpiazzati saremmo, ai crassi occhi dell’ignoranza superba di costoro, cui io non mi permetterei di insegnare a fare un bilancio, mentre loro evidentemente tutto sanno del nostro ruolo, saremmo dicevo: “troppi”. Potesse, la nuova venuta - giacché di femmina si tratta, ma si sa le donne sono diverse come Maggie - ci licenzierebbe, ma ancora non può, malgrado Draghi e i suoi tirapiedi. Pero’ puo’ privatizzare il servizio, grosso modo, cioè usare precari impoveriti al nostro posto (e qui torniamo ancora e sempre all’amato Prodi), e distruggerci la carriera. E lo sta facendo, con gusto.

Per cui vorrei partire, ma stavolta proprio da tutta l’istituzione. Quando ho cominciato a lavorarci ero quasi orgogliosa di essere li’. Oggi non più: non posso più e non voglio più. Prevale un senso di completa estraneità. Il corpo lo ha capito prima. Durante il confinamento avevo ritrovato le mie forme senza pena e senza sforzo, semplicemente perché lo stress era diminuito. Il ritorno in presenza ha rimesso in moto la frustrazione che si sfoga in gola. Passavo l’estate scorsa davanti a quei muri e mi dicevo: qui non ho più niente da fare. Non posso passare il resto della mia vita attiva aspettando lo stipendio. Una collaborazione inattesa ha per un momento occultato la realtà, facendo pensare a una possibilità di passare almeno informalmente il soffitto di vetro dei ruoli. Poche frasi sono bastate a capire come appariva la verità. Lo intuivo, del resto, da certi toni improvvidi. Per cui, via, lasciato l’ultimo ormeggio, se non per una questione pratica che una partenza troppo precoce danneggerebbe, e non mi va. Ma l’occasione non si ripresenterà; afferrare il ciuffo del Kairos per andarmene sarà comunque a rischio perdita, sempre nell’ipotesi, per il momento quasi irreale, che tutto vada bene e che altrove trovi un luogo più arioso.

Ma l’eccellente caporalessa e la sua scagnozza non lasciano partire nessuno, perché certo siamo troppi quando si tratta di rivedere i conti, ma dopotutto le serviamo ancora quando avremmo bisogno di un divorzio civile.

Sto cercando insomma un modo di spostarmi. So anche dove. Sarei anche attesa, a fidarmi di quel che mi si dice. Ma temo che si facciano delle illusioni sulla fattibilità della cosa. Dovrei avere dei santi in paradiso altissimo, ma non li ho. Anche su questo, temo si facciano illusioni.

Vorrei lavorare in un posto bello.

Vorrei andare a lavorare ridendo.

Vorrei farlo divertendomi, senza paura di chiedere l’ovvio. Anzi senza bisogno di chiederlo, perché l’ovvio, ovviamente, già c’è.


 

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