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Toulouse en érasmienne

giovedì 21 ottobre 2021

Insonnia, crainte

 Una strana insonnia agita queste ultime notti di mondo.



La luna piena viene a trovarmi e io sono felice a bocca aperta a guardarla. Tornavo a casa l’altro ieri sera mentre si affacciava di fianco a Notre Dame, grande, pulita e luminosa.
Sto vivendo un periodo di ansia e di terrore come mai mi è capitato.
Perdere la Francia è già qualcosa di più che sufficiente a schiantarmi l’anima e ogni equilibrio. Ma è come se su questo si fossero incrostati o sbucati fuori fantasmi fantasie e paure indomabili quanto più ignorati. Ne risulta una sorta di paralisi, come se fossi attanagliata da un mostro di Andromeda, e io legata e immobilizzata dalla mia stessa paura rimanessi a guardarlo avvicinarsi senza essere capace di connettere a sufficienza per strapparmi al terrore o almeno organizzare la più piccola reazione. No, Pegaso non esiste e Persée è una gran bella invenzione, ma non mi soccorrerà qui.
 
Se provo ad analizzare la cosa, l’elemento più reale appaiono i legami che mi si affondano nella carne delle braccia, che mi imprigionano come un viluppo simile a una tela di ragno, a una rete soffocante.
Posso avvicinarli solo alla sensazione di imprigionamento che soffro sul lavoro, dove ogni possibilità di realizzazione mi è stata impedita, ogni possibilità di azione frustrata, ma dove anche la fuga, una volta chiara l’impotenza di lungo termine di quella situazione, viene proibita da color che hanno contribuito, con lassismo prima e con determinata demolizione poi, a rendere professionalmente folle quanto facciamo.
Io non sono capace di sottomettermi a qualcosa cui non posso aderire senza uccidermi con un autolesionismo o l’altro. Ne La princesse de Montpensier, il film di Bertrand Tavernier, una nobildonna consiglia dolcemente alla figlia di accettare il cambiamento di un progetto matrimoniale già fissato in nome dei suoi doveri. « Soumettez-vous »: il ruolo di custodi dell’ordine domestico e della docilità femminile giocato dalle madri si palesa a chiare lettere nel discorso tenuto alla figlia. Che si sottomette senza poter dimenticare chi è né cosa desidera, e malgrado tutti i suoi tentativi e le sue buone intenzioni, finirà per distruggersi di dolore.

D’altra parte, tentare di partire non è cosa facile. Dove vorrei andare il problema dell’alloggio è fortissimo e mi angustia quotidianamente con la possibilità di non farcela. Coabitare no, basta, non sono una ragazzina appena uscita di casa; e di questi tempi poi. Peraltro a Roma come a Milano, conosco persone sole e in teoria indipendenti costrette a farlo: un collega, un amico ex quadro in pensione. Gente con un reddito sicuro, insomma, ma che non puo’ permettersi né di comprare né di affittare una casa in una grande città, neppure in periferia. 
Due giorni fa ho passato al setaccio il sito del comune del luogo sognato. Ed eccole finalmente le case a un prezzo possibile: da tre a cinquecento euro per due o tre stanze, un ingresso, una cucina vera, un bagno vero e un pezzetto di balcone. Peccato che fossero ventinove (!), assegnate nel 2018, e richiedessero una serie di requisiti che io non avrò mai. Non solo: per chi li ha, pagare quelle cifre di affitto sarebbe altrettanto difficile quanto è per me farlo sul mercato immobiliare dove le prime cose decenti, peraltro più piccole e rimediate, partono da settecentocinquanta. Quello che basta a fare la differenza: si’ quei duecento euro e rotti in più. Che in assoluto non sarebbero tanti, ma rappresentano una frattura, un fosso impossibile da saltare, anche con un lavoro considerato sicuro e con un salario che non è dei peggiori in Italia, ma che ugualmente non permette di vivere in libertà e dignità.
Quante volte mi sono ritrovata nella vita a due dita da quello che avrebbe fatto la differenza fra arrangiarsi e rilassarsi, pensare ad altro che alle angustie, lavorare a cuor leggero. Altrettante volte quell’apparentemente piccolo passo non è stato possibile compierlo, quella frontiera non ho potuto passarla, mancava sempre qualcosa, così poco, ma qualcosa.
Leggendo la descrizione di quelle case di fatto modeste e comunque già assegnate, mi sentivo quasi in torto a indugiare su quelle che avevano tre stanze anziché due e nel pensare che certo, una stanza in più avrebbe fatto comodo, ma no, era meglio lasciarla a una famiglia più numerosa. Si riaffaccia il ricordo de Le immagini del mondo dei vinti, là dove racconta che quando moriva una gallina i contadini del Piemonte preferivano buttarla piuttosto che commetter il peccato di gola, abituarsi al gusto. Fino a che punto ci hanno tolto la coscienza della decenza? Tre stanze non sono un palazzo, non sono fasto, non sono uno spreco, specialmente se hai dei libri e in casa scrivi e leggi, o anche solo hai un hobby: erano la norma pochi lustri fa. Eppure oggi sembra fuori luogo persino desiderarle.

E così è per tutto. Anche lasciando perdere i miei gusti costosi, per cui quando vedo una vetrina le sole cose che attirano la mia attenzione partono da quattrocento euro, somma impensabile, ragion per cui ormai compro solo, quando capita e se capita, nell’usato dei mercatini, diventato peraltro triste e sintetico pure lui in questi ultimi anni, perché tanto vale non buttare denaro in ciò che non mi convince, oppure non compro e mi tengo quel che ho fuori di ogni moda e livello di uso, per le spese incomprimibili, quelle che devi fare per forza, il salario oggi non ci arriva. O se ci arriva, lavori per quello e per le bollette, sperando di non aver bisogno di cure. Nient’altro. Non parlo nemmeno di passatempi culturali o creativi: l’opera, il teatro, la pratica artistica, nemmeno sportiva. Stiamo tornando indietro di un secolo, e ancora ci stressiamo con i pretesi consumi eccessivi, egoisti e incompatibili con la salute del pianeta. Ma di chi e dove, bisognerebbe chiedersi, invece di andare dietro alle chiacchiere alla moda.    


 


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