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domenica 28 agosto 2022

«Chiamami ‘Mamma’»

 Nella nostra mansarda delle vacanze di Ferragosto, davanti alla cena.

Giornate altalenanti per lei, ristorata dal fresco senz’altro, ma che appena passa una nuvola in cielo è colta da tutti i tormenti del mondo, ripete gesti senza motivo per ore, cammina avanti e indietro e pensa di soffocare. Giornate altalenanti per me, che ero così stanca dopo quest’ultimo anno di lavoro e stremata dal caldo da riuscire a riposarmi lo stesso pur dovendo badare a lei ogni momento della giornata, curando inoltre tutto il lavoro domestico. Altalenanti soprattutto perché non capisco fin dove spingerla in un’attività fisica di escursionismo moderato che regge perfettamente grazie a decenni di pratica e perché perfettamente sana tranne nel cervello roso da qualcosa che non ha ancora causa né nome né cura, in lei come nei suoi compagni di sventura. L’attività fisica le fa bene perché le allevia le ossessioni e perché è un allenamento neurologico fortissimo. Ma lei si ribella spesso e non capisco se e quando esagero io nel calcolare la sua fatica. Insieme ci stiamo volentieri, ma io ho poca pazienza con i capricci che a volte fa, in primis il soffocamento, e finisco con l’ignorarli. Il che porta i suoi frutti perché dopo avere implorato l'ospedale per due volte (ci si è già fatta portare a Roma ma sia in quell’occasione sia dopo visite specialistiche e esami non è stato trovato nulla di nulla), durante un paio d’ore, le intollerabili crisi di soffocamento che durano da mesi con sceneggiate napoletane di ore e giorni vanno fortunatamente scomparendo. Facendomi avanzare l’ipotesi che si tratti di rabbia per emozioni represse che non riesce più a articolare in parole, in discorsi compiuti. Sfacelo emotivo quando fai di queste riflessioni.

La chiamo mamma cinquanta volte al giorno, comunque, anche senza che lei me lo chieda, tra mille baci e carezze come abbiamo sempre fatto. Ora capisco che me lo chiede perché non ne è più sicura. Cerca conferma di una consapevolezza che sente sfuggirle. Ìo mi sento una roccia spaccata in frantumi da una forza sovrastante, paragonabile a quella di un’eruzione vulcanica.

« Come si può dire che io non sono tua madre? » mi dice con aria incredula e risentita, come se una presenza invisibile lo avesse affermato.

Cerco di prevenire, goffamente, con lo stesso meccanismo di un esorcismo: «Ovvio che non si può dire, non cominciamo con sciocchezze del genere, per favore. Come faccio se non ho la mamma?». Siccome nel disfacimento quello che lei ha conservato sono i gesti di protezione, o i tentativi di essi, tento di sollecitare questo istinto superstite. Vedo che ciò la fa ragionare. L’argomento è accantonato e non si ripresenterà più.

Tornate, lei è in campagna con suo marito. «È come se cercasse la sua identità. Mi ha chiesto perché dormiamo in un letto per due, se io fossi suo marito. Poi mi ha chiesto dove fossi tu, nostra figlia.» A parte che quest’ultima frase mi assesta un colpo di clava, perché io non ne voglio sapere cosa si dicono tra loro a questo proposito e per quanto non abbia stima dell’essere che fu mio padre non voglio subire altri sbalestramenti di identità, ma lui non sembra tenere minimamente conto di cosa possa significare per me riferirmi certe cose nel dettaglio. Io del chiamami mamma non gli ho detto niente. Poi arriva come al solito la pressione. Dopo decenni in cui qualsiasi momento passato con lei e peggio con loro poneva un problema perché lui NON mi voleva tra i piedi se non nelle feste comandate, adesso è ovvio che io debba essere a disposizione ogni santo momento in cui non sono al lavoro. Solo che io non reggo, e non reggo anche perché fino alle fasi intermedie della malattia non ha cercato altro che di tenermi lontana da lei tranne nei brevissimi tempi e orari in cui faceva comodo a lui. Adesso dovrei fissarmi a casa loro per tutta la durata dei week end, con lui intorno ovviamente, casa che sta a quindici chilometri dalla mia, che a Roma fa tre ore tra andata e ritorno, e trovarlo naturale. No, non è naturale. No, non mi è possibile organizzare la mia vita in questo modo.

No, il mio lavoro e le mie condizioni di vita sono talmente frustranti che ho bisogno di poter riposarmi senza sottopormi a altri stress. Ovviamente voglio vedere la mamma, ma se vado da loro, che non hanno nessun obbligo di nessun tipo, voglio poter gestire, salvo esigenze puntuali ovviamente, il come e quando. 

Insomma, questa estate abbiamo passato insieme con la mamma due terzi delle mie ferie annuali, con due viaggi al volante di millequattrocento chilometri l’uno dalla montagna e ritorno in meno di un mese. La settimana prossima mi sono organizzata dieci sacrosanti giorni per i fatti miei, ovviamente a settembre perché costa oltre un terzo in meno, e no, non posso rinunciarci perché ormai tutto deve ruotare attorno ai soli due poli lavoro-casa loro. Quindi propongo di riprendere il progetto non realizzato a giugno e che già aveva suscitato un mezzo maremoto, di andare fuori con la mamma due giorni per il terzo fine settimana di settembre. Ho bisogno di riposo, faccio un lavoro che oltretutto è di servizio e relazione, quindi sono molto spesso sulle richieste degli altri. L’anno appena trascorso è stato faticoso fisicamente e emotivamente, oltre al caldo soffocante e ininterrotto da quattro infiniti mesi. Ho bisogno di essere padrona del mio tempo, fare quello che mi va senza il programma e i limiti dettati da persone in stato di bisogno (notiamo che continua a non volere una badante), di stare con le persone che scelgo con i ritmi che mi sento.

Ho bisogno di respirare! E quando gli dico di no, insiste. Allora spiego che vado fuori. E mi sento un essere miserabile in briciole di vetro, e so che quando mi mette in questo stato passo giornate intere senza riuscire a fare niente. E basta! 

Ritorna alla carica con la questione della paternità: la mamma ci ha pensato e ha concluso, per fortuna, che io non sono figlia di lui. A questo punto glielo dico però: guarda che già in montagna ha cominciato con queste riflessioni. Non è che mi devi schiantare con una rivelazione. Io ti ho risparmiato, tu non potresti arrivare a capire che potresti farlo anche tu?

Insomma, io vorrei pensare alla mamma, ascoltarla, gestire il nostro rapporto come mi viene in queste che ne saranno le ultime strazianti fasi, parlarle quando mi va, (tentare di) fare i patti impossibili con questo dolore, senza caricare qualcuno che non può farci più di quanto non possa io. Invece devo gestire il suo smarrimento, unito al suo rifiuto di qualsiasi aiuto esterno, e francamente non posso senza distruggermi io. Non ce la faccio. E non voglio distruggermi.

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