Tornata un mese fa scopro che nel luogo dove lavoro hanno intenzione di gettare a mare una ventina di persone che avrebbero potuto promuovere con tutti i crismi e sforzo minimo. Piombo in una delle situazioni meno felici che si possano immaginare. Mi passa totalmente la voglia di scrivere. Cerco di organizzare la nostra banda dispersa e senza nome insieme ad altri compagni di sventura. Dapprima appare come un gioco: fare anticamera, raccogliere informazioni, capire le poste e le fazioni in gioco; trattare, o meglio tentare di trattare ad armi impari, tentare in ogni direzione, farsi conoscere e riconoscere.
Poi inizia la fase dei rifiuti, dei muri, delle serrate; delle incomprensioni e della lentezza altrui. Nel frattempo la persona che sentivo più vicina e consideravo amica mi si rivolta contro rinfacciandomi di stare usando gli altri per interessi personali. Piango per una settimana ma non posso fermarmi. Ho bisogno delle mie montagne, un venerdì di questa estate infinita mi getto letteralmente fuori dall'ufficio, afferro gli scarponi, salto in macchina e corro per sei ore. Corro a rifugiarmi un week-end nel mio paese e nella mia valle: mi getto sulle tonaliti verso le porte imponenti; parlo intensamente con un caro amico; rivedo un fortilizio che ci è caro; ritrovo dei piatti amati da tempo. Dormo nel mezzo di una valle piena di abeti e di stelle, di acque correnti e di prati in una casa Bianca dalla magnifica charpente in legno chiaro scolpito dove sognavo da anni di andare senza mai riuscirvi.
Qui è l'unico pezzo d'Italia che mi parli.
La lotta mi prende al punto che tutto il resto sfuma: i bagagli da disfare, i lavori da concludere, le letture da fare. Mi dico che tutto sommato mi sto quasi divertendo. Se solo la posta in gioco, tutto sommato misera, non fosse per noi così alta...
Durante uno dei tanti tentativi di interessare qualcuno alla nostra sorte vengo invitata a una conferenza italo-francese. Il curatore del libro dopo i saluti passa alla sua lingua materna. Sento ruscellarmi addosso suoni che il cervelletto riconosce e decifra ormai automaticamente. Percepisco quanto ne avesse bisogno, quanto questo linguaggio dell'anima gli fosse mancato e fosse mancato a tutta me stessa. Riprendo fiato e naturalezza come una pianta innaffiata dopo una lunga siccità che l'aveva rattrappita. Capisco come nessuna cosa possa realmente sostituire quel paese essenziale alla mia felicità.
Mi sento sotto una doccia calda che riapre il mio corpo e la mia anima facendoli sbocciare.
Il giorno dopo qualcuno fa una proposta assurda per permettermi di tornare in quel paese. Non ci devo credere: è il più gran gesto di generosità disperata che potesse fare per me, ma è assolutamente impossibile che possa avere effetto alcuno. Infatti rispondo con una risata. Tuttavia, il pensiero di potere davvero con un colpo di bacchetta magica, ché altro non sarebbe, lasciare questa verminaia per una vita dignitosa e gratificante nel paese del mio cuore, spazza via ogni falsa illusione che mi ero costruita per non morire sulla possibilità di trovare soddisfazioni dopotutto anche nel lottare per guadagnare qualcosa qui.
Di questo impossibile mulino a vento devo ritenere una sola cosa. Mi rassicura l'idea di avere sempre visto giusto, nella mia voglia di emigrare per sempre; di avere capito cosa mi renderebbe il respiro, il pensiero e la vita.
Ma non accadrà né l'una né l'altra cosa. Rimarremo dove siamo, ad aspettare come tanti altri che ho visto, l'ora della pensione distante decenni e decenni, unica via di sopravvivenza al disgusto che hanno instillato in noi, perdendo le idee perdendo la voglia di vivere, di fare; una pensione che non sarà, grazie al nuovo sistema contributivo, neppure dignitosa.
mercoledì 3 ottobre 2018
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