Ouvrez des écoles, vous fermerez des prisons. Malgrado ogni contestazione continuo a trovare questa frase convincente. Con l’aggiunta di politiche di piena occupazione e di stato sociale, perché abbiamo visto a sufficienza laureati sottoccupati o disoccupati. Ma basterà aprirle queste scuole? E poi cosa vuol dire aprirle?
Quanti problemi insieme nella storia di Birimbo. Chissà quanto il padre tiene a che suo figlio studi. Di certo ci tiene il bambino e questo è il più straziante. Insensato salire sulle barricate per farli arrivare se poi si abbandonano alla fortuna di beccare la buona volontà di qualche insegnante dotato di quella coscienza che latita altrove. Una morte in differita. Nella mia nuova sistemazione mi trovo confrontata in Francia a diversi individui incapaci di comprendere, non dico di parlare il francese in modo intelligibile. Non in un quartiere del nord parigino o in una banlieue come Saint-Denis o Villetaneuse, ma ai limiti esterni di un rispettabile arrondissement parigino, non lontano da una très grande istituzione culturale, che per forza di cose a costoro non riesce comunque a parlare - e forse non sarebbe nemmeno suo compito doverlo fare.
Un tempo l’immigrazione a malapena o poco alfabetizzata c’era, ma la mia impressione da esterna è che fosse in una proporzione gestibile sia per garantire un minimo di integrazione, i figli andavano tutti a scuola (non c’erano ancora i malfamati vincoli di bilancio di Maastricht) sia per garantire una certa interazione, una condivisione sociale, anche una ascensione entro certi limiti. I poveri portoghesi senza nulla arrivati negli anni’80 hanno fatto una vita d’inferno, nell’edilizia e nelle case delle famiglie dove le donne avevano cominciato a lavorare sempre più numerose, ritrovandosi a sessant’anni con una casa decente, qualcosa al paese, i figli piccoli artigiani, le figlie parrucchiere o domestiche. Ma francesi. Una forza era senz’altro non partire soli, ma per esempio già in coppia.
Oggi l’impressione è che si stiano creando dei circuiti completamente paralleli di vita e di lavoro, in cui il francese neanche ti serve perché l’unico momento in cui devi realmente interagire con i nativi è quello del rendiconto all’amministrazione, le scartoffie avvilenti dell’’adempimento burocratico. Ho i miei dubbi che i negozianti dei cybercafé che vendono prodotti di telefonia per poveri e offrono quei servizi ormai introvabili come fotocopie, fax, stampe a chi è troppo povero o straniero per averli a disposizione in ufficio o in casa abbiano veramente frequentato una scuola francese. Spesso hanno dieci anni più degli alunni come Birimbo, ma cosa abbiano mai potuto capire della società in cui in teoria vivono non so. Probabilmente nulla, per loro la Francia è solo una zattera casuale su cui si trovano a essere sballottati trascinando un’esistenza faticosa in un ambiente squallido. Formano un circuito parallelo di vita e di consumo, che arriva a interagire malamente o per nulla con ciò che lo circonda. Che stupore se preferiscono vivere con gli occhi incastrati sullo schermo di un telefonino. Si sente ormai in certi quartieri questa frontiera, dove si mescolano a distanza di pochi metri la più grande bellezza e il peggiore squallore di una società che ricorda non più l’Europa, ma la tristezza infinita della miseria anglosassone. Che non è legata solo alla origine geografica, perché questi posti sono frequentati anche da euroasiatici. Poveri, ebbene sì, poveri. Anche loro.
Come fai a parlare a questa gente di liberté égalité fraternité?
Nella fascia appena più interna di questo arrondissement appaiono i luoghi di svago dalla gradevole punta esotica, frequentati stavolta da quel ceto appena più borghese che in parte per tradizione, in parte per mostrare la propria correttezza politica si compiace di mangiare la cucina del mondo che sotto sotto costa meno, o di indulgere alla banalità del work al salmone con verdure al latte di cocco. Cosa resterà quando sarà finito il confinamento di queste strade ancora colorate e animate non so. Per ora i grandi affari li fanno un fast food molto frequentato da studenti e qualche negozio di kebab che stanno insinuandosi sempre più nel tessuto urbano. Ancora più verso il centro resistono il minuscolo mercato e i negozi bio, quelli per il ceto medio basso animato di buone intenzioni, ma, come da noi, sempre più sfracellato dalle misure economiche di precarizzazione del lavoro e distruzione dei servizi pubblici suggeriti dai Country report della « buona e saggia » Unione Europea. Che hanno messo in difficoltà tante attività meno essenziali che vivevano della moda dell’autoproduzione o dell’educazione artistica, o del volontariato. Cosa che oggi si è imparato bene quanto siano illusorie e fallaci, se non puoi permettertele. I ceti bassi dalla buone intenzioni alternative stanno capendo che non possono più. Poi scendi la grande avenue ti ritrovi nella Parigi vera, quella dov’è non c’è nulla fuori posto, dove i polmoni si possono allargare, dove l’industria della ricerca sostiene esportazioni e consumi, dove non vorresti mai allontanarti perché solo lì ti senti vivere e respirare. Quella che fa la tua anima, ti sia riconosciuto o no.
Una Parigi cieca al resto che si ha l’impressione conosca solo dalle immagini televisive che la presentano come l’altrove non come quello che hai sotto casa, in quelle strade poco pittoresche dove non vai mai, perché insomma c’è di meglio, e non vuoi vedere come sono mutate, con la distruzione dei modesti ma decorosi e storici caseggiati dell’inizio del secolo scorso, grandi finestre e soffitti alti, scomparsi sotto quegli orrori di grattacieli che la mairesse perbene ha permesso di far costruire, lei che si pittava di verde, però poi ha fatto le ciclabili, vuoi mettere che qualità urbana. Una Parigi per antica tradizione ribelle che grazie a questo ha ancora avuto la forza di aprire parzialmente gli occhi su chi aveva aiutato ad andare al potere, dopo il massacro perpetrato per mesi, sabato dopo sabato, su chi chiedeva la dignità di vita.
Tutto questo avviene, ripetiamolo, in una zona fortunata ancora. Ma dove c’è solo il dormitorio e la disoccupazione, unito a un minimo di sussidio sociale, per cui le madri nubili prendono un sussidio a figlio e hanno come unica prospettiva per quadrare i conti quella di fare sempre più figli con il primo padre che capiti a tiro, cosa vuoi trasmettere della Francia e della sua storia, del suo modello sociale distrutto sotto la virtù di Maastricht? Per un modello in parte elaborato proprio dai francesi, a partire da Jacques Delors presidente della Commissione UE?
Le condizioni legali per costruire la disperazione sociale esistono già in Italia. Mancano le dimensioni di una comunità non integrata perché lasciata ignara di ciò che il paese dove vive rappresenta, del significato storico e culturale di qualcosa che non conosce perché o non le vien presentato o quando avviene, può intuirne l’interesse o l’imprtanza, come Birimbo, ma di fatto non le viene permesso di capirlo né di approfondirlo a sufficienza perché non le si danno gli strumenti per farlo. Qui la poetica dell’accoglienza unita alla virtù della disoccupazione non inflattiva (se non si sa cosa sia non preoccupatevi: la UE lo sa) sta finendo così .
Qualcun altro potrebbe finire come in questo post.
Si dirà che in Italia son abbastanza codini da non rischiare.
Il timore è che non finirà bene comunque.
Indipendentemente se dall’altro capo dell’oceano si scelgono (e sarà pure un loro sacrosanto diritto di votare come gli pare, vivaddio, senza che l’universo intero si ritenga autorizzato a metterci bocca) la zuppa invece del pan bagnat.