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Toulouse en érasmienne

domenica 8 novembre 2020

Da un commento a un post sulla storia di un bimbo africano

Ouvrez des écoles, vous fermerez des prisons. Malgrado ogni contestazione continuo a trovare questa frase convincente. Con l’aggiunta di politiche di piena occupazione e di stato sociale, perché abbiamo visto a sufficienza laureati sottoccupati o disoccupati. Ma basterà aprirle queste scuole? E poi cosa vuol dire aprirle?

 Quanti problemi insieme nella storia di Birimbo. Chissà quanto il padre tiene a che suo figlio studi. Di certo ci tiene il bambino e questo è il più straziante. Insensato salire sulle barricate per farli arrivare se poi si abbandonano alla fortuna di beccare la buona volontà di qualche insegnante dotato di quella coscienza che latita altrove. Una morte in differita. Nella mia nuova sistemazione mi trovo confrontata in Francia a diversi individui incapaci di comprendere, non dico di parlare il francese in modo intelligibile. Non in un quartiere del nord parigino o in una banlieue come Saint-Denis o Villetaneuse, ma ai limiti esterni di un rispettabile arrondissement parigino, non lontano da una très grande istituzione culturale, che per forza di cose a costoro non riesce comunque a parlare - e forse non sarebbe nemmeno suo compito doverlo fare.

Un tempo l’immigrazione a malapena o poco alfabetizzata c’era, ma la mia impressione da esterna è che fosse in una proporzione gestibile sia per garantire un minimo di integrazione, i figli andavano tutti a scuola (non c’erano ancora i malfamati vincoli di bilancio di Maastricht) sia per garantire una certa interazione, una condivisione sociale, anche una ascensione entro certi limiti. I poveri portoghesi senza nulla arrivati negli anni’80 hanno fatto una vita d’inferno, nell’edilizia e nelle case delle famiglie dove le donne avevano cominciato a lavorare sempre più numerose, ritrovandosi a sessant’anni con una casa decente, qualcosa al paese, i figli piccoli artigiani, le figlie parrucchiere o domestiche. Ma francesi. Una forza era senz’altro non partire soli, ma per esempio già in coppia. 

Oggi l’impressione è che si stiano creando dei circuiti completamente paralleli di vita e di lavoro, in cui il francese neanche ti serve perché l’unico momento in cui devi realmente interagire con i nativi è quello del rendiconto all’amministrazione, le scartoffie avvilenti dell’’adempimento burocratico. Ho i miei dubbi che i negozianti dei cybercafé che vendono prodotti di telefonia per poveri e offrono quei servizi ormai introvabili come fotocopie, fax, stampe a chi è troppo povero o straniero per averli a disposizione in ufficio o in casa abbiano veramente frequentato una scuola francese. Spesso hanno dieci anni più degli alunni come Birimbo, ma cosa abbiano mai potuto capire della società in cui in teoria vivono non so. Probabilmente nulla, per loro la Francia è solo una zattera casuale su cui si trovano a essere sballottati trascinando un’esistenza faticosa in un ambiente squallido. Formano un circuito parallelo di vita e di consumo, che arriva a interagire  malamente o per nulla con ciò che lo circonda. Che stupore se preferiscono vivere con gli occhi incastrati sullo schermo di un telefonino. Si sente ormai in certi quartieri questa frontiera, dove si mescolano a distanza di pochi metri la più grande bellezza e il peggiore squallore di una società che ricorda non più l’Europa, ma la tristezza infinita della miseria anglosassone. Che non è legata solo alla origine geografica, perché questi posti sono frequentati anche da euroasiatici. Poveri, ebbene sì, poveri. Anche loro.

Come fai a parlare a questa gente di liberté égalité fraternité? 

Nella fascia appena più interna di questo arrondissement appaiono i luoghi di svago dalla gradevole punta esotica, frequentati stavolta da quel ceto appena più borghese che in parte per tradizione, in parte per mostrare la propria correttezza politica si compiace di mangiare la cucina del mondo che sotto sotto costa meno, o di indulgere alla banalità del work al salmone con verdure al latte di cocco. Cosa resterà quando sarà finito il confinamento di queste strade ancora colorate e animate non so. Per ora i grandi affari li fanno un fast food molto frequentato da studenti e qualche negozio di kebab che stanno insinuandosi sempre più nel tessuto urbano. Ancora più verso il centro resistono il minuscolo mercato e i negozi bio, quelli per il ceto medio basso animato di buone intenzioni, ma, come da noi, sempre più sfracellato dalle misure economiche di precarizzazione del lavoro e distruzione dei servizi pubblici suggeriti dai Country report della « buona e saggia » Unione Europea. Che hanno messo in difficoltà tante attività meno essenziali che vivevano della moda dell’autoproduzione o dell’educazione artistica, o del volontariato. Cosa che oggi si è imparato bene quanto siano illusorie e fallaci, se non puoi permettertele. I ceti bassi dalla buone intenzioni alternative stanno capendo che non possono più. Poi scendi la grande avenue ti ritrovi nella Parigi vera, quella dov’è non c’è nulla fuori posto, dove i polmoni si possono allargare, dove l’industria della ricerca sostiene esportazioni e consumi, dove non vorresti mai allontanarti perché solo lì ti senti vivere e respirare. Quella che fa la tua anima, ti sia riconosciuto o no.

Una Parigi cieca al resto che si ha l’impressione conosca solo dalle immagini televisive che la presentano come l’altrove non come quello che hai sotto casa, in quelle strade poco pittoresche dove non vai mai, perché insomma c’è di meglio, e non vuoi vedere come sono mutate, con la distruzione dei modesti ma decorosi e storici caseggiati dell’inizio del secolo scorso, grandi finestre e soffitti alti, scomparsi sotto quegli orrori di grattacieli che la mairesse perbene ha permesso di far costruire, lei che si pittava di verde, però poi ha fatto le ciclabili, vuoi mettere che qualità urbana. Una Parigi per antica tradizione ribelle che grazie a questo ha ancora avuto la forza di aprire parzialmente gli occhi su chi aveva aiutato ad andare al potere, dopo il massacro perpetrato per mesi, sabato dopo sabato, su chi chiedeva la dignità di vita.

Tutto questo avviene, ripetiamolo, in una zona fortunata ancora. Ma dove c’è solo il dormitorio e la disoccupazione, unito a un minimo di sussidio sociale, per cui le madri nubili prendono un sussidio a figlio e hanno come unica prospettiva per quadrare i conti quella di fare sempre più figli con il primo padre che capiti a tiro, cosa vuoi trasmettere della Francia e della sua storia, del suo modello sociale distrutto sotto la virtù di Maastricht? Per un modello in parte elaborato proprio dai francesi, a partire da Jacques Delors presidente della Commissione UE?

Le condizioni legali per costruire la disperazione sociale esistono già in Italia. Mancano le dimensioni di una comunità non integrata perché lasciata ignara di ciò che il paese dove vive rappresenta, del significato storico e culturale di qualcosa che non conosce perché o non le vien presentato o quando avviene, può intuirne l’interesse o l’imprtanza, come Birimbo, ma di fatto non le viene permesso di capirlo né di approfondirlo a sufficienza perché non le si danno gli strumenti per farlo. Qui la poetica dell’accoglienza unita alla virtù della disoccupazione non inflattiva (se non si sa cosa sia non preoccupatevi: la UE lo sa) sta finendo così .

Qualcun altro potrebbe finire come in questo post.

Si dirà che in Italia son abbastanza codini da non rischiare. 

Il timore è che non finirà bene comunque. 

Indipendentemente se dall’altro capo dell’oceano si scelgono (e sarà pure un loro sacrosanto diritto di votare come gli pare, vivaddio, senza che l’universo intero si ritenga autorizzato a metterci bocca) la zuppa invece del pan bagnat.

8 commenti:

  1. Finalmente riesco anche io a leggere qui da te.
    Adesso ti copio uno scambio tra me e mio marito, insegnante anche lui, nei primi giorni di didattica a culo, le prime a scuola le seconde e terze a casa.

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  2. B. è arrivato dal Marocco da poco e non parla italiano. A causa di una curiosa falla nel decreto, gli alunni con bisogni educativi speciali possono frequentare in presenza anche se c'è lockdown: però nessuno ha ancora capito come organizzare, perché se i prof sono a casa a far lezione a quelli a distanza, come si fa a far frequentare i bes?

    Comunque.

    Venerdì.
    [6/11, 09:28] Amuri: Sono con B.
    [6/11, 09:30] Amuri: Che si è schierato a scuola per la lezione in dad
    [6/11, 09:34] Amuri: La cosa incredibile è che stavo gabolando per farlo venire da lunedì e lui mi si materializza
    [6/11, 09:51] io: Stupendo
    [6/11, 09:51] Amuri: Una tenerezza
    [6/11, 09:52] Amuri: Mi ha fatto vedere il diario con l'orario della dad di oggi
    [6/11, 09:52] io: Gli servirà questo periodo
    [6/11, 09:52] Amuri: Indicandomi che alle 9.30 aveva musica
    [6/11, 09:52] Amuri: E che lui alle 9.15 era schierato


    Lunedì
    [9/11, 08:01] Amuri: B. ha capito tutto
    Alle 7.45 schierato davanti a scuola con L. bidello che gli diceva di andare via e lui stava lì perché diceva che glielo aveva detto professore
    [9/11, 08:02] io: Bello lui
    [9/11, 08:02] Amuri: Emaporcozzio
    [9/11, 08:02] Amuri: Non capisce un azzo
    [9/11, 08:02] io: Riscrivigli l'orario
    [9/11, 08:02] Amuri: Eh
    [9/11, 08:02] io: Lui ha capito solo che per lui fate scuola

    Io, invece, continuo a pensare che B. ha lo stesso nome del ragazzo di qualche anno più vecchio di lui che ha decapitato il mio collega. Non riesco a smettere di pensarci. A lui, e al ragazzino pestifero di seconda che mi ha citato a memoria un lungo brano del Corano, che parla di non violenza.

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  3. Scusa: B. è quello di Nizza. Che non ha ucciso un insegnante, ma tre persone che stavano pregando. E che di anni ne aveva solo 3 di più. Più giovane di mia figlia.

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  4. Grazie per il tuo intervento. La tua risposta finale su B è molto toccante e molto giusta, direi proprio da didatta. C’è immenso bisogno di scuola e “professore” e “professoressa”.
    Qui in Francia si legge in tante biografie di personaggi anche noti che qualche insegnante un giorno ha insistito con parenti e gerarchie perché un tal allievo o allieva meritava di continuare a studiare. Ma quanto ce ne saranno stati che un simile insegnante non l’han trovato, o che l’han trovato ma non ha potuto far nulla? Di certo c’è stata un’epoca in qui all’éducation nationale per tutti si è creduto, la si è pianificata, cercata, aiutata, anche dando agli insegnanti formazione e stipendi congruenti.

    La vicenda di Samuel Paty per me è stata sconvolgente, anche per le modalità con cui è avvenuta (le trovi in parte in uno dei due link verso la fine del post) che hanno coinvolto, al di là del provocatore predicatore e padre di una studentessa peraltro non allieva di Paty, due alunni ovviamente minorenni della sua stessa scuola media, in modo quasi inconsapevole o incosciente. Immagino che per chi insegna sia ancora più spiazzante e pesante, benché le condizioni in Italia siano ancora diverse. Ma per quanto?
    Oggi c’è stato un nuovo attentato, in Arabia, durante una commemorazione, ucciso un ufficiale francese. Al di là delle implicazioni politiche, che sono sempre arrivate all’assassinio quando lo han giudicato necessario, l’allevamento di polli da attentato creato con l’assenso tacito di troppi che lasciano per strada tanti B. fa rivoltare.
    L’altra cosa preoccupante è il rapporto con le leggi che questa atmosfera instaura. Non sono particolarmente legalitaria, ma ho un certo senso civico, diciamo. Vivere ai margini in ogni senso porta a disconoscere qualsiasi patto sociale comune, se si sono introiettate altre e non ben chiare regole, o se si pensa di poterle trovare solo nella dimensione religiosa. Qui in Francia lo hanno capito alla fine del XVI secolo, dall’Heptaplomeres di Jean Bodin all’editto di Nantes di Henry IV (malgrado la revocazione del re Sole), senza dimenticare la politica di conciliazione di Michel de l’Hospital con Caterina de’Medici e il partito dei Politiques. Ma ci si sono ammazzati per 50 anni... Che abbiano rinunciato a trasmettere questa consapevolezza a tutti coloro che accolgono è rischioso e sconcertante.

    Speriamo di imparare dai loro errori, anche se sembra tutto affidato alla coscienza dei singoli...

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  5. P.S. il riferimento alle leggi del mio commento esce dall’altro link, là dove un professore racconta come i suoi allievi abbiano svolto i compiti relativi alla laicità. Malgrado lui gli abbia parlato della legge francese in merito, per gli allievi “le leggi” - quali? vieterebbero tutti i comportamenti che in Francia sono legali.

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  6. C’è un disperato bisogno di ponti culturali. Necessariamente agli antipodi dell’esotismo, compresa quella particolare sotto forma del regalare le fiabe africane o del mangiare “la cucina degli altri” -detto da un’appassionata delle pietanze arabe, eh.
    Grazie davvero per aver commentato. Trovo ci sia ritrosia, quasi autocensura, invece sono questioni di cui si dovrebbe parlare, se si vuol cominciare a creare un ambiente propenso a escogitare soluzioni reali prima di ritrovarci a sfoderare i coltelli.

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  7. Tutto giusto. Epperò mi sarebbe più facile preoccuparmi per gli stranieri che vivono ai margini della società se non fosse che in certe zone (e mica solo al Sud) abbiamo un sacco di indigeni che vivono pure loro in un universo parallelo e sono abituati a considerare perfettamente legittime cose che in teoria secondo le nostre leggi non lo sono (e troppo spesso battono bandiera sovranista). Anche per loro servirebbero ponti culturali (e soldi, e servizi sociali efficienti). E volontà di comunicazione dall'alto.

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    1. Temo di non capire il commento.
      Di certo ritengo del tutto inaccettabile che chiunque possa ritenersi autorizzato (o che possa essere ritenuto scusabile) a impugnare coltelli, mitra o qualsivoglia arma per destinazione contro chi utilizza la libertà di espressione senza voler procurare danni a nessun individuo.

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