Può piacere o no, dicevo. Ma ad ogni modo un uomo così meriterebbe solo di diventare ministro. Perché ha il senso, chiarissimo, della parola "servire". E ministro vuol dire "servitore". Un tempo del sovrano, ora dei cittadini e della civile convivenza. Invece oggi, Italia Europa 2012, quest'uomo rischia provvedimenti disciplinari e trasferimento d'ufficio. Oltre al tritolo, ma quello l'aveva già messo nel conto. Perché? Proviamo a leggere fino in fondo questa lunga lettera, che dice veramente tutto su cosa sia la realtà neanche troppo nascosta dell'Italia, quale sia, ancora e sempre, la solitudine di chi la vorrebbe diversa:
L’intervento di Roberto Scarpinato, procuratore generale della Corte di Appello di Caltanissetta, letto alla commemorazione per i 20 anni dell’assassinio di Paolo Borsellino, con il quale ha lavorato fianco a fianco nel pool antimafia.
Caro Paolo,
oggi siamo qui a commemorarti in forma privata perché più trascorrono gli anni e più diventa imbarazzante il 23 maggio ed il 19 luglio partecipare alle cerimonie ufficiali che ricordano le stragi di Capaci e di via D'Amelio.
Stringe
il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle
autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la
negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali
tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco
le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà.
E
come se non bastasse, Paolo, intorno a costoro si accalca una corte di
anime in livrea, di piccoli e grandi maggiordomi del potere, di
questuanti pronti a piegare la schiena e a barattare l'anima in cambio di promozioni in carriera o dell’accesso al mondo dorato dei facili privilegi.
Se
fosse possibile verrebbe da chiedere a tutti loro di farci la grazia di
restarsene a casa il 19 luglio, di concederci un giorno di tregua dalla
loro presenza. Ma, soprattutto,
verrebbe da chiedere che almeno ci facessero la grazia di tacere,
perché pronunciate da loro, parole come Stato, legalità, giustizia, perdono senso, si riducono a retorica stantia, a gusci vuoti e rinsecchiti.
Voi
che a null’altro credete se non alla religione del potere e del denaro,
e voi che non siete capaci di innalzarvi mai al di sopra dei vostri
piccoli interessi personali, il 19 luglio tacete, perché questo giorno è
dedicato al ricordo di un uomo che sacrificò la propria vita perché
parole come Stato, come Giustizia, come Legge acquistassero finalmente un significato e un valore nuovo in questo nostro povero e disgraziato paese.
Un
paese nel quale per troppi secoli la legge è stata solo la voce del
padrone, la voce di un potere forte con i deboli e debole con i forti. Un
paese nel quale lo Stato non era considerato credibile e rispettabile
perché agli occhi dei cittadini si manifestava solo con i volti
impresentabili di deputati, senatori, ministri, presidenti del
consiglio, prefetti, e tanti altri che con la mafia avevano scelto di convivere o, peggio, grazie alla mafia avevano costruito carriere e fortune.
Sapevi
bene Paolo che questo era il problema dei problemi e non ti stancavi di
ripeterlo ai ragazzi nelle scuole e nei dibattiti, come quando il 26
gennaio 1989 agli studenti di Bassano del Grappa ripetesti: “Lo
Stato non si presenta con la faccia pulita… Che cosa si è fatto per
dare allo Stato… Una immagine credibile?… La vera soluzione sta
nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile,
perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni”.
E a un ragazzo che ti chiedeva se ti sentivi protetto dallo Stato e se avessi fiducia nello Stato, rispondesti: “No,
io non mi sento protetto dallo Stato perché quando la lotta alla mafia
viene delegata solo alla magistratura e alle forze dell’ordine, non si
incide sulle cause di questo fenomeno criminale”. E proprio
perché eri consapevole che il vero problema era restituire credibilità
allo Stato, hai dedicato tutta la vita a questa missione.
Nelle cerimonie pubbliche ti ricordano soprattutto come un grande magistrato, come l’artefice insieme a Giovanni Falcone del maxiprocesso che distrusse il mito della invincibilità della mafia e riabilitò la potenza dello Stato. Ma tu e Giovanni siete stati molto di più che dei magistrati esemplari. Siete stati soprattutto straordinari creatori di senso.
Avete
compiuto la missione storica di restituire lo Stato alla gente, perché
grazie a voi e a uomini come voi per la prima volta nella storia di
questo paese lo Stato si presentava finalmente agli occhi dei cittadini
con volti credibili nei quali era possibile identificarsi ed acquistava senso dire "Lo Stato siamo noi". Ci avete insegnato che per costruire insieme quel grande Noi che è lo
Stato democratico di diritto, occorre che ciascuno ritrovi e coltivi la
capacità di innamorarsi del destino degli altri. Nelle pubbliche cerimonie ti ricordano come esempio del senso del dovere.
Ti sottovalutano, Paolo, perché la tua lezione umana è stata molto più grande. Ci
hai insegnato che il senso del dovere è poca cosa se si riduce a
distaccato adempimento burocratico dei propri compiti e a obbedienza
gerarchica ai superiori. Ci hai
detto chiaramente che se tu restavi al tuo posto dopo la strage di
Capaci sapendo di essere condannato a morte, non era per un astratto e
militaresco senso del dovere, ma per amore, per umanissimo amore.
Lo hai ripetuto la sera del 23 giugno 1992 mentre commemoravi Giovanni, Francesca, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Parlando di Giovanni dicesti: “Perché
non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché
mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque
della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di
amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato”.
Questo
dicesti la sera del 23 giugno 1992, Paolo, parlando di Giovanni, ma ora
sappiamo che in quel momento stavi parlando anche di te stesso e ci
stavi comunicando che anche la tua scelta di non fuggire, di accettare
la tremenda situazione nella quale eri precipitato, era una scelta
d’amore perché ti sentivi chiamato a rispondere della speranza che tutti
noi riponevamo in te dopo la morte di Giovanni.
Ti
caricammo e ti caricasti di un peso troppo grande: quello di reggere da
solo sulle tue spalle la credibilità di uno Stato che dopo la strage di
Capaci sembrava cadere in pezzi, di uno Stato in ginocchio ed incapace
di reagire.
Sentisti
che quella era divenuta la tua ultima missione e te lo sentisti
ripetere il 4 luglio 1992, quando pochi giorni prima di morire, i tuoi
sostituti della Procura di Marsala ti scrissero: “La
morte di Giovanni e di Francesca è stata per tutti noi un po’ come la
morte dello Stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le
contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che,
immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo
spesso che non ce la faremo, che lo Stato in Sicilia è contro lo Stato e
che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai
bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello Stato”.
Missione doppiamente compiuta, Paolo. Se riuscito con la tua vita a restituire nuova vita a parole come Stato e Giustizia, prima morte perché private di senso. E
sei riuscito con la tua morte a farci capire che una vita senza la
forza dell’amore è una vita senza senso; che in una società del disamore
nella quale dove ciò che conta è solo la forza del denaro ed il potere
fine a se stesso, non ha senso parlare di Stato e di Giustizia e di
legalità.
E
dunque per tanti di noi è stato un privilegio conoscerti personalmente e
apprendere da te questa straordinaria lezione che ancora oggi nutre la
nostra vita e ci ha dato la forza necessaria per ricominciare quando
dopo la strage di via D’Amelio sembrava – come disse Antonino Caponnetto tra le lacrime – che tutto fosse ormai finito.
Ed invece Paolo, non era affatto finita e non è finita. Come
quando nel corso di una furiosa battaglia viene colpito a morte chi
porta in alto il vessillo della patria, così noi per essere degni di
indossare la tua stessa toga, abbiamo raccolto il vessillo che tu avevi
sino ad allora portato in alto, perché non finisse nella polvere e sotto
le macerie.
Sotto
le macerie dove invece erano disposti a seppellirlo quanti mentre il
tuo sangue non si era ancora asciugato, trattavano segretamente la resa
dello Stato al potere mafioso alle nostre spalle e a nostra insaputa.
Abbiamo
portato avanti la vostra costruzione di senso e la vostra forza è
divenuta la nostra forza sorretta dal sostegno di migliaia di cittadini
che in quei giorni tremendi riempirono le piazze, le vie, circondarono
il palazzo di giustizia facendoci sentire che non eravamo soli.
E
così Paolo, ci siamo spinti laddove voi eravate stati fermati e dove
sareste certamente arrivati se non avessero prima smobilitato il pool
antimafia, poi costretto Giovanni ad andar via da Palermo ed infine non
vi avessero lasciato morire.
Abbiamo
portato sul banco degli imputati e abbiamo processato gli intoccabili:
presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali,
presidenti della Regione siciliana, vertici dei Servizi segreti e della
Polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro,
personaggi di vertice dell’economia e della finanza e molti altri.
Uno
stuolo di sepolcri imbiancati, un popolo di colletti bianchi che hanno
frequentato le nostre stesse scuole, che affollano i migliori salotti,
che nelle chiese si battono il petto dopo avere partecipato a summit
mafiosi. Un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione i Riina, i Provenzano sarebbero stati nessuno e mai avrebbero osato sfidare lo Stato,
uccidere i suoi rappresentanti e questo paese si sarebbe liberato dalla
mafia da tanto tempo.
Ma,
caro Paolo, tutto questo nelle pubbliche cerimonie viene rimosso come
se si trattasse di uno spinoso affare di famiglia di cui è sconveniente
parlare in pubblico. Così ai
ragazzi che non erano ancora nati nel 1992 quando voi morivate, viene
raccontata la favola che la mafia è solo quella delle estorsioni e del
traffico di stupefacenti.
Si racconta che la mafia è costituita solo da una piccola minoranza di criminali, da personaggi come Riina e Provenzano. Si
racconta che personaggi simili, ex villici che non sanno neppure
esprimersi in un italiano corretto, da soli hanno tenuto sotto scacco
per un secolo e mezzo la nostra terra e che essi da soli osarono sfidare
lo Stato nel 1992 e nel 1993 ideando e attuando la strategia stragista
di quegli anni. Ora sappiamo che questa non è tutta la verità.
E
sappiamo che fosti proprio tu il primo a capire che dietro i carnefici
delle stragi, dietro i tuoi assassini si celavano forze oscure e
potenti. E per questo motivo ti
sentisti tradito, e per questo motivo ti si gelò il cuore e ti sembrò
che lo Stato, quello Stato che nel 1985 ti aveva salvato dalla morte
portandoti nel carcere dell’Asinara, questa volta non era in grado di
proteggerti, o, peggio, forse non voleva proteggerti.
Per questo dicesti a tua moglie Agnese: “Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”. Quelle forze hanno continuato ad agire Paolo anche dopo la tua morte per cancellare le tracce della loro presenza. E per tenerci nascosta la verità, è stato fatto di tutto e di più.
Pochi
minuti dopo l’esplosione in Via D’Amelio mentre tutti erano colti dal
panico e il fumo oscurava la vista, hanno fatto sparire la tua agenda
rossa perché sapevano che leggendo quelle pagine avremmo capito quel che
tu avevi capito.
Hanno fatto sparire tutti i documenti che si trovavano nel covo di Salvatore Riina dopo la sua cattura. Hanno preferito che finissero nella mani dei mafiosi piuttosto che in quelle dei magistrati. Hanno ingannato i magistrati che indagavano sulla strage con falsi collaboratori ai quali hanno fatto dire menzogne. Ma nonostante siano ancora forti e potenti, cominciano ad avere paura.
Le
loro notti si fanno sempre più insonni e angosciose, perché hanno
capito che non ci fermeremo, perché sanno che è solo questione di
tempo. Sanno che riusciremo a scoprire la verità. Sanno
che uno di questi giorni alla porta delle loro lussuosi palazzi busserà
lo Stato, il vero Stato quello al quale tu e Giovanni avete dedicato le
vostre vite e la vostra morte.
E
sanno che quel giorno saranno nudi dinanzi alla verità e alla giustizia
che si erano illusi di calpestare e saranno chiamati a rendere conto
della loro crudeltà e della loro viltà dinanzi alla Nazione.
Bene. Adesso pensiamo a qualche ministro recente che sempre con le nostre tasse abbiamo stipendiato e pure pensionato - nel senso di pagargli i contributi per la pensione che come si sa loro ottengono dopo due anni di onorato servizio da parlamentare. Non so: Mara Carfagna? Mariastella Gelmini? Michela Vittoria Brambilla? Qualcuno ha dei suggerimenti?
Ah, sì. Non è tanto recente, ma Pietro Lunardi, ministro delle infrastrutture nel 2001 a mio giudizio rimane indimenticabile. Una sola frase celebre: "Con la mafia bisogna convivere": con DiCo o senza? Dettaglio che non lo è: il ministro delle infrastrutture non è un ministro qualsiasi, particolarmente quando si parla di mafia (e anche di appalti e di tutto ciò che vi ruota intorno). La mafia trae la propria ricchezza per la maggior parte dagli appalti delle opere pubbliche: cioè pagate con le nostre tasse (per chi le paga ovviamente, ma questa è un'altra storia). Il ministro delle infrastrutture ha un enorme potere nell'indirizzare le opere pubbliche, quindi l'enorme quantità di denaro a loro destinato, e nel sorvegliarne la realizzazione. Forse Lunardi era davvero, per l'Italia, l'uomo giusto al posto giusto. E Scarpinato? Per ora lo difendono alcuni suoi colleghi. Dopo le vacanze, a settembre, il Consiglio superiore della magistratura deciderà se parole come quelle di cui sopra meritano una punizione. Aperta o, ciò che sarebbe peggio, nascosta.
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