Ebrea polacca comunista. Tutti
i requisiti per garantirsi una vita facile e tranquilla nella prima metà del XX
secolo in Europa, insomma. E infatti le vicissitudini di Ewa, nata nel 1909,
erano cominciate presto. Non potendo studiare nel suo paese, era emigrata a Parigi,
chiamata da un fratello trasferitosi già da diversi anni. Marie Curie arrivò a
Parigi, qualche decennio prima, con una storia analoga.
A Parigi Ewa era entrata in una scuola di chimica, perché allora, si racconta nella sua famiglia, gli ebrei studiavano queste materie per poter lavorare in tutto il mondo, ovunque fossero stati costretti a spostarsi dalle persecuzioni rifiorenti. L’ultima era stata dichiarata dalla Russia zarista nel 1905 all’incirca e si parva licet, secondo una (mia) ipotesi non verificata, avrebbe alla fine e dopo ben peggiori conseguenze, dato origine al cheese cake. Ma questa è un’altra storia, e per Ewa e la sua famiglia doveva essere stata una ragione di più per allontanarsi da una regione troppo vicina alla Russia e prepararsi a ogni evenienza. A Parigi, le “studentesse polacche” erano famose allora per avere una vita estremamente libera, vale a dire quella che oggi giudicheremmo normale. Lo racconta Eva Curie nella biografia di sua mamma, mentre Simone de Beauvoir scrive che l’espressione “studentessa polacca” era proverbiale per indicare una ragazza che usciva da sola, andava in giro la sera, frequentava ristoranti e bar senza chaperon. Come un essere umano, insomma…
A Parigi Ewa era entrata in una scuola di chimica, perché allora, si racconta nella sua famiglia, gli ebrei studiavano queste materie per poter lavorare in tutto il mondo, ovunque fossero stati costretti a spostarsi dalle persecuzioni rifiorenti. L’ultima era stata dichiarata dalla Russia zarista nel 1905 all’incirca e si parva licet, secondo una (mia) ipotesi non verificata, avrebbe alla fine e dopo ben peggiori conseguenze, dato origine al cheese cake. Ma questa è un’altra storia, e per Ewa e la sua famiglia doveva essere stata una ragione di più per allontanarsi da una regione troppo vicina alla Russia e prepararsi a ogni evenienza. A Parigi, le “studentesse polacche” erano famose allora per avere una vita estremamente libera, vale a dire quella che oggi giudicheremmo normale. Lo racconta Eva Curie nella biografia di sua mamma, mentre Simone de Beauvoir scrive che l’espressione “studentessa polacca” era proverbiale per indicare una ragazza che usciva da sola, andava in giro la sera, frequentava ristoranti e bar senza chaperon. Come un essere umano, insomma…
Ewa raccontava incantata
le sue serate con i compagni nei caffè della Montagne dove l’acqua si chiedeva
al cameriere con un “De l’H2O, svp”, la dimensione di vita collettiva che aveva
sperimentato, le passeggiate per la città, le mille libere discussioni, l’effervescenza
culturale di una città capitale cosmopolita. Diplomatasi, aveva trovato
immediatamente lavoro come direttrice di un laboratorio di chimica farmaceutica
presso una ditta francese, il tutto, giova ricordarlo, negli anni Venti del XX
secolo. Si era sposata e avevano avuto una bambina.
Poi arrivò la guerra, e
soprattutto l’occupazione. Suo marito era lontano, sarebbe ritornato a casa
molti anni dopo, avendo fatto il giro del mondo dietro alle vicende belliche. Erano venuti a cercarlo, un giorno. Non l'avevano trovato e se n'erano andati. "Per fortuna", diceva, "erano venuti solo a cercare un comunista. Fosse stato per cercare un ebreo, sarebbero rimasti." Militanti
politici entrambi, rischiavano come tali, come ebrei e come abitanti di un
paese occupato. Lei si ritrovava sola, nella
Parigi occupata dai nazisti tedeschi, con una bambina di pochi anni. Ewa mandò
la bimba in Bretagna nella speranza che si salvasse. A quell’epoca molti ebrei
si fecero passare per bretoni, perché i cognomi bretoni somigliano ai cognomi
tedeschi. O almeno, nell’impotenza e nella paura, lo si voleva credere, perché
i tedeschi ci misero poco a decifrare l’onomastica regionale. Rimase a Parigi. Ma
come vivere? Passò quattro anni chiusa nella fabbrica di medicine, con la
complicità dei suoi padroni, lavorando alle sue polveri e ai suoi dosaggi
chimici, come sempre. Arrivò la Liberazione. E si salvò. Anche la bimba si
salvò. Non tutti si salvarono. Diciassette morti nei lager nazisti contò la famiglia,
più simpatici danni collaterali ad alcuni sopravvissuti all’Arbeit macht frei e ad altri variamente
perseguitati e dispersi.
Nel frattempo Ewa si
ritrovò senza documenti. Non era infatti tornata in Polonia, perdendo così la
cittadinanza. Divenne apolide, con un documento delle Nazioni Unite che la
dichiarava tale. Lei e suo marito, peraltro, erano entrambi convinti comunisti,
il che per l’epoca e per il luogo significava senza mezzi termini stalinisti. Si ricordano confusamente negli annali
familiari terribili discussioni con i parenti polacchi venuti in visita quando
tentavano di raccontare che non andava poi tutto così bene… e altre terribili
discussioni in polacco inframmezzato da yiddish con i parenti emigrati in
Israele, con valigie impacchettate di fretta quando il livello di dissenso
sulle politiche interne di quel paese aveva raggiunto un punto che rendeva impossibile
passare la notte sotto lo stesso tetto, a costo di passarla à la belle étoile… perché nessuna scelta, al di là di quel che si
vuol far credere, avveniva nel consenso generale e fuori da ogni contesto.
Quando andò in pensione
Ewa partì per l’Italia dove aveva legami familiari. Allora la conobbi. Aveva già
quasi cento anni, ma discutevamo reciprocamente incantate della politica
francese negli anni’30, alla vittoria del Fronte popolare, che avrebbe creato
in quel paese il welfare oggi così minacciato. Leggeva tre o quattro quotidiani
al giorno e faceva disperare le sue badanti perché non compitavano l’italiano
abbastanza bene. Ripassavamo la storia e la letteratura d’Europa in due lingue e mezza. Il suo francese era delizioso, con una ricchezza sintattica scomparsa nelle ultime generazioni. Le raccontavo
i miei soggiorni francesi e i miei guai con i docenti italiani, cui lei
suggeriva rimedi tutt’altro che banali. Mi invitava a cene che si aprivano rigorosamente
con il potage, che amavamo entrambe,
come le uova che spesso seguivano. Non amava, salvo negli ultimissimi tempi, esssere toccata. Al bacio di commiato, spiegava, preferiva una stretta di mano. Fu all’origine di alcuni incontri in Francia
che mi hanno permesso di continuare a passare lunghi periodi in quel paese. E chissà.
Erano arrivati i suoi 105
anni, e una lettera d’auguri firmata dal sindaco con bell’inchiostro verde.
Lei
l’aveva sentita, l'aveva detto, ma nessuno l'aveva presa sul serio: il primo giorno d’autunno
è arrivata anche, quasi nel sonno, la morte.
Ma qui ritorna il famoso
ebreapolaccacomunista. Sì, all’inizio del nuovo secolo. Perché la sua famiglia
avrebbe voluto cremarla, riunendone le ceneri a quelle del marito sepolto in Francia,
anche lui cremato. Ma Ewa da apolide vive e apolide muore. E allora “non si può”.
“Non si può”, dicono i
servizi cimiteriali romani: “Bisogna chiedere allo stato polacco.”
“Non possiamo, ripetono dall’Ambasciata, la signora non è più cittadina polacca.” Proviamo con la Francia?
“Non si può, ribadiscono i Francesi, la signora non ha mai avuto la cittadinanza francese.” Bisogna rivolgersi all’autorità che ha emanato il documento da apolide.
“Noi inumiamo domani”, incalzano i servizi cimiteriali.
“Non possiamo, ripetono dall’Ambasciata, la signora non è più cittadina polacca.” Proviamo con la Francia?
“Non si può, ribadiscono i Francesi, la signora non ha mai avuto la cittadinanza francese.” Bisogna rivolgersi all’autorità che ha emanato il documento da apolide.
“Noi inumiamo domani”, incalzano i servizi cimiteriali.
“Ma…”
“Noi inumiamo entro 24 ore.”
“Stiamo cercando…”
“Non si può. Noi inumiamo
domani.”
“Vorremmo…”
“Non si può.”
Shake hands, Ewa. Come dicevi tu.
Ero sicura che venendo qui avrei trovato la sua storia...
RispondiEliminaVedi? Ritorna il solito discorso, molte leggi e regolamenti e burocrazia sono fatti dagli uomini ma non per gli uomini. Basterebbe un senso di umanità e tutto diverrebbe più semplice. Che cosa sarebbe costato?
Nemmeno da morti si può stare in pace.
Ewa, dovunque tu sia, sono certa che hai ritrovato tuo marito, al di là delle misere questioni di questa umanità deumanizzata.
Cara Ale, grazie, anche per Ewa. In realtà è stato il tuo post a decidermi a scrivere la sua storia. Ci stavo pensando su, come faccio per mille post che preparo e poi non pubblico, ma quando ti ho letta ho detto: perché no? E quindi, grazie doppiamente e auguri per le tue vicende.
EliminaLe leggi? fatte dagli uomini, non per gli uomini, ma per alcuni uomini...
Non conoscevo *questa* tua Ewa. Non conosco nemmeno mille altre Ewa che ci sfiorano in alcuni momenti della vita e che finiscono miseramente sepolti dalla *terra fredda* e *nera* di Carducciana memoria perchè ormai il valore e la dignità di una persona non contano più nulla.
RispondiEliminaPotremmo farci domande se certi atteggiamenti di annullamento delle identità nonchè di mancanza di rispetto per alcuni esseri umani, non siano sempre più tristemente paragonabili alla politica di chi pensava che l'*Arbeit macht Frei*....
Leggerti a volte è bello da far male...
Nora
Grazie Nora, e tante altre cose ce le siamo già dette a voce. A presto (forse passo da Milano fra un po').
EliminaGrazie per le tue parole e per questo post, un abbraccio
RispondiEliminaPellegrina, ciao…non riesco più a inserire il tuo blog nel mio blogroll… non capisco..
RispondiEliminaDomani riprovo!
Cinzia