"Elle était votre ancrage comme vous etiez le sien."
F. H.-V.
Dal 2004 il Natale non è più stato lo stesso. L'anno prima, in quella baraonda che era sempre stato nella nostra grande casa all'ottavo piano, con l'albero che odorava di resina e di bosco nordico, mi ero ritrovata seduta vicino accanto a lei. I suoi bei novantadue anni non le toglievano l'appetito, anzi le avevano stuzzicato una voglia di brindisi che non aveva mai manifestato nell'età della ragione. Il (futuro) marito di mia mamma, il quale da bruon toscano arrivava sempre con qualcosa da mescere, era puntualmente apostrofato in merito alla presenza della indispensabile bottiglia. Gli anni, la mancanza di bambini e la sempre minore disponibilità economica in una famiglia di tutti salariati (non dimentichiamo che in Italia siamo ancora fermi ai valori del 1993, data l'assenza di qualsiasi meccanismo di indicizzazione reale contemporanea ai tagli dei servizi pubblici che comporta maggiori uscite per chi non ne può più usufruire), avevano reso i nostri doni più un dovere in equilibrio insostenibile con il necessario risparmio che una sorridente manifestazione di piacere nel dare e nel ricevere quello che esattamente era nei pensieri dell'altro. L'oggetto per l'hobby, l'opera preferita, il libro non ancora letto, il tassello mancante nel guardaroba o nella casa, la sorpresa, il piacere. Non ci siamo mai regalati cose di grande valore, ma soddisfare i piccoli desideri dei nostri cari ci stava a cuore e ci dava soddisfazione. Ma stava diventando impossibile.
Lei ormai ai doni non era più interessata granché. Ma vederci tutti insieme le piaceva, sia pure per non troppo tempo. Così quella sera eravamo sedute vicine e chiacchieravamo e io l'aiutavo a prendere o tagliare là dove non arrivava più. Per anni avevamo passato Natale in quella stanza. Il grande buffet che ora ho raccolto nella mia piccola casa veniva trasformato in presepio pieno di muschio. Le statuine erano della fine degli anni Trenta, e solo a mezzanotte si metteva l'ultimo personaggio. L'albero con ancora qualche palla dell'epoca, verde oro o rossa. I fili d'argento. Una grande sensazione di attesa felice, voci, suoni, cose buone, sorrisi, eccitazione, pacchetti. E grazie a mia madre, che non apprezzerò mai abbastanza per questo, niente bugie di Babbi Natale inesistenti a cui promettere di comportarsi bene per avere in cambio regali (bel mercato educativo!). Che poi a ben guardare, a Milano, da dove veniamo, i regali, come saggiamente dice la canzone, li porta il bambino, ma i soldi li spende la mamma. Un bel modo, secondo me, per godere il rito, ma restando consapevoli che è un rito, senza raccontare falsità. Ancora più a nord arriva la slitta di Lucia che porta la luce. A Roma c'è la Befana con dolci di vari colori. Babbo Natale (sarà toscano?) sembra quasi un intruso, come i mostricini di Halloween.
Questi i Natali della mia infanzia, zie zii, cugini, nonni, tutti insieme a cucinare, apparecchiare, impacchettare, spacchettare, ridere, mangiare, chiacchierare, rigovernare, fare tardi nella notte fredda, partire carichi di buste magiche, come raramente può accadere in una grande città.
Il Natale successivo lei non ci sarebbe stata più. La sua casa nemmeno, la casa dove avevo passato i primi otto anni della mia vita, l'unica casa che abbia davvero sentito mia (a parte una in cui sono stata solo pochi mesi, ma è un'altra storia). Senza più avere accanto i miei amatissimi nonni, Natale non sarebbe più stato lo stesso. Piuttosto che viverlo senza di loro, lo abolii. Cioè preferii passare il Natale in una famiglia diversa e lontana, dove cominciare a costruire nuovi riti per una nuova storia. Portando un solo dono per il banchetto collettivo che aveva luogo accanto al fuoco, magari realizzato da me (e giuro, risparmiando in stress diversi anni di vita!).
Così come ogni anno a Natale lei non c'è. L'affetto più puro e generoso che abbia mai conosciuto. Oh, non era tenera la mia nonna! Non si sbrodolava certo in smancerie. Ma aveva una tensione di affetto e di vita in ogni suo gesto come forse mai ho ritrovato. Era riservata, quasi timida, ma spalancava sorrisi a chi, magari incontrato casualmente, la attirava in una conversazione, per quanto strana. La ricordo, mentre ero piccolissima, lei che non accendeva mai una radio, sulla piazza di Vigevano, guardare sorridendo un ragazzino che le spiegava di aver messo su una radio libera con un gruppo di amici e le faceva ascoltare in cuffia la loro prima pubblicità promozionale. O attaccare bottone sulla strada per il supermercato, uno dei pochi posti in cui andasse e dove ricevevo da lei le prime lezioni di economia domestica e educazione civica (l'altro grande maestro era mio nonno, per strada e in automobile). Ricordo i pacchetti pesanti di pasticcini comprati sottocasa infilatimi nella cartella quando partivo per la scuola, da lei che un dolce per tutta la sua infanzia poverissima quasi non aveva saputo cosa fosse. Ricordo gli abbracci forti e le ore passate a farmi ripetere le tabelline. Aveva una testa matematica la mia nonna. Non da ragioniera, da logica che averbbe voluto coltivare. Dopo il diploma magistrale, preso con i geloni sulle mani e i piedi, perché a Milano faceva freddo, ma soldi per il carbone non c'erano in quella famiglia dove il padre era partito carico di debiti di gioco, portando con sé perfino il denaro per pagare la levatrice quando lei nacque. E la madre era partita di testa per il dolore, alla morte della primogenita, una morte mai capita, un'infezione trascurata perché mancavano i soldi, e forse le medicine giuste, e in ospedale ci era arrivata viva, la piccola, con un foruncolo sul labbro, ma poi non gliel'avevano più mostrata, e quando le sorelline la rividero dopo pochi giorni aveva intorno alla testa una fasciatura che gliela copriva tutta. Loro non avevano mai saputo perché.
E il primo che s'azzarda a dire che dobbiamo ridurre l'assistenza sanitaria perchénoncelapossiamopermettere lo mangio crudo come un finocchio in pinzimonio, tacessero almeno, farisei di morte.
Dopo il diploma magistrale, dicevo, lei avrebbe voluto iscriversi a matematica. Ma la bisnonna si era opposta: una donna a matematica, non stava bene. Lettere, poi fare la maestra. E alla Cattolica, non altrove. Lettere aveva cominciato, ma soprattutto doveva anche lavorare, e ben presto lasciò. Poi un marito molto amato, amico d'infanzia, sei gravidanze e quattro parti e due pasti al giorno e sei bucati a settimana con il solo aiuto delle figlie, e una scuola tutti i giorni sei ore al giorno, e il marito, peraltro squisito e ben poco esigente, "che non è mai uscito di casa senza una camicia pulita e stirata ogni mattina."
Un matrimonio mandato in rovina perché dopo quattro parti, con dolore, e gli ultimi con nati di quattro chili, lei aveva cacciato il marito dal suo letto, ché la contraccezione, ovviamente, era peccato. O meglio aveva smesso di andare a letto la sera, addormentandosi su una sedia e mettendo avanti le faccende da sbrigare, con l'aiuto di endovenose di caffè. (Macinato a mano, il caffè. Da me, spesso. Nel macinino di legno con l'in granaggio metallico che profumava. Il caffè, che non mi è mai piacuto, è stato la prima cosa che ho imparato a preparare in cucina.) E lui mortificato, disperato: "Beatrice, non ti tocco, non ti tocco, vieni a letto". Ah, santi uomini di dio.
Già anziana aveva trovato un parroco che aveva cominciato a leggere la Bibbia con i fedeli. Lei non se ne perdeva una. L'ha letta tre o quattro volte, tutta intera. I nomi dei libri biblici li sapeva a memoria tutti. A casa ogni tanto la rileggeva. Ha comprato, o s'è fatta regalare, quella della TOB che adesso ho io. Chissà se ha mai conosciuto anche
queste storie, a cui quel parroco dopo cinque secoli tentava di porre rimedio. Perché cinque secoli fa, la Bibbia in Italia la leggevano in tanti, ciabattini e converse, tra vicini di casa e parrocchiane ferventi.
Poi è passata ai classici: francesi, russi, inglesi, tedeschi, i Grandi
libri Garzanti li ha consumati, o più tardi ci ha ascoltato
leggerglieli. La religione, una cosa lecita e reverenda, è stato il passaggio che ha permesso alla sua scrupolosità di ricominciare a coltivarsi, a prendersi cura di sé.
La telvisione invece non faceva per lei. A parte naturalmente l'ispettore Derrick, lo vedevamo tutti noi, peraltro.
Con me, con tanti, esigente, rigorosa, certo, ma generosa, attenta ai miei desideri, ai miei interessi. A dare senza mai apparire e senza mai credere. In affetto incondizionato e in effetti materiali. Come la cristiana profondamente credente che era, una delle poche che abbia incontrato. Per fortuna avevo una madre presente, che smussava certi effetti collaterali. Malgrado lei non lo ritenesse adatto, ho sempre potuto leggere di tutto, frequentare chi volevo. Ha conosciuto i miei amori più grandi. Ha letto la mia tesi di laurea. Era felice di ogni mia visita.
Un giorno di pioggia senza fine, d'inverno, l'ischemia. L'ospedale, dove la ricordo seduta sul letto, lo sguardo un po'appannato, cosciente, parlava sensatamente. I giorni, poi i mesi, passati sdraiata, con una flebo apparentemente di sola idratazione. Niente altro, mai altro. Poi il resto, la schiuma alle labbra, le vene che cedono, niente più vista, niente più parola. Le mani strette alla ricerca di un segno, le carezze per tentare stabilire un contatto. Una stanza piena di sole, per lei che diceva sempre "bello come il sole", ma lei non lo vede. La primavera che esplode e le rose che arrivano, ma lei che amava anche i fiori, non le vede. L'attesa nel silenzio, senza sapere cosa c'è di là, senza sapere se c'è paura, dolore, bisogno, senso di abbandono, desiderio. Senza sapere se e cosa si può fare, se semplicemente a quell'età il protocollo dice di non intervenire (ma altre patologie non ne aveva, "stava bene", se così si può dire) o cosa sia. L'ultimo segno, involontario, volontario, chissà. Andavo da lei tutti i giorni, e una volta, in quel gran sole, le tenevo la mano e le parlavo. Arriva la visita per la vicina di letto, mi mandano fuori, ma lei non lascia la mano. Tento di sfilarla, ma lei la trattiene. Forte, come una volta quando nel salutarla l'abbracciavo. E io sono obbligata a dirle, perché mi mandano fuori, con impazienza: "Nonna, devo proprio andare è venuto il dottore per la signora. Lasciami, adesso. Devo andare, poi torno, però." E la mano pare allentarsi, ma quando ritorno non la ritroverò. Non c'è più nulla, solo quel cuore che "è forte" e lo sarà ancora, a lungo, finché cederà tutto il resto e ci sarà solo una bara, poi un'urna, con dentro le rose.
Adesso non posso più andare a trovarla, nella sua poltrona davanti alla finestra del balcone fiorito, dai gerani rossi o viola piantati dal nonno. E insomma, nonna, come te lo devo dire. Che scherzo mi hai fatto. Non sta bene. A una certa età, mica ci si comporta così. Nemmeno i gerani ci sono più.