Avevo scritto queste righe per altro, non per essere pubblicate da me sotto qualunque forma, ma adesso penso si possano mettere qua.
Ovviamente non ritraggo lei, ma quel che ora io ricordo
di lei. Mi dispiace soprattutto non poter rendere né le sue frasi né il suo
dialetto: il tutto ci perde molto.
Eletta era una contadina, una delle poche rimaste
davvero tali e che vivevano dei propri campi. Piccola, robusta, le guance
arrossate e la pelle sottile, il viso ovale, gli occhi chiari, i capelli
castani come le donne di queste parti. Gonna sotto al ginocchio, larga, scura,
golfini, grembiule sempre, chiaro, calze pesanti e scarponi ai piedi.
Fazzoletto in testa, che lei portava tirato indietro sui capelli, spesso
scarmigliati. Tagliava il fieno, in stagione, lungo i pendii, ammucchiandolo
poi sul largo quadrato di iuta di cui raccoglieva al centro le cocche per
caricarselo addosso, un enorme cuscino sotto cui sparivano la testa e le spalle
delle donne di allora. Lavorava nell’orto, sempre, da cui riportava rose di una
rara varietà olandese, rosa pallido tendente al violaceo, dal fiore largo e
pesante, la bieta, anzi «bieda» da queste parti, e l’insalata. Produceva
dolcissime prugne sciroppate, frutto locale, con il cui sugo denso e rosso come
un bel vino riempiva grandi vasi di vetro da aprire in onore degli ospiti.
Faceva il burro e lo mangiava a cucchiaiate. Metteva sotto spirito le corniole.
Sevror, il suo paese, è un borgo antico. Nelle cronache
si nomina la peste secentesca raccontata anche da Manzoni. Rintanato tra le
pendici di due colline, s’aggrappa ai versanti là dove la roccia è meno
scoscesa, per non rubar spazio prezioso ai campi da coltivare. Le case sono
grandi, in pietra, intonacate di grigio, le porte e le finestre bordate
di tonalite dell’Adamello. Ben diverso dal più grande borgo giusto due curve in
là, opulentemente sparso al sole su una sporgenza del monte, al di sopra dei
suoi campi e al di sotto del suo bosco e delle sue malghe.
L’Eletta viveva sola. Era considerata la strana, la
matta, quella che non aveva mai imparato bene l’italiano e si esprimeva
soprattutto in dialetto, la voce dolce e sottile, la parlata rapida. In realtà l’ho sempre conosciuta gentile, accogliente e contenta delle nostre
visite. Forse aveva semplicemente
preferito continuare a vivere come avevano vissuto i suoi antenati, senza
troppi cambiamenti né confort moderni.
La sua casa si apriva sulla vallata. Al piano rialzato la
cucina, grande e nera, affumicata, aveva ancora il grande camino antico dove si
installavano panche e divani mentre le braci ardevano «in parte». All’esterno
della cappa, nera come il resto, era arrampicato un presepio che la occupava
interamente. Il muschio la copriva tutta, mentre i personaggi salivano e
scendevano per quel pendio come i contadini delle valli. Di quella cucina non sarebbe giusto dimenticare l'odore. Denso e dolciastro, non ho mai capito da dove venisse. Dal legno? Dal camino? Dallo zucchero cotto in abbondanza? Non so, ma nelle case moderne non l'ho mai più ritrovato. Al piano di sopra le
camere, gelide, con i letti ottocenteschi dall’alto capezzale, preda spesso di
mercanti senza scrupoli, i copriletti lavorati a mano.
A quella casa, una notte, avevano bussato gli austriaci,
raccontava l’Eletta. Lei era molto piccola. Cercavano suo padre. Lo portavano
alla guerra. La mamma non voleva lasciarli entrare, spiegava, ma quelli s’erano fatti
strada con la forza e era stato proprio lui a dirle di aprire. Venivano a
prendere gli uomini in piena notte per essere sicuri di trovarli. Di giorno
infatti parecchi si nascondevano, un modo un po' ingenuo per non ricevere la cartolina precetto. Di
notte, invece, gli avevano dato la cartolina e se l’erano portato via tutto in
una volta. Così, nel giro di un’ora, il papà aveva dovuto salutarli tutti,
abbracciare la moglie (si ricordava Eletta) e partire. La mamma era rimasta
sola e senza notizie. Aspettava. Gli uomini erano, si diceva, in un posto
lontano: Galizia. Notizie, però non ne arrivavano.
Poi un giorno arrivò una cartolina. Il testo era
prestampato. Non c’era spazio per aggiungere molto, lui aveva potuto metterci
solo una o due parole, oltre al suo nome. Sapeva scrivere, naturalmente. La
mamma, diceva Eletta, era felice.
Poi il silenzio era ricominciato. Fino all’annuncio
ufficiale della sua morte. Quando era arrivata la cartolina che aveva tanto
rallegrato sua moglie, il papà di Eletta era già stato ucciso. «I aveva le
cartoline, ma no le dava. ‘Spettavan.» Era una scelta precisa dell’Austria
consegnare la posta ai familiari dei soldati con grande ritardo. A volte la
corrispondenza arrivava quando i parenti erano già morti. Così le famiglie non
ci credevano, pensavano che fossero ancora vivi. « Mi ha appena scritto,
starà bene… ». E invece no.
L’Eletta raccontava spesso, spontaneamente, questa
storia. Ritornavano sempre nel suo racconto la mamma felice dell’ultima
cartolina del suo uomo, lei bambina che non aveva più visto, dopo quella notte,
il padre partito in Galizia. «Loro» che consegnavano le cartoline quando
ormai era già morto.
Eletta non poté finire i suoi giorni nella grande casa
del suo racconto. I nipoti, o i cugini, vi avevano messo gli occhi sopra. La
trasferirono in un stanza nel paese più grande, di certo più comoda e moderna,
al piano terreno. Tutti i giorni lei tornava a lavorare l’orto, fino
all’ultimo. Preparava ancora le «prugne bune». Quando andai a trovarla nella
sua nuova sistemazione mi disse, desolata, come rimpiangesse la grande casa
precedente. L’ultimo saluto me lo diede attraverso la finestra che dava sulla
strada, in piedi, asciugandosi le mani nel grembiule, sempre più scarmigliata.
Rimpiangeva la sua casa, ma era felice di avermi vista. Era una finestra con le
sbarre, stranamente, perché in quei paesi raramente ce ne sono. Vederla lì
dietro era la solitudine, l'impotenza, l'oppressione. Oggi sarebbe stato un motivo di più per andare da lei. Allora, invece, mi spaventai. Stupidamente, non ci sono più tornata.
storia vera che tocca le corde del cuore....grazie.
RispondiEliminaGrazie a te dell'apprezzamento.
EliminaHo visssuto da bambino dall'altra parte dello spartiacque dell'adamello. La descrizione della casa rispecchia i miei ricordi di allora. Quei paesi grigi di case di pietra, di freddo invernale, odorosi d'erba e di bestie. E le persone apparentemente chiuse, di poche parole, che sanno esserci quando serve.
RispondiEliminaInnanzitutto piacere di risentirti.
EliminaHai descritto perfettamente quei luoghi e quelle genti anche se dire Lombardo a un Trentino può sembrare, ehm, un azzardo :-).
Comunque è perché sono così che li amo tanto, mi sa...
A leggere dell'Eletta mi sembra quasi di averla conosciuta, hai smosso ricordi lontani, di quando ero piccola, molto piccola e di tanto in tanto si andava a trovare la bisnonna che viveva sola in una grande casa in pietra grigia, in un paesino arroccato in collina vicino a Predappio e ad un tratto ho risentito quell'odore dolce e poi l'odore degli sterpi che bruciavano nel camino. Ad un tratto non l'ho più vista nemmeno io.
RispondiEliminaSempre bello leggerti.
Un abbraccio
Sabrina&Luca
Cara Sabrina grazie come sempre dell'apprezzamento. Le bisnonne sono una parte importante della vita di un bambino. E hai ragione: quanto del nostro passato ci ricordano e di come era la vita allora. Una vita che non rimpiango, ma di cui alcune cose sono state rasate al suolo invece di preservarle con attenzione, almeno nei ricordi. Mi piacerebbe leggere ancora della tua bisnonna.
EliminaUn bellissimo racconto, sembra di vederla questa piccola meravigliosa donna...
RispondiEliminaGrazie Arabanella, era in effetti una donna da meraviglia eppure quanti oggi sarebbero disposti a trovare meravigliose persone del genere? Quanto a me, non me ne stanco mai.
EliminaHo giusto qualche riscontro in Caritas, dove come volontarie arrivano vecchine energiche e felici, emarginate dal mondo ben più dei poveri che servono con dedizione. A sera tornano dietro le loro "sbarre", a cucinare memorie. Spariranno i loro sorrisi e anche le prugne, prima o poi. Rimarranno solo files.
RispondiEliminaBenvenuto Franco, le tue vecchine hanno scelto un buon metodo per rimanere attive. Spero ne siano contente. Ma le prugne no, quelle rimarranno per sempre attraverso le generazioni. Dovrei provare a rifarle, ora che ci penso.
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