Deludiamo subito gli impazienti: rimarrò qui come prima.
Ma c'è una storia da raccontare. Piccola piccola.
Siccome, sia ciò un bene o un male non si sa, sono una persona di fedeltà canina e riconoscenza elefantiaca (nel senso che ho una certa memoria), ci ho riprovato.
Un sms prima, accolto con entusiasmo. Una telefonata poi. Destinataria una persona che, tra molte altre cose, mi ha fatto da guida per Parigi, come può fare solo chi ci vive e su questo suolo è nata, e condivide volentieri gusti, passioni, buon cibo e conversazioni; una persona che mi ha accolta volentieri, il che per me è sempre qualcosa di prezioso. Gli incontri sono rari e tanto più vanno protetti e coltivati: senza questo solo la superficialità sterile e rassicurante dell'indifferenza di fondo sopravvive. Anche quella ha i suoi amatori, ma non ne frequento.
Avevo capito solo l'ultima volta che c'era un problema grosso con l'alcool. Speravo fosse stata una circostanza sfortunata, o che le cose potessero migliorare.
Purtroppo no. Purtroppo ho sentito che alle sei di sera non solo una persona che mi è cara non era in grado di articolare correttamente una frase, ma che non poteva trattanersi dal bere, con aria soddisfatta, persino mentre eravamo al telefono.
Lasciandomi interdetta, sbalordita, triste e ovviamente, anche se nessuno lo ammette mai in circostanze del genere, spaventata.
Così, in un angolo le ciotoline di crudité alla senape e erbette che aspettano un'ora di pranzo passata da un pezzo, a raffreddarsi il cavolfiore da cospargere di burro, chapelure e limone, scrivo.
Provo a scrivere quel groviglio che sta nella pancia, ma se ci riuscirò non so.
Non ho voglia e non amo trovarmi accanto persone per cui l'ebbrezza è uno stato abituale. Neanche occasionale, oltre a un certo livello, peraltro. Non fa per me, e penso che ciò sia un segno che il mio sistema di autoconservazione, malgrado tutto, funziona ancora decentemente.
Allo stesso tempo mi sento addolorata e impotente davanti all'idea di una persona più che amabile, e per cui provo un sincero affetto, ridotta in uno stato del genere. Vale a dire sprofondata nella disperazione fino al punto di voler distruggere sé stessa, la sua arguzia, il suo sorriso, la sua curiosità per godere il mondo che tanto avevo sentito affini, in questo modo orribile e solitario.
Anzi no. Qualunque persona si riduca così mi stringe il cuore: quale abisso di disperazione dev'esserci dietro, per volersi fare a pezzi a tal punto? E in quanti casi, quale viltà di non voler affrontare la situazione? Penso a chi ne avrebbe tutti i mezzi: economici, culturali, di intelligenza, eppure preferisce girare la testa e continuare a fare del male a sé stesso e agli altri. Anche su cose meno evidenti di una dipendenza, ahimé.
Ma per questa persona c'è anche un affetto reale in gioco.
L'idea di lasciarla andare nel suo gorgo mi spaventa, mi rattrista. Mi fa proprio piangere. So di non poter fare nulla di sostanziale, eppure. Eppure non riesco a lasciarla andare nell'imbarazzo e poi nell'oblio che ci protegge dall'insostenbile - e a volte fa dei bei danni pure lui.
Mi chiedo se non dovremmo pensare di più a come agire sull'ipocrisia sociale nei confronti del disagio. Mi chiedo se non dovremmo essere tutti più istruiti, in maniera il più possibile serena e semplice, su quale sia la migliore maniera di comportarsi in queste circostanze. Intendiamoci: non ho neanche lontanamente intenzioni missoniarie, non so e non voglio sostituirmi a un professionista, né su di me il fascino delle dipendenze o dei loro adepti ha mai esercitato la minima presa. Sono del tutto allergica alle noiosissime tetrapilectomie ombelicali di chi prende la chimica come scorciatoia alla socialità o addirittura all'espressione artistica, frutto a mio parere di sacrosanto sgobbo molto più che di botte vagamente medicali ai propri organi vitali. Allo stesso tempo sono convinta che la maniera di reagire di chi nella vita di tutti i giorni può trovarsi a contatto con queste persone non è necessariamente indifferente e non dovrebbe essere lasciata al caso. Se la conservazione del gruppo spinge ad allontanarle, e infatti vivono e muoiono sole, o trovano una momentanea e ancor peggiore complicità tra loro stesse, sono anche convinta che ci sia un modo del tutto spicciolo di esprimere nelle piccole occasioni allo stesso tempo affetto senza stampelle, non condivisione ma non ripudio, che possa essere più positivo dell'imbarazzo e della fuga. Due cose che non fanno che peggiorare qualsiasi situazione.
Solo, questo modo non so quale sia, né come trovarlo.
Volevo essere concisa e al mio solito ho scritto un poema.
Non è natalizio? Che importa. Le fiabe non arrivano per forza a Natale.
Coraggio, V. Ma non ci posso più essere, così.
mercoledì 24 dicembre 2014
lunedì 22 dicembre 2014
Approccio comparatista
Una differenza fra le tante.
Paese A: il tuo direttore di ricerca dirige una collana in cui pubblica riedizioni in anastatica con annessi commentari e saggi corposi di introduzione. Sollecitata, ne scegli una dalla lista che ti sottopongono e ti viene detto: "Hai comprato l'esemplare da far riprodurre? Perché noi non ci possiamo accollare i costi, eh" (sui 100 euro, n.b.).
Paese B: il tuo direttore di ricerca ti chiede di partecipare a un'opera collettiva con un breve testo su documenti che si trovano in un'altra città. "Abbiamo questa somma per rimborsarle le spese, tenga tutti gli scontrini."
Non si tratta di indovinare quale sia il paese A e il paese B, ma quale dei due sia un paese con un'accademia di peracottari, come si dice nella capitale d'Italia.
Paese A: il tuo direttore di ricerca dirige una collana in cui pubblica riedizioni in anastatica con annessi commentari e saggi corposi di introduzione. Sollecitata, ne scegli una dalla lista che ti sottopongono e ti viene detto: "Hai comprato l'esemplare da far riprodurre? Perché noi non ci possiamo accollare i costi, eh" (sui 100 euro, n.b.).
Paese B: il tuo direttore di ricerca ti chiede di partecipare a un'opera collettiva con un breve testo su documenti che si trovano in un'altra città. "Abbiamo questa somma per rimborsarle le spese, tenga tutti gli scontrini."
Non si tratta di indovinare quale sia il paese A e il paese B, ma quale dei due sia un paese con un'accademia di peracottari, come si dice nella capitale d'Italia.
lunedì 15 dicembre 2014
Un buon blogcompleanno a te
Spero che quello lì possa passare per banner. E' il meglio che sia riuscita a fare!
Ovviamente, dato il titolo, non posso che essere molto, molto in ritardo.
Però. I compleanni vanno festeggiati, e questo tra tutti. Con le candeline e possibilmente con le torte.
Pure se, come nel mio caso, niente forno, come i lettori più attenti già sapranno, qui niente forno.
Per puro spirito pro domo mea, sia chiaro, quando compie gli anni chi ti ha fatto uno dei più bei regali che ricordi. (Sì, l'ho già scritto, e lo rifarò!).
E insomma, ecco cinque candeline che mi sono venute in mente, di augurio perché diventino, ovviamente, anche cento e anche di più. Sempre con il sorriso :-).
Non tutte sono proprio come le avrei volute, ma il mezzo ha le sue regole.
Perché volare non faccia
paura:
Perché qui con leggerezza si unisce, stando in cucina, l’utile al dilettevole (anche se in questo caso quel che potrebbe sembrare dilettevole è invece l’utile, e viceversa) - sperando che lei capisca di cosa sto parlando dalle parole che io invece non decifro affatto:
Perché è bello, e basta:
(non è la migliore
esecuzione possibile, ma è la sola che ho trovato che cominci con questa
variazione).
Perché nonostante tutto è arrivato a firmare il suo biglietto: "Un buon blogcompleanno a te."
Perché nonostante tutto è arrivato a firmare il suo biglietto: "Un buon blogcompleanno a te."
giovedì 11 dicembre 2014
Piccolo ululato di piacere
... post comprensibile solo a me, credo.
Sto perdendo una quantità di tempo insensata su un'edizione in latino disponibile unicamente online; tanta è l'ansia che faccio di tutto anziché leggermela. Quando finalmente, alla venticinquesima ora, riesco a mettermici su, e ad avere l'idea per avanzare un'ipotesi, e ho bisogno ovviamente di bibliografia molta ma molta, e tutta italiana, vado qui e ancora una volta vedo che c'è praticamente tutto. E mugolo di piacere e d'amore per questo meraviglioso paese.
Perché compra libri? No, perché è curioso. Abbastanza curioso da creare strutture dove chi USA i libri per costruire sapere possa trovarli. Enciclopedicamente. Del resto l'hanno inventata loro (sì, c'erano dei precursori ma non era la stessa cosa).
Perché amo solo i libri? No, nemmeno per questo, ovvio, persino stupido precisarlo. Perché è là dove si può essere curiosi, porre domande e sperimentare risposte, trovare fantasia e lanciarsi in ogni possibilità, ridendo di gioia, è là che si può amare e godere.
Ecco, siamo al panteismo libidico.
Meglio tornare al latino, va'.
Sto perdendo una quantità di tempo insensata su un'edizione in latino disponibile unicamente online; tanta è l'ansia che faccio di tutto anziché leggermela. Quando finalmente, alla venticinquesima ora, riesco a mettermici su, e ad avere l'idea per avanzare un'ipotesi, e ho bisogno ovviamente di bibliografia molta ma molta, e tutta italiana, vado qui e ancora una volta vedo che c'è praticamente tutto. E mugolo di piacere e d'amore per questo meraviglioso paese.
Perché compra libri? No, perché è curioso. Abbastanza curioso da creare strutture dove chi USA i libri per costruire sapere possa trovarli. Enciclopedicamente. Del resto l'hanno inventata loro (sì, c'erano dei precursori ma non era la stessa cosa).
Perché amo solo i libri? No, nemmeno per questo, ovvio, persino stupido precisarlo. Perché è là dove si può essere curiosi, porre domande e sperimentare risposte, trovare fantasia e lanciarsi in ogni possibilità, ridendo di gioia, è là che si può amare e godere.
Ecco, siamo al panteismo libidico.
Meglio tornare al latino, va'.
Etichette:
amore,
Bibliothèque nationale de France,
Francia,
panico,
studio
lunedì 8 dicembre 2014
giovedì 27 novembre 2014
I did Caproni
Il
parrucchiere taiwanese è un esile ragazzino con la barba e lunghi lucenti
capelli nerissimi, oggetto, i secondi, di tutta la mia invidia ché uno solo dei
suoi ne fa dieci dei miei. Tali capelli si ritrovano spesso e volentieri nella
doccia o meglio nel di lei invero poco razionale scarico, che non capisce la
meravigliosa opportunità offerta da un moderno fattore di disequilibrio mondializzatore
alla sua dignità di vita di scarico onestamente conservatore. Si educheranno
pure i Parlamenti, lui continua a rifiutarsi di mettersi a dieta capelli e
niente acqua. Al che, dopo le rimostranze del padron di casa, adesso il
parrucchiere li porta vezzosamente legati in una coda e assicurati con un
fermaglio sulla nuca. C’è il forte dubbio che nella doccia li sciolga, giacché
continua a tapparsi tale e quale a prima. Ma rispetto alla media dei
maleducatissimi, viziatissimi studenti di blasonata scuola USA con cui toccava
convivere gli scorsi anni, di cui alcuni nemmeno usavano lo scopino del
gabinetto – e ho detto tutto -, questo qui è un paradiso. Discretissimo,
pulitissimo, ordinatissimo, silenziosissimo. Una folla di ridenti e deliziose
ragazzine asiatiche viene in incognito a farsi tagliare capelli neri e forti
come i suoi, da fare invidia a qualsiasi fabbricante di parrucche. Anni luce
lontano dal bostoniano figlio di diamantiere che diede una festa, infilò gente
in tutti i letti (e passi), ma senza rifarli (e non passi), lasciò la casa
sottosopra tre giorni e tre notti, con una tinozza d’acqua sporca e lo
spazzolone infilato dentro giusto in fondo alle scale, in traiettoia diretta
sulla porta di casa, scomparendo non si sa dove, ricomparendo poi molto seccato
davanti alle rimostranze di chi avrebbe voluto poter sedersi a tavola, su un
divano, utilizzare un qualsivoglia attrezzo di cucina persino durante la sua
assenza senza dover prima trasformarsi nella Fulgida. Meglio anche dell’ex
marine di Philadelphia, tutt’altro genere di persona, l’unico che avesse idea
di cosa significasse coabitare con persone diverse da te e fare qualcosa per
gli altri e per tutti. Soprattutto senza l’aria di supponenza e di degnazione cui ci avevano abituato. Solo, non parla una
parola di francese. Si rifiuta proprio, sa il cielo perché. Strano per uno che
è venuto qui per studiare la lingua. Così i nostri scambi hanno luogo in
inglese, lingua che io conosco malissimo e lui forse anche peggio. Fiat. Ma su
cosa vertono i nostri scambi?
Premettiamo
che per un bel po’ non mi si è nemmeno avvicinato. Quando ho cominciato a dirgli « Hi » la mattina anziché
« Bonjour » deve aver capito che non lo avrei mangiato a colazione.
Dopodiché ha preso a guardarmi mentre mangiavo. Avete presente le vecchie
zie : « Non guardare nel piatto degli altri, sta’ zitta mastica e
manda giù »? be’, tutto l’opposto. Io seduta a tavola che mi metto davanti
la scodella e lui che ci si sporge sopra. Avrà fame? improbabile, per uno che
si è appena scofanato, come sempre peraltro, una cupola di spaghetti conditi
con funghi, pomodori, prosciutto cotto e patine biancastre di non meglio
precisati grassi (o colle amidaceo-glutinose?). Dopo una settimana di armeggi
del genere mi confessa : « Non so cucinare. A Taiwan si può comprare
del cibo per strada ad ogni ora del giorno e della notte. Io non ho mai
cucinato e non so come si fa. Così ti guardo per capire. Tu cucini! Ti ho visto
che cucinavi il pesce!!» Veramente l’ho mangiato marinato per una settimana
(per me il pesce si concepisce crudo, marinato e in rari casi al vapore)
comunque sì, è cucina pure quella. Nel frattempo il padrone di casa constata la
scomparsa di un hamburger. Qualcosa sta cambiando. Il vero affondo però arriva
stasera. Noi due soli, il padrone farà tardi al lavoro. « Ho visto della
carne in frgorifero. Come la cucino per fare in fretta ?» di che carne si
tratta tesoro? Perché saranno mica due chili di bollito? Un pezzo di arrosto da
3? un tacchino da 4? (in tal caso basterebbe guardare qui, ma proprio di fretta
non si farebbe). Ebbene no: trattasi di
cotolette di maiale. Seguono rudimenti di cucina in padella. Ormai è
lanciatissimo e decide di voler sapere tutto ciò che non ha mai osato chiedere.
Spalanca un pensile: « Ma questa roba qui tu ce la metti? come si
usa ?». Ha scoperto gli altarini. Trattasi di bottigliette di robe inconcepibili per una piumetta
perbene, tali Viandox e Aroma Maggi da cui ahimé il padrone di casa è
totalmente dipendente. La lezione di cucina diventa una lezione di etica del cibo,
o di mero buon senso, perché scusate, se devo mettere dell’aroma di carne nella
carne, vuol dire che la carne non è buona. Punto. Ma il vero punto che lo
interessa è un altro: la carne si può mettere in « qualcosa »
prima di cuocerla ? il fatto è che lui metterebbe « in »
qualcosa anche una cotoletta di maiale e forse non è il caso di trattarla come
un brasato o uno stracotto. Su questo c’è ancora un po’ di confusione. Ma ci metto il vino bianco ?
nel brasato magari no… e proprio
quest’anno, presa dall’impeto di portare poco bagaglio che me lo devo caricare
in spalla all’andata e al ritorno sono qui senza la mia bibbia di base! Via a
memoria con le tecniche di rosolatura, di arrosto morto, di cottura al forno.
Ma in Italia usate molto il forno? tutti i giorni?? c’è chi sforna torte anche
il 15 agosto, però… però è qui che il padrone di casa, unico titolato ad
avvicinarsi ai fornelli quando c’è, vive di carne in padella o alla tartara,
più insalata all’aroma Maggi, con gran disperazione della sottoscritta che il
forno lo userebbe sì, se il medesimo non funzionasse del tutto a ispirazione e,
data la vetustà, si presume difficilmente perderà la sua vena poetica. Per cui il forno lo userei volentieri, se non fosse piuttosto un tornado di aria
fredda che fuoriesce mentre all’interno tutto brucia senza cuocere, mandando
all’aria torte come arrosti. In particolare questa deliziosa torta che per anni
ha messo il sole e il profumo nelle mie colazioni invernali è diventata animata
di vita propria. Il tornado l’ha trasformata in ribollente colata suicida che
si getta sul fondo del medesimo, scavalcando il fedele stampo per formare una
frittella più in basso, mentre il poco impasto rimasto dentro brucia in basso e
rimane liquido all’interno. Una tristezza :-(. Ma ieri, incalza, c’era un
riso così buono, ma così buono (cotto dal padron di casa in lardo e pancetta
n.d.r.) ma come si fa ? Ma tutto qui ? « Perché sai io ho visto
tanti video di cucina, ma vogliono dirti tutto loro, io invece voglio essere libero
di scegliere, dato che poi ognuno spiega le cose in maniera diversa. »
Bene, hai iniziativa, esplora. « E come si sceglie il pesce? »
Quando gli propongo di andare insieme domani al mercato, però, si ritrae nella
sua chiocciolina, molto preoccupato. Finché arriviamo al vero soggetto, la
pasta. Come si cuoce la pasta ? Nell’acqua. Sì ma nell’acqua cosa ci
metti? del sale. E l’olio? Ovviamente no. E nel sugo ci metti il latte?
ovviamente no. « Ma dici proprio quello che dicono i cuochi
italiani nei video! » Ma ‘varda che strano. Perché io tutto son
tranne che patriota, ma se dobbiamo imparare la cucina italiana dalle versioni
estere alla moda, (inclusi e primi i blasonati) forse abbiamo una gerarchia
delle fonti un po’ curiosa. « Se usi buone materie prime non ne hai bisogno. »
Proprio quello che dicono loro! Be’, mi rassicura. «Comunque, mi spiega tutto
fiero, I did Caproni!». Dev’essere importante, fai attenzione a cosa rispondi.
La mia mente vaga. Mentre si affollano visioni subito scartate del caprone
sgozzato e squartato, scarterei anche quella del poeta offerto in pasto agli affamati, dato che per
lui la lettura è roba di un altro pianeta, vorrà dire maccheroni? « Sì,
Caproni con la pancetta. » Facciamo fare una capriola alla p.
Caproni-carboni-latte: carbonara? «Sì, con l’uovo. Ma tu non ci metti il
latte?» No, io no.
P.S. :
in genere amo e sperimento tutte le cucine senza problemi. In tre continenti
conosciuti l’unica a cui ho fatto davvero fatica ad abituarmi è stata quella di
Santo Domingo per via del grasso di cottura usato, terribilmente indigesto per
me. Però non amo i pastrocchi, i grassi, i dressing e le spezie messi
arbitrariamente su tutto, lo zucchero idem, la cucina italiana interpretata
come aglio-peperoncino-peperoni-parmigiano ovunque in qualsiasi stagione e
venduta a caro prezzo, il non rispetto della stagionalità, i prodotti
industriali, la cucina USA da supermarket, insomma.
giovedì 20 novembre 2014
L'Eletta
Deludiamo subito i mistici di qualunque razza: Eletta è un nome di donna, una persona che ho conosciuto da bambina.
Avevo scritto queste righe per altro, non per essere pubblicate da me sotto qualunque forma, ma adesso penso si possano mettere qua.
Avevo scritto queste righe per altro, non per essere pubblicate da me sotto qualunque forma, ma adesso penso si possano mettere qua.
Ovviamente non ritraggo lei, ma quel che ora io ricordo
di lei. Mi dispiace soprattutto non poter rendere né le sue frasi né il suo
dialetto: il tutto ci perde molto.
Eletta era una contadina, una delle poche rimaste
davvero tali e che vivevano dei propri campi. Piccola, robusta, le guance
arrossate e la pelle sottile, il viso ovale, gli occhi chiari, i capelli
castani come le donne di queste parti. Gonna sotto al ginocchio, larga, scura,
golfini, grembiule sempre, chiaro, calze pesanti e scarponi ai piedi.
Fazzoletto in testa, che lei portava tirato indietro sui capelli, spesso
scarmigliati. Tagliava il fieno, in stagione, lungo i pendii, ammucchiandolo
poi sul largo quadrato di iuta di cui raccoglieva al centro le cocche per
caricarselo addosso, un enorme cuscino sotto cui sparivano la testa e le spalle
delle donne di allora. Lavorava nell’orto, sempre, da cui riportava rose di una
rara varietà olandese, rosa pallido tendente al violaceo, dal fiore largo e
pesante, la bieta, anzi «bieda» da queste parti, e l’insalata. Produceva
dolcissime prugne sciroppate, frutto locale, con il cui sugo denso e rosso come
un bel vino riempiva grandi vasi di vetro da aprire in onore degli ospiti.
Faceva il burro e lo mangiava a cucchiaiate. Metteva sotto spirito le corniole.
Sevror, il suo paese, è un borgo antico. Nelle cronache
si nomina la peste secentesca raccontata anche da Manzoni. Rintanato tra le
pendici di due colline, s’aggrappa ai versanti là dove la roccia è meno
scoscesa, per non rubar spazio prezioso ai campi da coltivare. Le case sono
grandi, in pietra, intonacate di grigio, le porte e le finestre bordate
di tonalite dell’Adamello. Ben diverso dal più grande borgo giusto due curve in
là, opulentemente sparso al sole su una sporgenza del monte, al di sopra dei
suoi campi e al di sotto del suo bosco e delle sue malghe.
L’Eletta viveva sola. Era considerata la strana, la
matta, quella che non aveva mai imparato bene l’italiano e si esprimeva
soprattutto in dialetto, la voce dolce e sottile, la parlata rapida. In realtà l’ho sempre conosciuta gentile, accogliente e contenta delle nostre
visite. Forse aveva semplicemente
preferito continuare a vivere come avevano vissuto i suoi antenati, senza
troppi cambiamenti né confort moderni.
La sua casa si apriva sulla vallata. Al piano rialzato la
cucina, grande e nera, affumicata, aveva ancora il grande camino antico dove si
installavano panche e divani mentre le braci ardevano «in parte». All’esterno
della cappa, nera come il resto, era arrampicato un presepio che la occupava
interamente. Il muschio la copriva tutta, mentre i personaggi salivano e
scendevano per quel pendio come i contadini delle valli. Di quella cucina non sarebbe giusto dimenticare l'odore. Denso e dolciastro, non ho mai capito da dove venisse. Dal legno? Dal camino? Dallo zucchero cotto in abbondanza? Non so, ma nelle case moderne non l'ho mai più ritrovato. Al piano di sopra le
camere, gelide, con i letti ottocenteschi dall’alto capezzale, preda spesso di
mercanti senza scrupoli, i copriletti lavorati a mano.
A quella casa, una notte, avevano bussato gli austriaci,
raccontava l’Eletta. Lei era molto piccola. Cercavano suo padre. Lo portavano
alla guerra. La mamma non voleva lasciarli entrare, spiegava, ma quelli s’erano fatti
strada con la forza e era stato proprio lui a dirle di aprire. Venivano a
prendere gli uomini in piena notte per essere sicuri di trovarli. Di giorno
infatti parecchi si nascondevano, un modo un po' ingenuo per non ricevere la cartolina precetto. Di
notte, invece, gli avevano dato la cartolina e se l’erano portato via tutto in
una volta. Così, nel giro di un’ora, il papà aveva dovuto salutarli tutti,
abbracciare la moglie (si ricordava Eletta) e partire. La mamma era rimasta
sola e senza notizie. Aspettava. Gli uomini erano, si diceva, in un posto
lontano: Galizia. Notizie, però non ne arrivavano.
Poi un giorno arrivò una cartolina. Il testo era
prestampato. Non c’era spazio per aggiungere molto, lui aveva potuto metterci
solo una o due parole, oltre al suo nome. Sapeva scrivere, naturalmente. La
mamma, diceva Eletta, era felice.
Poi il silenzio era ricominciato. Fino all’annuncio
ufficiale della sua morte. Quando era arrivata la cartolina che aveva tanto
rallegrato sua moglie, il papà di Eletta era già stato ucciso. «I aveva le
cartoline, ma no le dava. ‘Spettavan.» Era una scelta precisa dell’Austria
consegnare la posta ai familiari dei soldati con grande ritardo. A volte la
corrispondenza arrivava quando i parenti erano già morti. Così le famiglie non
ci credevano, pensavano che fossero ancora vivi. « Mi ha appena scritto,
starà bene… ». E invece no.
L’Eletta raccontava spesso, spontaneamente, questa
storia. Ritornavano sempre nel suo racconto la mamma felice dell’ultima
cartolina del suo uomo, lei bambina che non aveva più visto, dopo quella notte,
il padre partito in Galizia. «Loro» che consegnavano le cartoline quando
ormai era già morto.
Eletta non poté finire i suoi giorni nella grande casa
del suo racconto. I nipoti, o i cugini, vi avevano messo gli occhi sopra. La
trasferirono in un stanza nel paese più grande, di certo più comoda e moderna,
al piano terreno. Tutti i giorni lei tornava a lavorare l’orto, fino
all’ultimo. Preparava ancora le «prugne bune». Quando andai a trovarla nella
sua nuova sistemazione mi disse, desolata, come rimpiangesse la grande casa
precedente. L’ultimo saluto me lo diede attraverso la finestra che dava sulla
strada, in piedi, asciugandosi le mani nel grembiule, sempre più scarmigliata.
Rimpiangeva la sua casa, ma era felice di avermi vista. Era una finestra con le
sbarre, stranamente, perché in quei paesi raramente ce ne sono. Vederla lì
dietro era la solitudine, l'impotenza, l'oppressione. Oggi sarebbe stato un motivo di più per andare da lei. Allora, invece, mi spaventai. Stupidamente, non ci sono più tornata.
Etichette:
affetti,
Biografie,
contadine,
donne,
famiglie,
Storia d'Europa XX secolo,
storia rurale
domenica 16 novembre 2014
Giusto un assaggio
Post del riposo.
O, piuttosto, del sogno del medesimo.
In questi sei mesi ho corso. Tutto il tempo. Metaforicamente, ahimé, che dalla sedia ho avuto poco tempo per alzarmi, e tutto il mio corpo protesta e manifesta. Una sola settimana di vacanza, inframmezzata però da giorni di organizzazione di viaggi lavorativi, quindi nemmeno troppo di riposo.
Nell'ultimo mese i miei spostamenti paiono un grafo impazzito.
Le valigie, il viaggio, un impegno in più nella stanchezza. Al momento di passare i monti, andando verso la Val Susa, però arriva un irrefrenabile birivido di felicità: la riprova fisica, profonda, che ancora una volta la scelta è giusta. Più tardi, quando nella notte il raggio della Tour Eiffel spazza il cruscotto fino all'orizzonte, è una risata a sgorgare: una risata di soddisfazione, di leggerezza, di respiro, di libertà.
Ora sono infine in Francia, felice ma esausta, con metà dei bagagli che aspettano di essere disfatti, il frigorifero pieno di verdure e pesce, qualcuno anche da squamare, con la segreta speranza di trovare qualche buona ricetta per sardine bretoni da qualche parte, tanto sonno e tanta pioggia.
Ieri mi sono avvoltolata nella couette alle diciotto e mi sono alzata alle dieci (no, non alle 22 h 00)."Sei riuscita ad arrivare fino al letto?" mi hanno chiesto a colazione, spalmando la "grosse brioche" riportata dalla briocherie dell'ultima tappa, Tours. Perché in questo paese felice esistono anche delle briocherie che fanno proprio solo quello: brioche con variazioni sul tema e farciture espresse, salate o dolci. La meraviglia della brioche è proprio quella di essere indefinibile, e di accettare ogni tipo di guarnizione.
Si la vie est savoureuse nous y sommes pour beaucoup, proclamano i briochers.
Stavolta, oltre agli abitanti fissi, l'ospite non è né un ex-marine reduce dall'Iraq, né il figlio di un diamantiere, né un'esile fanciulla del Michigan abituata a passare l'inverno sotto sei metri di neve vicino a un lago gelato, e che di tutta la Fracia ha voluto vedere solo la comunità borgognona di Taizé, bensì un parrucchiere taiwanese che per Natale si occuperà della mia testa (regalo del padrone di casa). Ha una chioma lunga fino alle spalle, liscia e lucente, nera come il carbone, robusta al punto che con un suo capello se ne fanno dieci dei miei. Capisce bene il francese, ma si rifiuta ostinatamente di parlarlo. Quando dico bene, non scherzo: stamani si discuteva su Gesù, i Romani, le monete, le tasse e il verbo apodidomi, e lui se ne esce con un verso di vigorosa approvazione. Non è esattamente il genere di discorso che si farebbe a un principiante. Comunque, nelle pause, ascolta la bossa nova.
La stanchezza e il senso di vuoto mentale sono tali che se potessi permettermelo, noleggerei una barca a vela che non mi facesse sentire il rombo di un motore neanche per sbaglio, per portarmi in un posto caldo, sì caldo, dove non ci fosse altro da fare che restare per almeno 10 giorni allungata su una spiaggia, possibilmente bianca, al sole, rotolando ogni 15' nell'acqua, oleograficamente trasparente, appena azzurrina e soprattutto calda anche lei, per poi rirotolare al sole in posizione supina, preferibilmente, al tramonto scortecciare un'aragosta alla brace che lì nessuno vuole, e poi rotolare in posizione variabile sotto le lenzuola per almeno nove ore, circondata da opportuni accorgimenti antizanzare, da sempre e per sempre, temo, le mie più ardenti e costanti ammiratrici.
Lo sogno davvero con tantissima voglia. Quella di quando il corpo lo brama per stare bene, insomma.
Mi piace vedere il mio corpo trasformarsi, i capelli schiarire e gonfiarsi, la pelle diventare subito bronzea e dorata, gli occhi più intensi su quel cuscino scuro, i vestiti di seta sfiorarmi leggeri. Ma quanti anni che ciò non succede! Almeno cinque estati. Mi piacciono il sole che giuoca con la riva del mare in mille sfumature di colore, la terra che gioca con l'acqua e viceversa, il loro odore.
Dopo 10 giorni prenoterei altri 15 giorni nello stesso luogo con attività fisica vagamente più intensa.
Ecco.
Quelli lì nella prima foto sono i regali preziosi di una cara amica, "un po' chioccia", si definisce lei, perché io non mi sarei mai permessa, che si è presa amorevolemente cura della mia stanchezza infinita, precipitatale tra capo e collo tra diluvi esterni e allagamenti interni, mentre chiunque altro mi avrebbe mandato di corsa a quel paese. Poi ha pure proclamato pubblicamente di essere contenta. :-)
E dunque grazie, perché non riesco a connettere molto di più, per queste cose che non si dimenticano, e in mezzo alle nebbie scaldano il cuore.
Aggiornamento: questo piatto è ovviamente farina del suo sacco e delle sue mani sapienti, condita con la meraviglia qui che ho avuto il privilegio non solo di leggere, ma proprio di assaggiare:
sabato 27 settembre 2014
Ewa
Ebrea polacca comunista. Tutti
i requisiti per garantirsi una vita facile e tranquilla nella prima metà del XX
secolo in Europa, insomma. E infatti le vicissitudini di Ewa, nata nel 1909,
erano cominciate presto. Non potendo studiare nel suo paese, era emigrata a Parigi,
chiamata da un fratello trasferitosi già da diversi anni. Marie Curie arrivò a
Parigi, qualche decennio prima, con una storia analoga.
A Parigi Ewa era entrata in una scuola di chimica, perché allora, si racconta nella sua famiglia, gli ebrei studiavano queste materie per poter lavorare in tutto il mondo, ovunque fossero stati costretti a spostarsi dalle persecuzioni rifiorenti. L’ultima era stata dichiarata dalla Russia zarista nel 1905 all’incirca e si parva licet, secondo una (mia) ipotesi non verificata, avrebbe alla fine e dopo ben peggiori conseguenze, dato origine al cheese cake. Ma questa è un’altra storia, e per Ewa e la sua famiglia doveva essere stata una ragione di più per allontanarsi da una regione troppo vicina alla Russia e prepararsi a ogni evenienza. A Parigi, le “studentesse polacche” erano famose allora per avere una vita estremamente libera, vale a dire quella che oggi giudicheremmo normale. Lo racconta Eva Curie nella biografia di sua mamma, mentre Simone de Beauvoir scrive che l’espressione “studentessa polacca” era proverbiale per indicare una ragazza che usciva da sola, andava in giro la sera, frequentava ristoranti e bar senza chaperon. Come un essere umano, insomma…
A Parigi Ewa era entrata in una scuola di chimica, perché allora, si racconta nella sua famiglia, gli ebrei studiavano queste materie per poter lavorare in tutto il mondo, ovunque fossero stati costretti a spostarsi dalle persecuzioni rifiorenti. L’ultima era stata dichiarata dalla Russia zarista nel 1905 all’incirca e si parva licet, secondo una (mia) ipotesi non verificata, avrebbe alla fine e dopo ben peggiori conseguenze, dato origine al cheese cake. Ma questa è un’altra storia, e per Ewa e la sua famiglia doveva essere stata una ragione di più per allontanarsi da una regione troppo vicina alla Russia e prepararsi a ogni evenienza. A Parigi, le “studentesse polacche” erano famose allora per avere una vita estremamente libera, vale a dire quella che oggi giudicheremmo normale. Lo racconta Eva Curie nella biografia di sua mamma, mentre Simone de Beauvoir scrive che l’espressione “studentessa polacca” era proverbiale per indicare una ragazza che usciva da sola, andava in giro la sera, frequentava ristoranti e bar senza chaperon. Come un essere umano, insomma…
Ewa raccontava incantata
le sue serate con i compagni nei caffè della Montagne dove l’acqua si chiedeva
al cameriere con un “De l’H2O, svp”, la dimensione di vita collettiva che aveva
sperimentato, le passeggiate per la città, le mille libere discussioni, l’effervescenza
culturale di una città capitale cosmopolita. Diplomatasi, aveva trovato
immediatamente lavoro come direttrice di un laboratorio di chimica farmaceutica
presso una ditta francese, il tutto, giova ricordarlo, negli anni Venti del XX
secolo. Si era sposata e avevano avuto una bambina.
Poi arrivò la guerra, e
soprattutto l’occupazione. Suo marito era lontano, sarebbe ritornato a casa
molti anni dopo, avendo fatto il giro del mondo dietro alle vicende belliche. Erano venuti a cercarlo, un giorno. Non l'avevano trovato e se n'erano andati. "Per fortuna", diceva, "erano venuti solo a cercare un comunista. Fosse stato per cercare un ebreo, sarebbero rimasti." Militanti
politici entrambi, rischiavano come tali, come ebrei e come abitanti di un
paese occupato. Lei si ritrovava sola, nella
Parigi occupata dai nazisti tedeschi, con una bambina di pochi anni. Ewa mandò
la bimba in Bretagna nella speranza che si salvasse. A quell’epoca molti ebrei
si fecero passare per bretoni, perché i cognomi bretoni somigliano ai cognomi
tedeschi. O almeno, nell’impotenza e nella paura, lo si voleva credere, perché
i tedeschi ci misero poco a decifrare l’onomastica regionale. Rimase a Parigi. Ma
come vivere? Passò quattro anni chiusa nella fabbrica di medicine, con la
complicità dei suoi padroni, lavorando alle sue polveri e ai suoi dosaggi
chimici, come sempre. Arrivò la Liberazione. E si salvò. Anche la bimba si
salvò. Non tutti si salvarono. Diciassette morti nei lager nazisti contò la famiglia,
più simpatici danni collaterali ad alcuni sopravvissuti all’Arbeit macht frei e ad altri variamente
perseguitati e dispersi.
Nel frattempo Ewa si
ritrovò senza documenti. Non era infatti tornata in Polonia, perdendo così la
cittadinanza. Divenne apolide, con un documento delle Nazioni Unite che la
dichiarava tale. Lei e suo marito, peraltro, erano entrambi convinti comunisti,
il che per l’epoca e per il luogo significava senza mezzi termini stalinisti. Si ricordano confusamente negli annali
familiari terribili discussioni con i parenti polacchi venuti in visita quando
tentavano di raccontare che non andava poi tutto così bene… e altre terribili
discussioni in polacco inframmezzato da yiddish con i parenti emigrati in
Israele, con valigie impacchettate di fretta quando il livello di dissenso
sulle politiche interne di quel paese aveva raggiunto un punto che rendeva impossibile
passare la notte sotto lo stesso tetto, a costo di passarla à la belle étoile… perché nessuna scelta, al di là di quel che si
vuol far credere, avveniva nel consenso generale e fuori da ogni contesto.
Quando andò in pensione
Ewa partì per l’Italia dove aveva legami familiari. Allora la conobbi. Aveva già
quasi cento anni, ma discutevamo reciprocamente incantate della politica
francese negli anni’30, alla vittoria del Fronte popolare, che avrebbe creato
in quel paese il welfare oggi così minacciato. Leggeva tre o quattro quotidiani
al giorno e faceva disperare le sue badanti perché non compitavano l’italiano
abbastanza bene. Ripassavamo la storia e la letteratura d’Europa in due lingue e mezza. Il suo francese era delizioso, con una ricchezza sintattica scomparsa nelle ultime generazioni. Le raccontavo
i miei soggiorni francesi e i miei guai con i docenti italiani, cui lei
suggeriva rimedi tutt’altro che banali. Mi invitava a cene che si aprivano rigorosamente
con il potage, che amavamo entrambe,
come le uova che spesso seguivano. Non amava, salvo negli ultimissimi tempi, esssere toccata. Al bacio di commiato, spiegava, preferiva una stretta di mano. Fu all’origine di alcuni incontri in Francia
che mi hanno permesso di continuare a passare lunghi periodi in quel paese. E chissà.
Erano arrivati i suoi 105
anni, e una lettera d’auguri firmata dal sindaco con bell’inchiostro verde.
Lei
l’aveva sentita, l'aveva detto, ma nessuno l'aveva presa sul serio: il primo giorno d’autunno
è arrivata anche, quasi nel sonno, la morte.
Ma qui ritorna il famoso
ebreapolaccacomunista. Sì, all’inizio del nuovo secolo. Perché la sua famiglia
avrebbe voluto cremarla, riunendone le ceneri a quelle del marito sepolto in Francia,
anche lui cremato. Ma Ewa da apolide vive e apolide muore. E allora “non si può”.
“Non si può”, dicono i
servizi cimiteriali romani: “Bisogna chiedere allo stato polacco.”
“Non possiamo, ripetono dall’Ambasciata, la signora non è più cittadina polacca.” Proviamo con la Francia?
“Non si può, ribadiscono i Francesi, la signora non ha mai avuto la cittadinanza francese.” Bisogna rivolgersi all’autorità che ha emanato il documento da apolide.
“Noi inumiamo domani”, incalzano i servizi cimiteriali.
“Non possiamo, ripetono dall’Ambasciata, la signora non è più cittadina polacca.” Proviamo con la Francia?
“Non si può, ribadiscono i Francesi, la signora non ha mai avuto la cittadinanza francese.” Bisogna rivolgersi all’autorità che ha emanato il documento da apolide.
“Noi inumiamo domani”, incalzano i servizi cimiteriali.
“Ma…”
“Noi inumiamo entro 24 ore.”
“Stiamo cercando…”
“Non si può. Noi inumiamo
domani.”
“Vorremmo…”
“Non si può.”
Shake hands, Ewa. Come dicevi tu.
Etichette:
affetti,
apolidi,
Biografie,
donne,
ebrea polacca comunista,
famiglie,
Storia d'Europa XX secolo
martedì 16 settembre 2014
La zuppa del demonio
Questa favolosa
espressione non è, purtroppo, mia, ma di Dino Buzzati. Lo scrittore chiama così
la colata d’acciaio in fusione, ribollente nei nuovi altiforni installati nell’Italia
contadina degli anni’50 (Il pianeta acciaio, 1964). E forse allude all’ambiguità di quella zuppa che gli
operai recentemente inurbati, installati
in prossimità delle ciminiere che oscurano il cielo di fumi, possono versare
nei loro piatti con gli stipendi ricevuti dai padroni dei grandi impianti
industriali.
La zuppa del demonio è un documentario di Davide Ferrario che si propone di indagare l’idea
di progresso in Italia nella prima metà del Novecento, sino alla crisi
petrolifera del 1973. La cosa più bella e interessante è la scelta del
materiale di repertorio con cui è costruito, proveniente da vari archivi
cinematografici del cinema d'impresa. Spesso sono reportage di scrittori e giornalisti noti, da
Buzzati a Zavattini (più l’immancabile Pasolini: una tassa quando si trattano
certe tematiche). Il commento del regista è quasi inesistente, poche parole
recitate da una voce fuori campo. Tutta l’interpretazione è affidata a una
scelta accurata dei materiali e al montaggio.
Mi
piace di questo film l’attenzione a una dimensione troppo assente e spesso
falsata nel cinema: quella dei processi e dei luoghi di lavoro e di produzione.
Le fabbriche sono indagate nella loro dimensione di strutture fisiche, nel loro
inserimento nel contesto geografico e ambientale (la campagna, la spiaggia, la
città), nella loro rappresentazione artistica (Dziga Vertov in primis), poi
nelle persone che le fanno funzionare. Una delle sequenze più straordinarie,
che da sola vale il biglietto, è l’uscita felice e gioiosa degli operai dalle
officine di Mirafiori a Torino nel 1911. In splendido bianco e nero li si vede
precipitarsi fuori dai cancelli, ma genialmente la macchina da presa non è
piazzata davanti al cancello stesso, bensì perpendicolarmente, all’angolo dell’isolato.
Alla sirena del mezzogiorno gli uomini corrono fuori ridenti, si precipitano,
si abbracciano. Sono in tuta, camicia, cravatta. Poi escono i capetti, i futuri
Quarantamila. Sono in completo, portano l’occhialino, la cravatta, la camicia
bianca, la paglietta. Sigaretta all’angolo della bocca e sussiego. Ostentano distacco
dalla fretta degli altri, camminano piano, in gruppo, e non li guardano mai. Perfetti.
Mussolini chiamato a
inaugurare nel 1924 le nuove officine di Mirafiori e la FIAT chiamata a
garantire l’assistenza meccanica con camion attrezzati all’uopo all’ARMIR
durante l’invasione dell’URSS insieme all’esercito hitleriano. Fin qui la parte
più riuscita, mentre il seguito del film, pur presentando materiale molto
interessante – sulla pubblicità, l’arrivo dell’informatica e l’automazione della produzione, la
costruzione di grandi infrastrutture come le dighe, dove ho creduto quasi di
riconoscere le mie montagne, l'estrazione del petrolio, l’Olivetti – rimane troppo muto sulle reazioni che
pur cominciano a manifestarsi in conseguenza di quel progresso. Antagonismo della
natura, come nel caso della frana del Vajont, antagonismo di chi fa vivere la
fabbrica, cioè gli operai, antagonismo di chi vede nello sviluppo industriale
non normato la distruzione di ambiente e salute (quanto attuale quest’ultima!), antagonismo tra industrie e nazioni (Mattei).
Tutto questo dal film scompare: sembra che le fabbriche, gli operai e i
consumatori vivano sospesi in un limbo meccanico che non conosce altro. Ora, certo che di
queste tematiche si è parlato molto di più, ma l’eliminarle completamente non
giova alla comprensione dello scenario complessivo. Che si conclude con le “domeniche
a piedi” del 1973 (“Che pace!” ricordava sempre mio nonno che ci aveva anche
girato un filmino in superotto): una battuta d’arresto, peraltro molto
temporanea, dovuta a una causa del tutto esterna e sovraordinata eppure, alla
fin fine, come nei grandi sviluppi storici, la produzione delle macchine è continuata,
vincente, sopra la testa e il pensiero di chiunque vi fosse coinvolto senza possederle. In Italia
dagli anni’80 è arrivata la deindustrializzazione, a cominciare da quella
avanzata, poi la delocalizzazione. Non sono più gli operai a passare per i giardini
delle palazzine di Olivetti ma l’archivista che
custodisce e riordina le testimonianze visive di un’epoca.
La battuta
indimenticabile arriva nell’intervista a due operai della FIAT. Domanda: “Avete
trovato difficoltà nell’adattarvi al lavoro in fabbrica? Tempi, orari,
movimenti, ambiente, controllati, rigidi?”. Risposta di un immigrato
meridionale dal viso infantile, grande sorriso sotto i baffi e l’aria di chi la
sa lunga: “No. Ti dico perché. E’ che io ho fatto il militare. E qui, faccio
come se fossi sempre militare”.
Ah, quella sopra non è la
zuppa del demonio, ma la mia zuppa estiva di fagioli freschi… o meglio ciò che ne resta, perché si sa, quel che viene al demonio ha anche la proprietà di scomparire quando più gli aggrada.
domenica 31 agosto 2014
Water is too warm
Lewis è stanco. Così stanco da non riuscire nemmeno a chiudere gli occhioni azzurrissimi e posare la testa per dormire. Si agita negli abiti leggeri e in mezzo a una folla affastellata e stanca. Siamo su un treno che verso le undici di sera che ci riporta a casa dall'aeroporto. Nemmeno il seno della mamma funziona più: del resto sembra grandicello per quello, sfodera già tanti dentini. Finché scopre la manica del mio maglioncino anche lui di ritorno dai 16° dell'Alsazia. Ci passa su la mano con infiniti gridolini, si distrae, ci ritorna, chiacchiera e gioca forsennatamente con le prese del pc del papà. Poi cambia faccia, si gira, avvicina la manina, si strofina ancora e ancora e ride: "Baboo! Baboo!!!". Baboo è un cane, mi spiega il papà, molto morbido, tutto nero come il maglione, il peluche favorito di Lewis. Dopodiché anche lui, il (bellissimo) papà, si avvicna con curiosa circospezione al mio braccio e si elettrizza con soddisfazione, annuendo di approvazione. E così eccomi promossa a Baboo sul campo. I genitori del biondo, rosa, azzurro e paffuto Lewis sono australiani, hanno fatto una vacanza in Croazia, passando sei ore sballottati fra vari aeroporti per riuscire a tornare indietro. Vivono a Doha, dove purtroppo non riesco a capire che lavoro facciano. "Sa", spiegano, a me che farei il bagno nel brodo e in Croazia ho conosciuto alcune delle più profonde frustrazioni da ghiaccio sciolto della mia vita, "siamo andati in Croazia a cercare un po' di mare. Fresco. In Doha water is too warm!".
Conclusione (che non ho fatto in tempo a scrivere prima).
Ecco due favole per te, piccolo ercole biondo e rosa. Che ti portino lontano da questo ammasso di caldo e di cemento e diano il sonno ai tuoi riccioli stanchi.
La prima viene dalle montagne della valle Aurina, una valle remota piena di verde, con un fiume, un castello e dei masi sparsi sui declivi. Rocce e ghiacci le fanno da sfondo. "Le streghe, si sa, hanno un piede fatto come una stella a cinque punte: quando passano a seminare i loro malefizi lasciano la stella come impronta. Ma non sanno che gli uomini hanno imparato a difendersi. Prima dell'arrivo della strega scolpiscono una stella a cinque punte nei luoghi che vogliono proteggere e la strega passa via senza fermarsi convinta di aver già colpito. Per questo sulle culle dei bimbi spesso c'è disegno o l'intaglio di una stella nel legno. Il sortilegio è sconfitto e il piccolo può dormire tranquillo. "
E questa viene dal cielo stellato sulla campagna toscana trapunto di così tante luci da sembrare palpitante, un disegno pieno di vita. Non fitte come sulla North Rim, il cielo più indimenticabile che abbia mai visto, ma lucenti su un fico carico di meraviglie succulente, quattro olivi e un pino a ombrello, con l'odore della terra d'estate.
"Un giorno un bambino molto piccolo era molto molto affamato. Succhiava il latte dalla sua balia, che era speciale come lui. Il suo capezzolo era turgido e pieno come si conviene, ma il suo corpo era coperto di un bellissimo e morbido pelame dorato. Allattava in piedi e lui le scivolava sotto per attaccarsi e mangiare. Aveva un magnifico paio di corna a cui il popo si aggrappava per mettersi dritto, e se non ci riusciva, afferrava anche il pelame dorato. Era infatti una capra, e allattava nascosta in una grotta sui monti di un'isola lontana, nel vasto mare, perché la mamma del bimbo non aveva potuto tenerlo con sé. Ma una notte che era uscita a farlo mangiare sotto il cielo pieno di stelle, il bambino la morse con i dentini che avevano cominciato a spuntare e lei allontanò la mammella. Deluso, il bimbo scoppiò in strilli disperati e tutto il latte che aveva ancora in bocca schizzò fino al cielo. E lì rimase, striandolo di bianco per tutta la volta celeste. E noi che in città siamo diventati ciechi alle stelle, in campagna le ritroviamo, comprese le strisce bianche, che formano un sentiero lungo le praterie delle stelle, e vengono chiamate Via Lattea."
Buona notte, Lewis.
P.S.: la prima leggenda l'ha raccolta la mia mamma in Valle Aurina; la seconda è, ovviamente, rimaneggiata, uno dei miti sulla nascita di Zeus, la capra Amaltea e il monte Ida o
Psiloritis sull'isola di Creta.
Conclusione (che non ho fatto in tempo a scrivere prima).
Ecco due favole per te, piccolo ercole biondo e rosa. Che ti portino lontano da questo ammasso di caldo e di cemento e diano il sonno ai tuoi riccioli stanchi.
La prima viene dalle montagne della valle Aurina, una valle remota piena di verde, con un fiume, un castello e dei masi sparsi sui declivi. Rocce e ghiacci le fanno da sfondo. "Le streghe, si sa, hanno un piede fatto come una stella a cinque punte: quando passano a seminare i loro malefizi lasciano la stella come impronta. Ma non sanno che gli uomini hanno imparato a difendersi. Prima dell'arrivo della strega scolpiscono una stella a cinque punte nei luoghi che vogliono proteggere e la strega passa via senza fermarsi convinta di aver già colpito. Per questo sulle culle dei bimbi spesso c'è disegno o l'intaglio di una stella nel legno. Il sortilegio è sconfitto e il piccolo può dormire tranquillo. "
E questa viene dal cielo stellato sulla campagna toscana trapunto di così tante luci da sembrare palpitante, un disegno pieno di vita. Non fitte come sulla North Rim, il cielo più indimenticabile che abbia mai visto, ma lucenti su un fico carico di meraviglie succulente, quattro olivi e un pino a ombrello, con l'odore della terra d'estate.
"Un giorno un bambino molto piccolo era molto molto affamato. Succhiava il latte dalla sua balia, che era speciale come lui. Il suo capezzolo era turgido e pieno come si conviene, ma il suo corpo era coperto di un bellissimo e morbido pelame dorato. Allattava in piedi e lui le scivolava sotto per attaccarsi e mangiare. Aveva un magnifico paio di corna a cui il popo si aggrappava per mettersi dritto, e se non ci riusciva, afferrava anche il pelame dorato. Era infatti una capra, e allattava nascosta in una grotta sui monti di un'isola lontana, nel vasto mare, perché la mamma del bimbo non aveva potuto tenerlo con sé. Ma una notte che era uscita a farlo mangiare sotto il cielo pieno di stelle, il bambino la morse con i dentini che avevano cominciato a spuntare e lei allontanò la mammella. Deluso, il bimbo scoppiò in strilli disperati e tutto il latte che aveva ancora in bocca schizzò fino al cielo. E lì rimase, striandolo di bianco per tutta la volta celeste. E noi che in città siamo diventati ciechi alle stelle, in campagna le ritroviamo, comprese le strisce bianche, che formano un sentiero lungo le praterie delle stelle, e vengono chiamate Via Lattea."
Buona notte, Lewis.
P.S.: la prima leggenda l'ha raccolta la mia mamma in Valle Aurina; la seconda è, ovviamente, rimaneggiata, uno dei miti sulla nascita di Zeus, la capra Amaltea e il monte Ida o
Psiloritis sull'isola di Creta.
giovedì 28 agosto 2014
Il raptus non esiste
"Il raptus non esiste. Neanche la banalità del male. Piuttosto, ci sono persone che arrivano a un punto di rottura con la vita, non riescono più a sopportare la fatica delle relazioni e della quotidianità. Finché, giorno dopo giorno, si trovano in una squallida normalità in cui tutto è lecito, perfino ammazzare qualcuno.
Alla base c’è uno stato depressivo trascurato?
La depressione è una parola contenitore, abusata. Ogni storia è un caso a sé stante. L’uomo aveva la passione delle armi, voleva arruolarsi nell’esercito di Israele ed era pieno di tatuaggi. Sintomi di un pensiero esasperato. Stava elaborando una sua visione del mondo frutto di un malessere. Se però lo fa un jihadista, lo definiamo terrorista. Se lo fa il norvegese che stermina una scuola, è uno schizofrenico. Bisogna stare attenti alle etichette facili. Dietro a gesti del genere, c’è la sofferenza, che si alimenta giorno per giorno finché diventa normale fare del male a sè o agli altri."
Inutile negarlo: per quanto la cronaca nera non sia proprio la mia passione, l'assassinio della colf Oksana Martensciuk et la successiva uccisione dell'assassino Federico Leonelli da parte della polizia, non mi escono di mente. I punti poco chiari sembrano ancora tanti, sia nella dinamica che nelle ragioni delle due morti, così come per la lunga permanenza di Leonelli nella villa.La depressione è una parola contenitore, abusata. Ogni storia è un caso a sé stante. L’uomo aveva la passione delle armi, voleva arruolarsi nell’esercito di Israele ed era pieno di tatuaggi. Sintomi di un pensiero esasperato. Stava elaborando una sua visione del mondo frutto di un malessere. Se però lo fa un jihadista, lo definiamo terrorista. Se lo fa il norvegese che stermina una scuola, è uno schizofrenico. Bisogna stare attenti alle etichette facili. Dietro a gesti del genere, c’è la sofferenza, che si alimenta giorno per giorno finché diventa normale fare del male a sè o agli altri."
Ma se pure fosse andata esattamente come si legge, ed è possibile, questa intervista allo psichiatra Giuseppe Dell'Acqua mi sembra la cosa più interessante che sia stata detta in merito; non solo: la trovo applicabile in tanti altri casi, gravi e meno gravi.
"Lei quindi sostiene che la malattia mentale non esiste, ma esistono i problemi che causano disagi, che a volte rimangono senza una soluzione.
È così. Non dobbiamo difenderci dietro lo schermo del disturbo mentale. Siamo sempre in presenza di un’incredibile malessere, di una persona che non si sente parte di questo mondo, che è in cerca di un posto, non si è sentito importante per qualcuno che stimava, con tanti fallimenti e delusioni alle spalle e per cui nessuno ha davvero fatto il tifo."
E' un discorso che non va di moda, perché accettarlo richiede molta onestà - quella di ammettere che il disagio è in ognuno di noi - e molto coraggio: quello di accettare che il disagio non è qualcosa che dobbiamo difendere, come se fosse la nostra identità più preziosa, ma che dobbiamo saper lasciar andare, voltandogli le spalle e combattendolo, appunto, con onestà e coraggio insieme. Ma anche senza alcun paravento né compromesso. Il disagio è un'autodifesa dal dolore che finisce con il distruggere chi vi si aggrappa.È così. Non dobbiamo difenderci dietro lo schermo del disturbo mentale. Siamo sempre in presenza di un’incredibile malessere, di una persona che non si sente parte di questo mondo, che è in cerca di un posto, non si è sentito importante per qualcuno che stimava, con tanti fallimenti e delusioni alle spalle e per cui nessuno ha davvero fatto il tifo."
"Quando è giusto intervenire con lo psicofarmaco?
Lo psicofarmaco è solo uno strumento. La sua prescrizione deve sempre rientrare in un progetto di recupero più ampio, che prevede un percorso di psicoterapia, di aiuto nella vita quotidiano e sul lavoro. Puntare tutto sulle medicine produce disastri. I medici di base sono addestrati dalle ditte farmaceutiche a prescrivere antidepressivi per i disagi più lievi. Ma è un errore."
E non va di moda anche perché fare questa operazione costa, e oggi si preferisce spendere per spianare le montagne ma non per alleviare le coscienze e ripararne i guasti: lì meglio tagliare, rimbambire di chimica lecita o illecita, sopire con il banale brusio di sottofondo delle macchine e dei consumi, un sospiro dolente e solo che richiede attenzione, lavoro, tempo, fatica, parole. Ma non consumo, non esibizione, non smart.
Iscriviti a:
Post (Atom)