Con l’età, è noto, si
diventa perversi e non pretendo certo di fare eccezione. Anni fa forse non
avrei accettato l’idea di ascoltare un Messiah di Haendel in cui la parte
musicale fosse così forzata come questo qui ad Oxford. Niente orchestra, solo
l’organo della chiesa St. Mary. Niente coro, tredici cantanti e un direttore
che si alternano nelle parti soliste e in quelle corali (qui probabilmente
siamo già più vicini alle prassi e agli organici dell’epoca, gli organici
monstre degli oratori haendeliani appartengono al troppo fragoroso XIX secolo,
secolo delle macchine). Arie distribuite tra più cantanti e anche se ciò può
giustificarsi con una soluzione drammaturgica della regia non mi ha divertito
più di tanto. Anzi m’è parsa una soluzione furbetta. E a me le soluzioni
furbette, cioè ammiccanti ma banali, piaccion sempre pochino. Inoltre affidare
un’aria a un registro grave ma femminile anziché maschile, ad esempio, riporta
è vero a una tradizione (sciagurata) del primo recupero haendeliano, quando si
affidavano ai baritoni e bassi le parti dei castrati, ma manda anche all’aria i
rapporti fra i timbri di voci e strumenti. Sembra servire più a far con quel
che c’è – ad esempio un contralto notevole al posto di un buon basso, nota dolente del canto inglese – che a servire un’idea musicale o
teatrale. Però la regia è ardita e divertente. Non tanto perché strizza
l’occhio al pop di quando in quando, quella è ovviamente la cosa meno riuscita.
Vediamo il resto. Palcoscenico è l’incrocio tra navata centrale e transetto.
Scene una pedana e dei panchetti di legno. Accessori dei piatti di carta
bianchi che fungono da aureole durante un coro. Niente luci. Niente trucco.
Tredici personaggi che potresti incontrare per strada un giorno qualunque, con indosso dal
completo con valigetta alla tuta in felpa. Indaffarati, indifferenti,
aggressivi, strafottenti. Ispirati, come una sorta di figlia dei fiori riconvertita in gonnellone
e scarpe da ginnastica o una beghina con la croce sul petto e uno straccio da
polvere in mano che lustra i banchi della chiesa. Tutti con una sorta di ossessione in sé. Supponenti, come uno scout con lo
zainetto. Incollati al cellulare… ecc. il direttore d’orchestra, in un angolo,
fa attaccare l’organo. I personaggi si trovano d’un tratto confrontati con la
musica e il testo haendeliano e lo recitano come se fosse parte di una storia personale che non conosciamo ma potrebbe essere quella di ogni persona qualunque. Che cosa c’è
di più teatrale? Invece di essere schierati sul palco immobili in visione
frontale per lo spettatore, si muovono, interagiscono, reagiscono a ciò che
fanno gli altri. Entrano in scena man mano i vari personaggi e i vari loro
caratteri, suscitando reazioni diverse negli altri: curiosità, ira,
accettazione, scatti, ammirazione, sottomissione, rifiuto, a seconda delle loro
attitudini sociali più o meno dominanti. Recitano sé stessi e insieme recitano
Haendel. Non male… perché in questo Haendel non ci sono certo personaggi definiti,
solo registri vocali. Prima di iniziare le prove il regista ha mandato a ogni
cantante una lettera con la biografia del personaggio che si apprestavano a
giocare: sul palcoscenico il contenuto delle lettere non viene mai esplicitato,
ovviamente, dato che va oltre il testo haendeliano, ma i cantanti sono invitati
a recitare un confronto: come se portassero sulla scena il bagaglio di vita e esperienze del
personaggio concepito dal regista dentro la musica e il testo. Del resto Haendel era un grande uomo di
teatro e nei suoi lavori non manca certo la forza drammatica che questo altro
regista ha saputo incanalare e sfruttare.
Vediamo così confrontarsi
e reagire una serie di caratteri assolutamente realistici e moderni ai momenti
cardine dell’oratorio haendeliano: l’annuncio dell’arrivo di Gesù, la morte e
il lutto, la resurrezione. In questa ultima parte la regia è senz’altro più
debole, è quella che più si avvicina al pop e al déjà vu, con tutti vestiti di bianco che si sorridono e si
abbracciano. Ma le prime parti sono davvero molto belle a vedersi e a sentirsi. I cantanti hanno una perfetta disinvoltura scenica, non hanno bisogno
quasi di guardare il direttore d’orchestra il quale dal canto suo, lungi dal
confinarsi in pedana, si sposta, li segue, si mette in disparte, lasciandoli
discretamente in primo piano. I cantanti hanno una formazione sicuramente
classica, ma una recitazione assolutamente non standard. Peraltro gli attori inglesi, soprattutto teatrali, sono a lungo stati di una disinvoltura perfetta. Il farli girare per la
navata, avvicinando i loro corpi agli spettatori è dunque estremamente
coinvolgente. Forse può derivare dal musical, benché qui non ci sia, per fortuna,
nulla del finto e artefatto che i musical trasmette (almeno quello che si vede nei film hollywoodiani, perché a teatro non ho mai avuto l'opportunità di vederne). La spazializzazione del coro all’interno della chiesa è
fenomenale, perché tredici cantanti lungo una navata fanno un effetto
stereofonico favoloso. La mancanza dell’orchestra aiuta a mettere ovviamente in
rilievo le voci indipendentemente dal loro reale volume (che non è il forte dei
cantanti anglosassoni). Inoltre gli
Inglesi non hanno forse grandissimi solisti, ma sanno molto bene cos’è cantare
in coro. I movimenti del coro quando canta insieme invece strizzano troppo l’occhio alle messe di
certe chiese USA e danno l’aria di essere un po’ fuori posto. Il regista John
Ramster, dice di aver voluto avvicinarsi all’oratorio come a una meditazione
sulla fede, personalmente l’ho trovata soprattutto una osservazione sui tipi
umani e sui meccanismi di interazione. Nel momento in cui qualcosa, una
narrazione o altro che sia, coagula le persone tra di loro, la loro attitudine
e percezione del mondo può cambiare profondamente.
Dopodiché gli Inglesi si
alzano davvero per ascoltare l’alleluja – diciamo il 90% - che qui è cantato
alzando i pugni – devo capire da dove viene questa idea, probabilmente dal pop:
dallo stadio? Dalla discoteca? Dal musical? perché dubito che il senso sia
quello da corteo -; può essere interessante e più facile ascoltare il Messiah
in una versione come questa, del resto le opere e gli oratori al momento della
loro composizione erano veramente aperte a tutti i pastiche e le parodie
possibili, la sacralizzazione avviene in epoca romantica, quindi la
sperimentazione, purché intelligente, ci sta; però usciti da lì, comprarsi
subito una bella registrazione con la musica come Haendel l’ha scritta e
ascoltarsela tutta di nuovo.
Una goduria!
Haendel è il compositore barocco che preferisco. Al tempo la sua musica era considerata un po' come le nostre canzonette odierne; niente di strano quindi se durante l'esecuzione ci sia stato qualche ammiccamento al pop. Beata te che hai potuto assistere a questa rappresentazione!
RispondiEliminaAndrea che piacere scoprire un altro appassionato! La rappresentazione meritava in effetti. Magari le canzonette odierne avessero un decimo di quella complessità, quell'invenzione melodica, timbrica, ritmica, orchestrale, vocale! Altro che i bassi automatici dei sintetizzatori e la mezza ottava scarsa dei cantanti!
RispondiEliminaPremesso che la ricerca è sempre benvenuta, tuttavia non sempre porta a buoni risultati.
RispondiEliminaConfondere i registri, nel Messiah, non è una grande idea: non è un caso che Haendel abbia deciso di usare il soprano solo nel nuovo testamento (il che vuol dire sostanzialmente che il primo terzo dell'oratorio è danzato fra i tre registri più bassi ed il coro). Il coro poi, in ogni oratorio, ha un senso scenico e strutturale, è la riflessione, la meditazione. E' vero per il Messiah, e poi Bach lo portò ai massimi livelli.
Pasticciare con le forme solo per l'intenzione di stupire in modo facile non credo sia un'innovazione. Come tu hai detto, forse solo una furbatina ;)
Infatti quel che dico e che i registri non andrebbero toccati mai a posteriori, perché non possiamo assolutamente essere consapevoli di tutto quello che volevano esprimerci gli autori. Le forme può essere interessante, se fatto con intelligenza. Ma anche in quel caso, sempre meglio non credersi troppo geniali...
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