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Toulouse en érasmienne

domenica 26 agosto 2012

Ferragosto con griglia

Il motto della giornata, il ritornello dei giorni precedenti, la bandiera orgogliosamente sventolata verso quel di Ferragosto dalla mia amica Stella era: "Le donne possono fare tutto". Sì, certo ci mancherebbe. Tutto cosa? Perché Stella quando parla in genere ha un motivo che le frulla in testa. Stavolta il motivo era: due signore giunte e passate oltre rispetto all'età della ragione, riusciranno a portare avanti la tradizione del Ferragosto? Prive di famiglie, la sua cresciuta, la mia mai nata, sole e felici in una casa sui monti (sua), memori di tanti anni passati al seguito di familiari più o meno chiassosi, che il 15 d'agosto armavano il più classico degli ambaradam da commedia italiana a base irrinunciabili di pic nic faraonici, schiamazzi e stramazzi, come avrebbero celebrato la tradizione stavolta, di nuovo insieme dopo sei anni?  Premettiamo che per noi la tipica impresa è portarci in uno zaino leggero un goccetto di grappa fin su qualche cima per celebrare un'eclissi, parlare ininterrottamente facendoci milleduecento metri di dislivello un po' erto, gettarci ululando per il freddo (io) in qualche laghetto alpino nuotando senza dargli importanza (lei), la questione che si poneva era: ma come si fa un barbecue? Anzi "il" barbecue per eccellenza delle nostre vite, vale a dire quello di Ferragosto? L'impresa era sempre stata delegata, ahi femminile disonore, al lato maschile: suo marito e mio zio, ormai non più disponibili sottomano... ma insomma di quella grigliata Stella aveva proprio voglia: e della tradizione e della salamella, anch'io.
Per far le cose perbene, due come noi non potevano che partire in verticale, nel senso letterale della parola. "La valigetta è lassù", fa lei additando sconsolata la porta del soppalco che chiude uno spicchio di sottotetto della sua casa dai soffitti altissimi. Già perché Stella è una forte camminatrice, mille volte più di me, ma soffre di vertigini. E poi non ama i ragni ( io invece ci vado a nozze, si sa, e pare che i ragni invece adorino quel ripostiglio). Stella trovami una scala acconcia e te la prendo io la valigetta, ma a che cosa serve? Beh non vorrai mica fare un fuoco dove capita e incendiare tutto il Trentino? Per carità, io incendierei chi fa male al Trentino, l'unico pezzo d'Italia che riesca a sopportare. Così quatte quatte andiamo a rapinare la scala di sua sorella, una come si deve, da muratore e io vado a disturbare l'intimità di 45 coppie di ragni in due metri quadrati per scaricare giù dalla scala una valigetta nera che fa molto piani segretissimi della guerra atomica, se solo non fosse che dà nell'occhio perché al solo sfiorarla partono tutti i clin clang della scala dodecafonica e soprattutto è molto, molto piena di ragnatele. Aggiungiamoci un sacchetto di carbone già mezzo aperto che neanche la Befana e i duri cominciano a giocare.
Il posto è quello dell'ultima volta (dopotutto si tratta di celebrare la tradizione prima ancora del resto), quando griglia e tutto erano stati dimenticati e si era cucinato nel modo che preferisco: tutti intorno alle braci con uno stecco in mano. Gli stecchi flessibili e freschi erano stati fabbricati lì per lì, nell'emergenza, da qualcuno che se n'è andato, ma sono legati al mio cuore e alla mia memoria, purtroppo sei anni non sono bastati a staccarli né a rifarli.
Se non altro qui siamo sul greto di un fiumicello e non dovremmo dare fuoco a granché, che già di piromani volontari e non imbranati l'Italia non manca. La prima scena imperdibile era stata però dal macellaio del paese. Tra pasciuti clienti ambosessi la nostra ordinazione: 4 costine e una braciola - no due/no una - che le salamelle le abbiamo già, era finita d'ufficio negli annali della cronaca a futura memoria da parte di tutti gli astanti, mentre attorno a noi partivano speck e carré interi, arrosti da qualche chilo, collane di salami e pentole di spuntature. Ma dopotutto siamo solo due, con due soli stomaci. E nel cestino infilo anche melanzane, zucchine, pomodori, pesche (cose da donne, no?). 



Il posto è quello solito, Stella che è padrona di casa di lunga esperienza, sfodera con mano sicura la famosa valigetta che si rizza d'incanto su quattro piedini, la pianta tra i graniti con la disinvoltura d'una vera montanara,



impugna le settimane enigmistiche senza schema degli ultimi sei anni conservate all'uopo - senza schema perché le altre non sono abbastanza divertenti, ovvio -  e si dà all'accensione di tutte le scorte di fosforo dal '18 in poi. Io che sono non solo più imbranata, ma anche più pigra, rimpiango di non avere una scorta di balistite diavolina come si deve, ma lei con fastidio fa: "non serve". Il parere non è però condiviso dalla carbonella che soffia via senza infiammarsi tutti i cruciverba senza schema che a lei evidentemente fanno un baffo.



Il fatto è che nessuna di noi ha mai prestato attenzione a come si fa un fuoco: ci mancano le basi, la teoria, la pratica, l'epistemologia, il metodo, lo stage, il training, il progetto e la manutenzione. A essere sincera ci sono sempre sembrate operazioni troppo lunghe e noiose rispetto alla gioia di godersi la luce il calore le fiamme e le leccornie. Ma le donne possono fare tutto, no? Allora, mentre lei insiste con opportuna ostinazione nell'irrisolto indovinello di accendere carbonella per enigmi, io chiamo a raccolta tutto quello che ho mai letto intorno ai fuochi che nella mia infanzia fiammeggivano sempre dai rami resinosi... e direi che siamo anche nel posto giusto, perché se una cosa non manca in Trentino sono i legni resinosi. Con tutti i soldi che ho speso per darti un'istruzione, mi direbbe la mia prozia, una sorta di manico di scopa la cui conversazione faceva piegare in due chiunque le passasse accanto nel raggio di cinque miglia. Così io mi improvviso, con fede, provveditrice di microramoscelli ben secchi, che un ramo di abete bianco e uno di rosso hanno avuto la magnifica idea di venire a seccare proprio lì e lei diviene fuochista attenta e sudata.
Ovviamente non può mancare un'eco a contante imprese: un teutonico di passaggio decide di provare su di noi la sua nuova telecamera e armeggia per circa mezz'ora con pose equivoche nella nostra direzione. "Mi dà un fastidio, quello lì" sbotta la fuochista disturbata nella sua concentrazione. Chissà come usciremo dagli archivi Deutschland, nere di carbone e con le scintille intorno. Poi la palla passa al lato italiano, che intanto s'è fatto quasi mezzodì e i turisti fanno due passi per prepararsi al pranzo nel ristorante poco lontano. Arriva un quartetto lombardo-pugliese di mezz'età e si siede sui sassi: "Difficile eh,?" esordisce il capofamiglia n. 1, semipelato e con l'aria di chi ha sempre qualcosa da dire. "Ma volete accendere il fuoco?" si assicura una delle consorti, piuttosto affannata. "Sapete cosa? Dovreste prendere quella cosa, come si chiama? La diavolina, no? Non la conoscete?" viene generosamente in soccorso l'altra, mentre il quarto sogguarda il fiume con torva impazienza, in silenzio. Mentre fuochista e provveditrice raddoppiano i loro sforzi, perché non si può mica perdere la faccia ora, e soprattutto non si può ammettere di avere una fame da morire e una rabbia ancor più grande all'idea di tornarcene con le braciole ancora nel sacco, il capofamiglia n. 1 concede, magnanimo: "Ci piacerebbe farvi compagnia, ma sa, forse è il caso di preferire il ristorante: ci aspettano". Ma prego, è il pensiero delle due selvagge. Bruciano, ma non accendono, borbotta intanto la fuochista del mio approccio letterario al pino, scatendanomi una gran voglia di contestazione. Ah sì?
Comincio ad armeggiare nel sacco del cibo, perché dai miei disprezzati ramoscelli si levano fiammate già di tutto rispetto e al diavolo, mangeremo bruciato ma non crudo, penso. Dispongo tutto sulla griglia e appena le salamelle si sono un po'scaldate, il fuoco parte ovviamente arzillissimo in un grande abbraccio. Olio sul fuoco, no?









Ne approfittano anche le zucchine e le melanzane tutt'intorno. Ma non abbiamo né olio né sale, protesta Stella ormai incontentabile nel suo perfezionismo. Importa davvero? Gastronomicamente parlando, la scoperta - o  la conferma - di questa giornata è: no, assolutamente no. A parte che io metto già poco sale e poco olio in generale, ma con buoni ingredienti e questa tecnica di cottura non se ne sente davvero il bisogno. A distrarre la perfezionista dalle immagini bibliche del condimento arriva la soddisfazione. "Sta venendo, sta venendo": dopo circa due ore di soffi, sbuffi, baruffe il fuoco forma le sue brave braci. Sì, le donne Stella possono fare di tutto, anche un fuoco improvvisato con ostinazione e reminescenze letterarie... non è forse il colmo della più deliziosa perversione? Consapevole di questo risultato, e dell'aver spazzolato, nell'ordine, salamella, costine, braciola, verdure e formaggio ammorbidito sulla brace, la fuochista si lascia andare su un tronco in pose da Babette alla fine del pranzo con un bicchiere di vino in mano.
Io, intanto, mi preparo una pesca in tono col resto del pranzo:




appena scottata, succulenta. La tradizione è salva.

La contestazione, pure.
Non ho potuto immortalarli, ma eccoli arrivare: un quartetto di bravi figlioli con l'aria del milanese parvenu in caricatura. Pantaloni e maglietta appena usciti da un negozio di abbigliamento sportivo, scarpe da ginnastica bianche senza nemmeno un'ombra, Iphone branditi come un'arma, e totalmente smarriti all'idea di mettere il piede sulla luna, vale a dire il greto di un ruscelletto semi in secca data la stagione. Il più audace dei giovanissimi decide con sprezzo del pericolo di portare la sua bella sull'altra sponda per farsi fare una foto dai due rimasti indietro e colpiti dalla quasi sconvenienza dell'impresa. L'operazione si compie come se si stessero attraversando i fiumi tibetani in piena al momento del disgelo. Quando gli elementi danno tregua e ci scappa qualche occhiata che solo l'educazione potrebbe far definire perplessa verso le due marziane che evidentemente siamo, la voglia di provocazione prende il sopravvento. Ho l'aria di una squatter: brassière, pantaloncini stinti, scarponi scoloriti, (dato che non son andata a un défilé) ma vivaddio due passi sui sassi d'un fiume li so ancora fare. Scalza, attraverso  a metà il ruscelletto e data la giornata caldissima anche lì, il fuoco, la sudata e la mangiata, cosa faccio? Mi lavo! Vale a dire, mentre i 4 annaspano e sospirano barcollando in bilico su cinque cm d'acqua, mi sdraio letteralmente nel ruscello come se ci volessi fare le flessioni dentro e mi getto acqua ovunque, dai capelli alle caviglie. Che sollievo! indovino più che vedere le facce inorridite dei bravi ragazzi: se prima eravamo marziane ora siamo, sono, una via di mezzo tra una zingara e un non so nemmeno cosa. Una cosa pericolosa, comunque. :-) 





P.S.: ora sono partita... ma l'ultima immagine è quella della valigetta lustrata dalle mani di Stella che riposa sul pavimento del bagno per asciugarsi bene. E l'ultimo ricordo quello delle mie valli amate.


degli amici:


dei boschi, dei monti, dei colori:





e infine della nuova moda di quest'anno: il mitico "modello Oetzi"!




Vero Francesco, Massimo, Paolo, Massimiliano? ;-)
A presto.

sabato 11 agosto 2012

Aggiornamento: Luglio falcia le messi al solleone

Aggiornamento: vengo a sapere che altre decine di migliaia di persone comuni (per ora quasi 76.000) hanno sottoscritto la lettera scritta dai magistrati in solidarietà con  Roberto Scarpinato, procuratore generale presso la Corte d'appello di Caltanissetta.

"Chi ha memoria storica e consapevolezza culturale sa che la storia del nostro paese è anche la storia dei poteri criminali che ne hanno condizionato lo sviluppo sociale, politico ed economico.Chi ha una coscienza morale e professionale e il coraggio di non rassegnarsi a quello che è accaduto e accade nel nostro paese ha il dovere civico di associare il proprio impegno professionale e culturale alla difesa intransigente dei valori costituzionali [se dovessi consigliare una lettura estiva comincerei da qui] e di opporsi al rischio di un progressivo svuotamento dello statuto della cittadinanza , che lasciando spazio al crescere di una cultura della sudditanza, determina il degrado del vivere comune a causa del proliferare di sopraffazioni, arroganze e cortigianerie interessate. (...) E' il dovere della verità e della conoscenza ciò che qualifica la statura etica della persona, qualunque sia la sede o il contesto in cui si concretizza la sua esistenza. La verità e la giustizia insite nella coscienza, nel coraggio, nell'impegno di ogni cittadino non possono essere fonte di equivoci o divenire espressione di un sapere egoistico in quanto socialmente limitato. Esse devono invece manifestare il pregio della chiarezza, della trasparenza, del riconoscimento, anche ricordando quanto la fatica giurisdizionale ha accertato nell'interesse primario del sapere collettivo. (...) Le parole (...) sono state anche esempio di adeguatezza comunicativa: hanno assolto al dovere di comprensibilità verso chi ha meno presidi cluturali [le sue sì, le vostre magari un po' meno, signori ;-)], senza abbassare il sentimento di autentica giustizia che troppe volte viene eluso preferendo la comodità del linguaggio autoreferenziale dei pochi, insensibile al desiderio di conoscere e crescere culturalmente dei molti. Il suo discorso non ha seguito la celebrazione del "mito"... (...). Il discorso di Roberto Scarpinato, a nostro parere, merita di essere diffuso, nelle istituzioni e nelle scuole, tra i cittadini onesti ed impegnati. A titolo di merito per chi ha ricordato un pezzo della nostra storia con la credibilità del proprio passato. (...) C'è necessità di parlare con quella che i Greci chiamavano parresia, ovvero con la libertà e il dovere morale di chi non teme di urtare la suscettibilità di alcuno perché non prevede di aver benefici o debiti nei confronti del Potere. (...)". 

Ecco, se dovessi spiegare perché io me ne voglio andare da questo paese, oltre a ragioni professionali non poi così aliene da una certa "mafiosità" in senso lato, il contesto culturale delineato dai magistrati in questa lettera ne spiega la maggior parte. Il degrado progressivo e costante del vivere comune. Le sopraffazioni piccole e grandi.  La necessità sempre violata di una giustizia che è anche sapere collettivo, coscienza, memoria, storia, cui tutti devono poter arrivare.
E inoltre, francamente, io non voglio vivere dove le persone scomode vengono sciolte nell'acido. O seppellite nel cemento che ha distrutto gli aranceti della Conca d'oro per lasciar posto a casermoni disperati. Non voglio, quando vado al mercato rionale a comprare la verdura, parliamo di cucina sì, dover pagare i begli, innocenti, gustosi pomodoretti per la ricetta sfiziosa del blog del giorno a questo prezzo.

Tutto questo crea miseria nel nostro paese. Aumenta le storture sociali. Diminuisce le risorse anche per l'istruzione, la cultura, la ricerca, perché fa sì che una massa sempre più grande di gente diventi sempre più povera, non potendo lavorare né produrre reddito in un'Italia dominata da pizzo e ricatti. E la miseria aumenta l'ignoranza e l'ignoranza la sudditanza. Spesso quando dico che voglio emigrare per sempre, la risposta che mi arriva è: "Eh, ma se tutti se ne vanno come si fa a..." Ecco, magari si può cominciare col non lasciare soli chi qualcosa fa, e non si limita a esortare. Per questo, io, ho aderito alla lettera dei magistrati. E ovviamente non ho fatto niente. Solo un click.

mercoledì 8 agosto 2012

Luglio falcia le messi al solleone: 19 luglio 2012

Può piacere o no. Ad esempio io mi ritrovo poco nella parte retorica del suo linguaggio. Non che sappia sempre corteggiare con successo l'understatement, ma la mia retorica è un po' diversa.
Può piacere o no, dicevo. Ma ad ogni modo un uomo così meriterebbe solo di diventare ministro. Perché ha il senso, chiarissimo, della parola "servire". E ministro vuol dire "servitore". Un tempo del sovrano, ora dei cittadini e della civile convivenza. Invece oggi, Italia Europa 2012, quest'uomo rischia provvedimenti disciplinari e trasferimento d'ufficio. Oltre al tritolo, ma quello l'aveva già messo nel conto. Perché? Proviamo a leggere fino in fondo questa lunga lettera, che dice veramente tutto su cosa sia la realtà neanche troppo nascosta dell'Italia, quale sia, ancora e sempre, la solitudine di chi la vorrebbe diversa:


L’intervento di Roberto Scarpinato, procuratore generale della Corte di Appello di Caltanissetta, letto alla commemorazione per i 20 anni dell’assassinio di Paolo Borsellino, con il quale ha lavorato fianco a fianco nel pool antimafia.

Caro Paolo,
oggi siamo qui a commemorarti in forma privata perché più trascorrono gli anni e più diventa imbarazzante il 23 maggio ed il 19 luglio partecipare alle cerimonie ufficiali che ricordano le stragi di Capaci e di via D'Amelio.
Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà.
E come se non bastasse, Paolo, intorno a costoro si accalca una corte di anime in livrea, di piccoli e grandi maggiordomi del potere, di questuanti pronti a piegare la schiena e a barattare l'anima in cambio di promozioni in carriera o dell’accesso al mondo dorato dei facili privilegi.
Se fosse possibile verrebbe da chiedere a tutti loro di farci la grazia di restarsene a casa il 19 luglio, di concederci un giorno di tregua dalla loro presenza. Ma, soprattutto, verrebbe da chiedere che almeno ci facessero la grazia di tacere, perché pronunciate da loro, parole come Stato, legalità, giustizia, perdono senso, si riducono a retorica stantia, a gusci vuoti e rinsecchiti.
Voi che a null’altro credete se non alla religione del potere e del denaro, e voi che non siete capaci di innalzarvi mai al di sopra dei vostri piccoli interessi personali, il 19 luglio tacete, perché questo giorno è dedicato al ricordo di un uomo che sacrificò la propria vita perché parole come Stato, come Giustizia, come  Legge acquistassero finalmente un significato e un valore nuovo in questo nostro povero e disgraziato paese.
Un paese nel quale per troppi secoli la legge è stata solo la voce del padrone, la voce di un potere forte con i deboli e debole con i forti. Un paese nel quale lo Stato non era considerato credibile e rispettabile perché agli occhi dei cittadini si manifestava solo con i volti impresentabili di deputati, senatori, ministri, presidenti del consiglio, prefetti, e tanti altri che con la mafia avevano scelto di convivere o, peggio, grazie alla mafia avevano costruito carriere e fortune.
Sapevi bene Paolo che questo era il problema dei problemi e non ti stancavi di ripeterlo ai ragazzi nelle scuole e nei dibattiti, come quando il 26 gennaio 1989 agli studenti di Bassano del Grappa ripetesti: Lo Stato non si presenta con la faccia pulita… Che cosa si è fatto per dare allo Stato… Una immagine credibile?… La vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni”.
E a un ragazzo che ti chiedeva se ti sentivi protetto dallo Stato e se avessi fiducia nello Stato, rispondesti: No, io non mi sento protetto dallo Stato perché quando la lotta alla mafia viene delegata solo alla magistratura e alle forze dell’ordine, non si incide sulle cause di questo fenomeno criminale”. E proprio perché eri consapevole che il vero problema era restituire credibilità allo Stato, hai dedicato tutta la vita a questa missione.
Nelle cerimonie pubbliche ti ricordano soprattutto come un grande magistrato, come l’artefice insieme a Giovanni Falcone del maxiprocesso che distrusse il mito della invincibilità della mafia e riabilitò la potenza dello Stato. Ma tu e Giovanni siete stati molto di più che dei magistrati esemplari. Siete stati soprattutto straordinari creatori di senso. 
Avete compiuto la missione storica di restituire lo Stato alla gente, perché grazie a voi e a uomini come voi per la prima volta nella storia di questo paese lo Stato si presentava finalmente agli occhi dei cittadini con volti credibili nei quali era possibile identificarsi ed acquistava senso dire "Lo Stato siamo noi". Ci avete insegnato che per costruire insieme quel grande Noi che è lo Stato democratico di diritto, occorre che ciascuno ritrovi e coltivi la capacità di innamorarsi del destino degli altri. Nelle pubbliche cerimonie ti ricordano come esempio del senso del dovere.
 Ti sottovalutano, Paolo, perché la tua lezione umana è stata molto più grande. Ci hai insegnato che il senso del dovere è poca cosa se si riduce a distaccato adempimento burocratico dei propri compiti e a obbedienza gerarchica ai superiori. Ci hai detto chiaramente che se tu restavi al tuo posto dopo la strage di Capaci sapendo di essere condannato a morte, non era per un astratto e militaresco senso del dovere, ma per amore, per umanissimo amore.
Lo hai ripetuto la sera del 23 giugno 1992 mentre commemoravi Giovanni, Francesca, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio  Montinaro. Parlando di Giovanni dicesti: “Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato”. 
Questo dicesti la sera del 23 giugno 1992, Paolo, parlando di Giovanni, ma ora sappiamo che in quel momento stavi parlando anche di te stesso e ci stavi comunicando che anche la tua scelta di non fuggire, di accettare la tremenda situazione nella quale eri precipitato, era una scelta d’amore perché ti sentivi chiamato a rispondere della speranza che tutti noi riponevamo in te dopo la morte di Giovanni.
Ti caricammo e ti caricasti di un peso troppo grande: quello di reggere da solo sulle tue spalle la credibilità di uno Stato che dopo la strage di Capaci sembrava cadere in pezzi, di uno Stato in ginocchio ed incapace di reagire.
Sentisti che quella era divenuta la tua ultima missione e te lo sentisti ripetere il 4 luglio 1992, quando pochi giorni prima di morire, i tuoi sostituti della Procura di Marsala ti scrissero: “La morte di Giovanni e di Francesca è stata per tutti noi un po’ come la morte dello Stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso che non ce la faremo, che lo Stato in Sicilia è contro lo Stato e che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello Stato”.
Missione doppiamente compiuta, Paolo. Se riuscito con la tua vita a restituire nuova vita a parole come Stato e Giustizia, prima morte perché private di senso. E sei riuscito con la tua morte a farci capire che una vita senza la forza dell’amore è una vita senza senso; che in una società del disamore nella quale dove ciò che conta è solo la forza del denaro ed il potere fine a se stesso, non ha senso parlare di Stato e di Giustizia e di legalità.
E dunque per tanti di noi è stato un privilegio conoscerti personalmente e apprendere da te questa straordinaria lezione che ancora oggi nutre la nostra vita e ci ha dato la forza necessaria per ricominciare quando dopo la strage di via D’Amelio sembrava – come disse Antonino Caponnetto tra le lacrime – che tutto fosse ormai finito.
Ed invece Paolo, non era affatto finita e non è finita. Come quando nel corso di una furiosa battaglia viene colpito a morte chi porta in alto il vessillo della patria, così noi per essere degni di indossare la tua stessa toga, abbiamo raccolto il vessillo che tu avevi sino ad allora portato in alto, perché non finisse nella polvere e sotto le macerie.
Sotto le macerie dove invece erano disposti a seppellirlo quanti mentre il tuo sangue non si era ancora asciugato, trattavano segretamente la resa dello Stato al potere mafioso alle nostre spalle e a nostra insaputa.
Abbiamo portato avanti la vostra costruzione di senso e la vostra forza è divenuta la nostra forza sorretta dal sostegno di migliaia di cittadini che in quei giorni tremendi riempirono le piazze, le vie, circondarono il palazzo di giustizia facendoci sentire che non eravamo soli.
E così Paolo, ci siamo spinti laddove voi eravate stati fermati e dove sareste certamente arrivati se non avessero prima smobilitato il pool antimafia, poi costretto Giovanni ad andar via da Palermo ed infine non vi avessero lasciato morire.
Abbiamo portato sul banco degli imputati e abbiamo processato gli intoccabili: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei Servizi segreti e della Polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi di vertice dell’economia e della finanza e molti altri.
Uno stuolo di sepolcri imbiancati, un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole, che affollano i migliori salotti, che nelle chiese si battono il petto dopo avere partecipato a summit mafiosi. Un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione i Riina, i Provenzano sarebbero stati nessuno e mai avrebbero osato sfidare lo Stato, uccidere i suoi rappresentanti e questo paese si sarebbe liberato dalla mafia da tanto tempo.
Ma, caro Paolo, tutto questo nelle pubbliche cerimonie viene rimosso come se si trattasse di uno spinoso affare di famiglia di cui è sconveniente parlare in pubblico. Così ai ragazzi che non erano ancora nati nel 1992 quando voi morivate, viene raccontata la favola che la mafia è solo quella delle estorsioni e del traffico di stupefacenti.
Si racconta che la mafia è costituita solo da una piccola minoranza di criminali, da personaggi come Riina e Provenzano. Si racconta che personaggi simili, ex villici che non sanno neppure esprimersi in un italiano corretto, da soli hanno tenuto sotto scacco per un secolo e mezzo la nostra terra e che essi da soli osarono sfidare lo Stato nel 1992 e nel 1993 ideando e attuando la strategia stragista di quegli anni. Ora sappiamo che questa non è tutta la verità.
E sappiamo che fosti proprio tu il primo a capire che dietro i carnefici delle stragi, dietro i tuoi assassini si celavano forze oscure e potenti. E per questo motivo ti sentisti tradito, e per questo motivo ti si gelò il cuore e ti sembrò che lo Stato, quello Stato che nel 1985 ti aveva salvato dalla morte portandoti nel carcere dell’Asinara, questa volta non era in grado di proteggerti, o, peggio, forse non voleva proteggerti.
Per questo dicesti a tua moglie AgneseMi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”. Quelle forze hanno continuato ad agire Paolo anche dopo la tua morte per cancellare le tracce della loro presenza. E per tenerci nascosta la verità, è stato fatto di tutto e di più.
Pochi minuti dopo l’esplosione in Via D’Amelio mentre tutti erano colti dal panico e il fumo oscurava la vista, hanno fatto sparire la tua agenda rossa perché sapevano che leggendo quelle pagine avremmo capito quel che tu avevi capito.
Hanno fatto sparire tutti i documenti che si trovavano nel covo di Salvatore Riina dopo la sua cattura. Hanno preferito che finissero nella mani dei mafiosi piuttosto che in quelle dei magistrati. Hanno ingannato i magistrati che indagavano sulla strage con falsi collaboratori ai quali hanno fatto dire menzogne. Ma nonostante siano ancora forti e potenti, cominciano ad avere paura.
Le loro notti si fanno sempre più insonni e angosciose, perché hanno capito che non ci fermeremo, perché sanno che è solo questione di tempo. Sanno che riusciremo a scoprire la verità. Sanno che uno di questi giorni alla porta delle loro lussuosi palazzi busserà lo Stato, il vero Stato quello al quale tu e Giovanni avete dedicato le vostre vite e la vostra morte. 

E sanno che quel giorno saranno nudi dinanzi alla verità e alla giustizia che si erano illusi di calpestare e saranno chiamati a rendere conto della loro crudeltà e della loro viltà dinanzi alla Nazione.



Bene. Adesso pensiamo a qualche ministro recente che sempre con le nostre tasse abbiamo stipendiato e pure pensionato - nel senso di pagargli i contributi per la pensione che come si sa loro ottengono dopo due anni di onorato servizio da parlamentare. Non so: Mara Carfagna? Mariastella Gelmini?  Michela Vittoria Brambilla? Qualcuno ha dei suggerimenti?
Ah, sì. Non è tanto recente, ma Pietro Lunardi, ministro delle infrastrutture nel 2001 a mio giudizio rimane indimenticabile. Una sola frase celebre: "Con la mafia bisogna convivere": con DiCo o senza?  Dettaglio che non lo è: il ministro delle infrastrutture non è un ministro qualsiasi, particolarmente quando si parla di mafia (e anche di appalti e di tutto ciò che vi ruota intorno). La mafia trae la propria ricchezza per la maggior parte dagli appalti delle opere pubbliche: cioè pagate con le nostre tasse (per chi le paga ovviamente, ma questa è un'altra storia). Il ministro delle infrastrutture ha un enorme potere nell'indirizzare le opere pubbliche, quindi l'enorme quantità di denaro a loro destinato, e nel sorvegliarne la realizzazione. Forse Lunardi era davvero, per l'Italia, l'uomo giusto al posto giusto. E Scarpinato? Per ora lo difendono alcuni suoi colleghi. Dopo le vacanze, a settembre, il Consiglio superiore della magistratura deciderà se  parole come quelle di cui sopra meritano una punizione. Aperta o, ciò che sarebbe peggio, nascosta.

giovedì 2 agosto 2012

Summertime

Poche canzoni sono così disperate come questa. Un'espansione tragica e lirica in un'opera, Porgy and Bess, traboccante di miseria, povertà, sopraffazione, alcolismo, tossicodipendenza, distruzione e sconfitta. Certo la raffinatissima esecuzione operistica cui siamo abituati, di Fitzgerald, con quei fiati lunghissimi accompagnata da Armstrong con una tromba da brivido lo fa passare in secondo piano.
Forse tutto questo esce meglio dall'interpretazione di un'altra grandissima: Billie Holiday. Che dei ghetti e della miseria ne sapeva qualcosa fin nel midollo. Soprattutto che ha cantato questo brano quando era stato appena scritto, nel 1936, con tutta l'atmosfera ritmica e musicale di quegli anni.


Una mamma canta la ninna nanna al suo bambino raccontandogli un mondo bellissimo e felice di sogno che né lei né lui conosceranno mai. Avulsa dal suo contesto la canzone diventerà una delle tante incarnazioni del sogno made in USA.
Mentre Ella&Louis

E queste le parole:

Summertime,
And the livin' is easy
Fish are jumpin'
And the cotton is high

Your daddy's rich
And your mamma's good lookin'
So hush little baby
Don't you cry

One of these mornings
You're going to rise up singing
Then you'll spread your wings
And you'll take to the sky

But till that morning
There's a'nothing can harm you
With daddy and mamma standing by.

Tutte le volte che si parla di Billie Holiday non posso fare a meno di ricordare anche questa canzone. Credo anzi di averla già postata. (Attenzione, la parola finale è "crop", raccolto, non "cry", pianto, grido. Che ci sta molto meglio nell'antiretorica spietata del testo.)

Quando proprio è il momento di fare i sentimentali, questa. Anche lei piuttosto crudele. Peraltro un modo elegantissimo di additare al ludibrio perpetuo un marito decisamente non alla sua altezza.

Un'altra delle mie passioni. La metto qui, perché come Holiday con Strange fruit ha cantato questo pezzo poco prima di morire, in un'interpretazione sconvolgente. Ma non riesco a trovarla sul web.


Buona estate.