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Toulouse en érasmienne

domenica 30 dicembre 2012

Donne, anzi Intelligenze




In un post mai pubblicato descrivevo le donne che più ammiravo, cui guardavo come modelli. Quasi tutte erano scomparse da tempo, oppure caratteri immaginari. Tra quelle del nostro tempo e del  nostro mondo,  c'era lei. Ovviamente, verrebbe da dire. Quindi che rabbia, all'inizio, e che tristezza poi, nell'apprendere da questo post la sua morte, serena, però, oggi 30 dicembre. Ma fino a ieri sera, sabato 29, ha sempre continuato a studiare.
Era nata lo stesso anno del mio nonno, il 1909. Così immediatamente copio qui sotto le poche righe che avevo scritto allora, quindi parlandone al presente. Invidiando moltissimo la splendida immagine che non riesco purtroppo a inserire qui (e di mie non ne ho). Aggiornamento: Firefox non voleva saperne, ma sempre grazie al soccorso gentilissimo de Ilmondoatestaingiù  ho provato con Chrome e per questo ora il suo saluto campeggia lassù...

Rita Levi Montalcini: ha compiuto recentemente 103 splendidi anni. Auguri! Lei non sopporta che si parli dei suoi abiti. Ha ragione. Anche lei è un Nobel. In Italia tra le prime donne laureate iniziò a fare esperimenti scientifici cercando il materiale (uova) in giro in bicicletta per le colline piemontesi durante l’occupazione nazista e la Repubblica di Salò, scantonando, lei ebrea, tra una retata e una bomba. Scoprì il fattore di crescita delle cellule nervose. Subito dopo la guerra andò a fare ricerca negli USA, passando le vacanze con altri simpatici matti a campeggiare nei canyon del Colorado. Ho avuto la fortuna di parlarle circa quindici anni fa. Dire della sua intelligenza lucidissima, rapida, pieghevole, sarebbe superfluo. Capii che non mi vedeva (anche se come Marie Curie aveva una tecnica raffinatissima per evitare di scoprirsi), ma sentii in lei un interesse bruciante per la persona che aveva davanti. In teoria avrei dovuto essere io a porle delle domande, ma lei voleva capire tutto di me, chi fossi, cosa facessi, che prospettive avessi per il mio futuro, cosa mi piacesse, cosa leggessi, cosa sapevo e cosa non sapevo. Parlammo di letteratura francese (ovviamente la leggeva in originale), di romanzi d’avventura, dell’Italia e dei problemi del lavoro, oltre che dei suoi libri. La rividi da lontano, una volta, entrare nella Biblioteca Nazionale di Roma come una diva sul tappeto rosso, con i fotografi che le si inginocchiavano davanti per rubarle un primo piano tra i lampi dei flash. Bellissimo. Un’ultima volta sullo sfondo del Colosseo, stavolta insieme a Oscar Luigi Scalfaro, il quale con la consueta efficace retorica parlava di certi assenti che son nati per leccare le scarpe.
"La scoperta di NGF - spiegò oltre trent'anni più tardi il comitato Nobel a Stoccolma assegnandole il premio assieme al collega Stanley Cohen - è l'esempio di come un osservatore acuto riesca a elaborare un concetto a partire da un apparente caos". Ecco il più bel complimento che si possa fare a un'intelligenza.


martedì 25 dicembre 2012

Beatrice

"Elle était votre ancrage comme vous etiez le sien."
F. H.-V.

Dal 2004 il Natale non è più stato lo stesso. L'anno prima, in quella baraonda che era sempre stato nella nostra grande casa all'ottavo piano, con l'albero che odorava di resina e di bosco nordico, mi ero ritrovata seduta vicino accanto a lei. I suoi bei novantadue anni non le toglievano l'appetito, anzi le avevano stuzzicato una voglia di brindisi che non aveva mai manifestato nell'età della ragione. Il (futuro) marito di mia mamma, il quale da bruon toscano arrivava sempre con qualcosa da mescere, era puntualmente apostrofato in merito alla presenza della indispensabile bottiglia. Gli anni, la mancanza di bambini e la sempre minore disponibilità economica in una famiglia di tutti salariati (non dimentichiamo che in Italia siamo ancora fermi ai valori del 1993, data l'assenza di qualsiasi meccanismo di indicizzazione reale contemporanea ai tagli dei servizi pubblici che comporta maggiori uscite per chi non ne può più usufruire), avevano reso i nostri doni più un dovere in equilibrio insostenibile con il  necessario risparmio che una sorridente manifestazione di piacere nel dare e nel ricevere quello che esattamente era nei pensieri dell'altro. L'oggetto per l'hobby, l'opera preferita, il libro non ancora letto, il tassello mancante nel guardaroba o nella casa, la sorpresa, il piacere. Non ci siamo mai regalati cose di grande valore, ma soddisfare i piccoli desideri dei nostri cari ci stava a cuore e ci dava soddisfazione. Ma stava diventando impossibile.
Lei ormai ai doni non era più interessata granché. Ma vederci tutti insieme  le piaceva, sia pure per non troppo tempo. Così quella sera eravamo sedute vicine e chiacchieravamo e io l'aiutavo a prendere o tagliare là dove non arrivava più. Per anni avevamo passato Natale in quella stanza. Il grande buffet che ora ho raccolto nella mia piccola casa veniva trasformato in presepio pieno di muschio. Le statuine erano della fine degli anni Trenta, e solo a mezzanotte si metteva l'ultimo personaggio. L'albero con ancora qualche palla dell'epoca, verde oro o rossa. I fili d'argento. Una grande sensazione di attesa felice, voci, suoni, cose buone, sorrisi, eccitazione, pacchetti. E grazie a mia madre, che non apprezzerò mai abbastanza per questo, niente bugie di Babbi Natale inesistenti a cui promettere di comportarsi bene per avere in cambio regali (bel mercato educativo!). Che poi a ben guardare, a Milano, da dove veniamo, i regali, come saggiamente dice la canzone, li porta il bambino, ma i soldi li spende la mamma. Un bel modo, secondo me, per godere il rito, ma restando consapevoli che è un rito, senza raccontare falsità. Ancora più a nord arriva la slitta di Lucia che porta la luce. A Roma c'è la Befana con dolci di vari colori. Babbo Natale (sarà toscano?) sembra quasi un intruso, come i mostricini di Halloween.
  Questi i Natali della mia infanzia, zie zii, cugini, nonni, tutti insieme a cucinare, apparecchiare, impacchettare, spacchettare, ridere, mangiare, chiacchierare, rigovernare, fare tardi nella notte fredda, partire carichi di buste magiche, come raramente può accadere in una grande città.
Il Natale successivo lei non ci sarebbe stata più. La sua casa nemmeno, la casa dove avevo passato i primi otto anni della mia vita, l'unica casa che abbia davvero sentito mia (a parte una in cui sono stata solo pochi mesi, ma è un'altra storia). Senza più avere accanto i miei amatissimi nonni, Natale non sarebbe più stato lo stesso. Piuttosto che viverlo senza di loro, lo abolii.  Cioè preferii passare il Natale in una famiglia diversa e lontana, dove cominciare a costruire nuovi riti per una nuova storia. Portando un solo dono per il banchetto collettivo che aveva luogo accanto al fuoco, magari realizzato da me (e giuro, risparmiando in stress diversi anni di vita!).
Così come ogni anno a Natale lei non c'è. L'affetto più puro e generoso che abbia mai conosciuto. Oh, non era tenera la mia nonna! Non si sbrodolava certo in smancerie. Ma aveva una tensione di affetto e di vita in ogni suo gesto come forse mai ho ritrovato. Era riservata, quasi timida, ma spalancava sorrisi a chi, magari incontrato casualmente, la attirava in una conversazione, per quanto strana. La ricordo, mentre ero piccolissima, lei che non accendeva mai una radio, sulla piazza di Vigevano, guardare sorridendo un ragazzino che le spiegava di aver messo su una radio libera con un gruppo di amici e le faceva ascoltare in cuffia la loro prima pubblicità promozionale. O attaccare bottone sulla strada per il supermercato, uno dei pochi posti in cui andasse e dove ricevevo da lei le prime lezioni di economia domestica e educazione civica (l'altro grande maestro era mio nonno, per strada e in automobile). Ricordo i pacchetti pesanti di pasticcini comprati sottocasa infilatimi nella cartella quando partivo per la scuola, da lei che un dolce per tutta la sua infanzia poverissima quasi non aveva saputo cosa fosse. Ricordo gli abbracci forti e le ore passate a farmi ripetere le tabelline. Aveva una testa matematica la mia nonna. Non da ragioniera, da logica che averbbe voluto coltivare. Dopo il diploma magistrale, preso con i geloni sulle mani e i piedi, perché a Milano faceva freddo, ma soldi per il carbone non c'erano in quella famiglia dove il padre era partito carico di debiti di gioco, portando con sé perfino il denaro per pagare la levatrice quando lei nacque. E la madre era partita di testa per il dolore, alla morte della primogenita, una morte mai capita, un'infezione trascurata perché mancavano i soldi, e forse le medicine giuste, e in ospedale ci era arrivata viva, la piccola, con un foruncolo sul labbro, ma poi non gliel'avevano più mostrata, e quando le sorelline la rividero dopo pochi giorni aveva intorno alla testa una fasciatura che gliela copriva tutta. Loro non avevano mai saputo perché.
E il primo che s'azzarda a dire che dobbiamo ridurre l'assistenza sanitaria perchénoncelapossiamopermettere lo mangio crudo come un finocchio in pinzimonio, tacessero almeno, farisei di morte.
Dopo il diploma magistrale, dicevo, lei avrebbe voluto iscriversi a matematica. Ma la bisnonna si era opposta: una donna a matematica, non stava bene. Lettere, poi fare la maestra. E alla Cattolica, non altrove. Lettere aveva cominciato, ma soprattutto doveva anche lavorare, e ben presto  lasciò. Poi un marito molto amato, amico d'infanzia, sei gravidanze e quattro parti e due pasti al giorno e sei bucati a settimana con il solo aiuto delle figlie, e una scuola tutti i giorni sei ore al giorno, e il marito, peraltro squisito e ben poco esigente, "che non è mai uscito di casa senza una camicia pulita e stirata ogni mattina."
Un matrimonio mandato in rovina perché dopo quattro parti, con dolore, e gli ultimi con nati di quattro chili, lei aveva cacciato il marito dal suo letto, ché la contraccezione, ovviamente, era peccato. O meglio aveva smesso di andare a letto la sera, addormentandosi su una sedia e mettendo avanti le faccende da sbrigare, con l'aiuto di endovenose di caffè. (Macinato a mano, il caffè. Da me, spesso. Nel macinino di legno con l'in granaggio metallico che profumava. Il caffè, che non mi è mai piacuto, è stato la prima cosa che ho imparato a preparare in cucina.) E lui mortificato, disperato: "Beatrice, non ti tocco, non ti tocco, vieni a letto". Ah, santi uomini di dio.
Già anziana aveva trovato un parroco che aveva cominciato a leggere la Bibbia con i fedeli. Lei non se ne perdeva una. L'ha letta tre o quattro volte, tutta intera. I nomi dei libri biblici li sapeva a memoria tutti. A casa ogni tanto la rileggeva.  Ha comprato, o s'è fatta regalare, quella della TOB che adesso ho io. Chissà se ha mai conosciuto anche queste  storie, a  cui quel parroco dopo cinque secoli tentava di porre rimedio. Perché cinque secoli fa, la Bibbia in Italia la leggevano in tanti, ciabattini e converse, tra vicini di casa e parrocchiane ferventi.
Poi è passata ai classici: francesi, russi, inglesi, tedeschi, i Grandi libri Garzanti li ha consumati, o più tardi ci ha ascoltato leggerglieli. La religione, una cosa lecita e reverenda, è stato il passaggio che ha permesso alla sua scrupolosità di ricominciare a coltivarsi, a prendersi cura di sé.
La telvisione invece non faceva per lei. A parte naturalmente l'ispettore Derrick, lo vedevamo tutti noi, peraltro.
Con me, con tanti, esigente, rigorosa, certo, ma generosa, attenta ai miei desideri, ai miei interessi. A dare senza mai apparire e senza mai credere. In affetto incondizionato e in effetti materiali. Come la cristiana profondamente credente che era, una delle poche che abbia incontrato. Per fortuna avevo una madre presente, che smussava certi effetti collaterali. Malgrado lei non lo ritenesse adatto, ho sempre potuto leggere di tutto, frequentare chi volevo. Ha conosciuto i miei amori più grandi. Ha letto la mia tesi di laurea. Era felice di ogni mia visita.
Un giorno di pioggia senza fine, d'inverno, l'ischemia. L'ospedale, dove la ricordo seduta sul letto, lo sguardo un po'appannato, cosciente, parlava sensatamente. I giorni, poi i mesi, passati sdraiata, con una flebo apparentemente di sola idratazione. Niente altro, mai altro. Poi il resto, la schiuma alle labbra, le vene che cedono, niente più vista, niente più parola. Le mani strette alla ricerca di un segno, le carezze per tentare stabilire un contatto. Una stanza piena di sole, per lei che diceva sempre "bello come il sole", ma lei non lo vede. La primavera che esplode e le rose che arrivano, ma lei che amava anche i fiori, non le vede. L'attesa nel silenzio, senza sapere cosa c'è di là, senza sapere se c'è paura, dolore, bisogno, senso di abbandono, desiderio. Senza sapere se e cosa si può fare, se semplicemente a quell'età il protocollo dice di non intervenire (ma altre patologie non ne aveva, "stava bene", se così si può dire) o cosa sia.  L'ultimo segno, involontario, volontario, chissà. Andavo da lei tutti i giorni, e una volta, in quel gran sole, le tenevo la mano e le parlavo. Arriva la visita per la vicina di letto, mi mandano fuori, ma lei non lascia la mano. Tento di sfilarla, ma lei la trattiene. Forte, come una volta quando nel salutarla l'abbracciavo. E io sono obbligata a dirle, perché mi mandano fuori, con impazienza: "Nonna, devo proprio andare è venuto il dottore per la signora. Lasciami, adesso. Devo andare, poi torno, però." E la mano pare allentarsi, ma quando ritorno non la ritroverò. Non c'è più nulla, solo quel cuore che "è forte" e lo sarà ancora, a lungo, finché cederà tutto il resto e ci sarà solo una bara, poi un'urna, con dentro le rose.
 
Adesso non posso più andare a trovarla, nella sua poltrona davanti alla finestra del balcone fiorito, dai gerani rossi o viola piantati dal nonno. E insomma, nonna, come te lo devo dire. Che scherzo mi hai fatto. Non sta bene. A una certa età, mica ci si comporta così. Nemmeno i gerani ci sono più.





giovedì 20 dicembre 2012

Mea culpa

No, non quella allegra e scanzonata di una canzonaccia da discoteca di qualche anno. fa. Quella proprio grave e seria di chi non ha più molte chances nella vita e ne butta via una, perché.
Per paura, innanzitutto. Paura che mi ha portato, inescusabilmente, a rimandare e non affrontare una certa pratica più complicata e impegnativa di quanto credessi eppure incredibilmente importante. Alla fine era troppo tardi e l'ho espletata, ma così male che non posso assolutamente sperare che vada a buon fine. Oddio, no, non era un posto di lavoro né una borsa di studio, solo un'abilitazione senza seguito con nessuna chance di sbocchi concreti e che posso ritentare il prossimo anno, come fanno in tanti. Ma sì, abbiamo il coraggio di dirlo, fa star meglio. Solo, sarebbe stato abbastanza  importante lo stesso. E invece. Invece ho fatto di tutto per perdere tempo, rimandare, perché mi agitava, mi sentivo inadeguata  e non sapevo come fronteggiare l'angoscia. Perché, stavolta sì per motivi indipendenti dalla mia volontà, e dalla situazione attuale, ciò che avrei dovuto usare per passarla, non era assolutamente adeguato.  Ma quello e solo quello avevo tra le mani.
Invece avrei dovuto smontarla pezzo per pezzo, l'angoscia, guardarla in faccia e arrampicarmici sopra. Proprio quello che rimprovero tante volte agli altri è quello che ho fatto io, fuggire l'angoscia invece di decifrarla e risolverla.

Da imparare. E fronteggiare. Anche questo fa star meglio. Oh, sì.
Speriamo di avere la capacità di tenere duro sul lungo periodo, serbando chiara questa coscienza acquisita.


Dopodiché in collaterale non sarebbe neanche male imparare che:
  1. inutile preculdersi ogni svago se poi si finisce a perder tempo su internet cercando... di svagarsi "per un attimo"
  2. inutile pensare di poter fare dieci giorni di vacanza dopo sostenuto una tesi di dottorato, mentre:
  •  ho scritto due articoli in una lingua che non è la mia, preparato quattro schede biografiche, ricominciato a lavorare-per-mangiare per sei mesi otto/nove ore al giorno e studiato il resto del tempo, dalle 7 del mattino alle ore piccole la sera, tenuto due conferenze e partecipato a tre incontri di progetti di ricerca
  •  vissuto in una casa che era un campo di battaglia, quando non era una cantina
  •  mangiato quello che riuscivo ad agguantare dove e come capitava
  • dormire quel che si poteva
  •  zero esercizio fisico
  •  zero svaghi o quasi - ma lì c'è anche una questione economica forte purtroppo -
e pensare di poter continuare con un altro articolo e l'abilitazione con tutte le scartoffie da preparare e redigere senza sbroccare da qualche parte. Quando non si hanno più vent'anni, decisamente.
E poi ho imparato che anche i pensieri gradevoli e "innocui" stroncano. Anche le fantasticherie su un incontro appena accennato e probabilmente senza concretezza (ma toccante tutte le mie corde più riposte e esigenti), di cui invece avrei davvero bisogno, indeboliscono. E per chi vive nella mia situazione questo non ce lo si può permettere.

Insomma pare proprio che io non riesca a non trovare un soggetto di studio in ogni dove, neanche mentre sono nello smarrimento della vergogna e della disperazione nera ;-)
purché riesca in fretta a trarne le conclusioni!

Spero solo di aver la possibilità di poter rimediare. (Perché a lei, per esempio, non sarebbe MAI capitato. Quindi si può!)
Lo vorrei davvero tanto.
E lotterò, forse più forte, per questo.

P.S.: che sia semplicemente il mio incontro faccia a faccia con l'alienazione??? ma quello che temo davvero è solo con i mulini a vento!

sabato 8 dicembre 2012

Arabia felix...

avevo proprio diteggiato su Google ormai due anni fa, in un momento in cui felix ma soprattutto felice non mi ritenevo proprio e attraverso lo schermo del mio piccolo portatile cercavo di agganciare legami con il mondo da una piccola stanza della città universitaria nella amatissima città di Tolosa. Come tutte le cose di cui si sa poco e che si intuiscono insolite, l'Arabia è un paese che mi ha sempre incuriosito e affascinato, di cui avrei da tempo voluto sapere di più. Spiattellati in quei pochi nanosecondi che impiega lui per rispondere, i primi risultati davano: "Arabafelice in cucina!" con tanto di punto esclamativo. Dev'essere stata la verve di quel punto esclamativo a convincermi: qualcosa di insolito e strano si annunciava di certo, ben più stuzzicante del risultato successivo che recitava qualcosa come le donne e Arabia come la segregazione non è segno di oppressione, ma permette di vivere la solidarietà tra donne... NO! Stop, riprogrammiamo, il relativismo culturale a questo soggetto, per carità. Meglio mangiucchiare una castagna lessa. Se l'avessi.
Ma dev'essere stato anche il connubio araboculinario a convincermi a cliccare su quel risultato per primo, perché sono sempre stata golosa e giotoncella e perché adoro la cucina arabeggiante (contrariamente alla cinese, per esempio). Così ho scoperto il blog dell'amica lontana e così sono qui adesso a raccontare cosa allora a prima impressione mi piacque di lei tanto da non farmene più staccare. E' stato in effetti il primo blog che io abbia seguito in maniera costante, senza mai pentirmene, e segua tutt'ora.
Troppe sono le cose che mi piacquero e mi piacciono di colei che è senza discussione la vera signora della blogsfera (anche non culinaria). La pulizia del blog, ad esempio, di primo acchito. L'equilibrio nei colori, la dominante bianca, la sobrietà nei font, la luce che esce dai colori delle sue foto, sempre solari, mai troppo laccate (ultimamente avrebbe dato il meglio di sé, ha decretato Il temutissimo adoratore), le categorie ben organizzate e il sorriso che si percepisce ovunque, anche nelle immagini provate mille e mille volte, ne sono certa. La discrezione infinita che le impedisce di fare una domanda persino se muore dalla curiosità (mai stata capace io di trattenerne una per un microsecondo). Quel misto di signorilità e misura oraziana che la governa, facendole trovare le parole per qualsiasi interlocutore e situazione mettendo in primo piano le parole, i ritmi, il tono, il discorso dell'altro, mai i propri (qualità che io non possiedo per niente e sanamente le invidio). La grata gentilezza affinata dall'educazione che le fa rispondere a una media di centosessanta commenti a settimana, e a visitare non voglio sapere quanti blog al giorno, al punto che alle volte si vorrebbe suggerirle di postare un salato solo per avere il diritto di respirare un po'.    
La sua onestà infinita. La sua incapacità di barare o anche solo di forzare una situazione per fini meno che limpidi, anche i più banali, innanzitutto per rispetto verso se stessa.
La determinazione a non subire prepotenze.
La precisione, l'ordine e il rigore che le fanno seguire al millimetro le ricette che saprebbe fare anche meglio a suo modo.  (Quanto vorrei averne un pochino anche io!) La capacità di riuscire a trovare il tempo per fare tutto in modo impeccabile. La costanza di non saltare mai un post, da due anni.
La vita felice e attiva, organizzata attorno alle piccole cose piacevoli e all'armonia affiatata che traspare dai suoi racconti più quotidiani, perché mai come nel suo caso, nomen omen. 
La sua Arabia. E qui, non posso dire altro.
Ma secondo me laggiù è diventata un mito. Anche se non sanno del blog, loro. I suoi colpi di sole entreranno nelle poesie e nelle canzoni e resterà nelle leggende arabe.

E tutto questo, Pellegrina, da un blog di cucina? Sì, da un blog di cucina. Nell'Arabafelice c'è tutto questo, basta leggerlo. Del resto infatti, dell'aspetto più personale della nostra amicizia, qui non parlerò. Sarebbe troppo facile :-) e non starei alle regole.
Buon compiblog, Arabafelice.

Per il buon compleanno, visto che anche il mio si avvicina ;-)

domenica 2 dicembre 2012

L'arte della fila



Sole. I Parigini escono tutti fuori a goderselo, con delizia. Siccome è domenica, qualcuno si dedica al bricolage (i Francesi sono formidabili bricoleur al punto che ci si chiede se da loro essere idraulico, falegname, elettricista garantisca guadagni). Mi fanno ricordare del mio nonno che però era lombardo, milanese per l’esattezza, e dei suoi cassetti nell’armadio dello sgabuzzino, l’uno dedicato ai chiodi, l’altro al materiale elettrico, un terzo ancora alle lamine: dalla carta vetrata al nastro isolante. Cose da noi ormai dimenticate: un romano che sappia aggiustare una sciocchezza in casa appartiene ormai a un paio di generazioni fa, oppure io non ho mai frequentato le persone “giuste”.

Qui nel frattempo si formano le ubique code. Code al mercato, aperto la domenica, unico e solo tipo di negozi autorizzati a farlo (e sono d’accordo). I marché fermier, cioè quelli dei piccoli produttori, in particolare sono una cosa splendida, anche se a Parigi sono meno diffusi e ghiotti che altrove. Ci trovi le pastinache, la rutabaga e i topinambur, le scorzonere e il sedano rapa, i croni e tante altre radici interessanti in questo periodo senza foglie. Radici che mantengono l’essenza del vegetale sulla terra e sulle nostre tavole, senza dover per forza acquistare  prodotti di serra al supermercato, come i pomodori rosé. E vorrei vedere, poveri pomodori, di che colore dovrebbero essere a dicembre? E perché dovremmo volerne mangiare per forza? Cavoli di tutti i tipi, colori e dimensioni, da farne un’antologia colorata. Choucroute profumata e adatta alle giornate gelide. L’artigiano (contadino o pizzicagnolo) qui ti spiega sempre come e quando mangiare quello che acquisti. Questo è per oggi, entro stasera. Questo domani. Questo tra due o tre giorni… e per scaldare la choucroute, magari quella profumata allo spumante e grasso d’oca (che sembra una roba da fighetti ma non lo è, anzi!), soprattutto non metta i wurstel nel microonde (raccomandazione superflua dato che non lo uso mai) e guardi bene che non diventi troppo secca, prima scaldi i cavoli in padella coperta, poi a parte le carni, poi li unisca mettendole sopra per non più di cinque minuti... 

Code davanti alle panetterie dove si vende la baguette calda lievitata naturalmente da mangiare tornando a casa, per cui sempre meglio comprarne almeno una in più. Code davanti ai ristoranti e ai baretti dei mercati, dove puoi mangiare uno splendido pasto dopo aver fatto la spesa o ad esempio a Tolosa profittare delle ostriche della non troppo lontana Charente con un bel bicchiere di vino bianco. Code per entrare nella metropolitana e per uscirne all’aria aperta. Code ovviamente intorno alla piramide di Pei nel cortile del Louvre (la realizzazione architettonica più bella della Parigi mitterrandiana che - ahimé – fu, les Trente glorieuses del servizio pubblico, della cultura, dello spettacolo resi più vicini e accessibili a tutti, la pensione a sessant’anni perché la vita non sia solo produzione e lavoro). E code per entrare alla Bibliothèque nationale che sì, è aperta in parte la domenica e dove tutti i ragazzini si danno appuntamento per studiare in un luogo bello e caldo, anche se troppo buio, ahimé. Per code intendo che all’una meno un quarto, intorno al grande rettangolo che costituisce il soffitto del chiostro della biblioteca ci sono due code, per due entrate, che ne fanno il giro. Le numerose coppie ne approfittano per annegarsi nelle braccia l’uno dell’altra. La sera ripartiranno a braccetto e sorridendosi nella notte.  Ore 13.00: le porte in basso si aprono. Quella lunghissima fila di ragazzini comincia a ondeggiare per scendere verso le porte lungo una passerella inclinata che permette il passaggio di una persona alla volta. Un guardiano distanzia i gruppi di persone che possono scendere di volta in volta. In fondo, una porta girevole, oltre la porta due persone al controllo delle borse e del metal detector. In venti minuti scarsi la fila è smaltita. A me ne toccano cinque supplementari perché vado in una sala molto richiesta dove trovo un supplemento di fila davanti agli ascensori (ancora una persona a gestirla) e ai tornelli di entrata (ultima persona). In meno di mezz’ora sono installata al mio tavolo, il pc è acceso, i libri presi dagli scaffali… e sarebbe anche il momento di smetter di perdere tempo prezioso e cominciare a lavorare, accidenti a me che poi piango che sono in ritardo. Qualche clochard o semplicemente qualche povero approfitta del luogo pubblico aperto per installarsi, con uno sguardo timoroso, timido e vergognoso negli occhi, sulle poltrone dei corridoi. Molti, non tutti, sono di origine magrebina o dell’Africa nera. Anche a loro fa bene stare in un luogo bello, relativamente caldo, foderato di legni e di moquette rossa e spessa, godere la vista del giardino anziché dei corridoi della metropolitana o dei marciapiedi.
Mi dispiace non avere un telefonino acconcio per rubare qualche immagine delle mille mie corse quotidiane.

Un’ultima cosa però mi prendo ancora il tempo di dire, che poi è la ragione per cui ho scritto questo post. Le file bisogna saperle fare (non ho sentito un sospiro, una parola, un’insofferenza che sia una, non ho visto nessun furbo che tentasse scorciatoie, tra centinaia di ragazzi neanche tutti ventenni), ma bisogna anche saperle organizzare. Cosa che qui sanno fare egregiamente. Ecco, per creare occupazione io investirei in organizzazione e formazione all’educazione civica. Guadagni? Prodotti da quantificare e smerciare, contando alla fine il proprio oro a mucchietti, forse pochi, ma civiltà e benessere sociale tanto, proprio tanto. A noi la scelta e ci toccherà presto.

sabato 17 novembre 2012

Serendipity

Forse non è la parola adatta per iniziare un post su Parigi, ma in questo momento è quella che mi viene in mente. Sono talmente frastornata che produrrò un post balbettante. Pazienza. Innanzitutto sarò banalissima, ma Parigi nel gelido umido di novembre, quando la Senna, la pioggia e le spesse nubi formano una luce grigio-verde, punteggiata dal nero dei tronchi degli alberi e dal giallo mattone e verde scuro delle loro foglie che inquadrano dal Pont des Arts Notre-Dame, l'Ile de la Cité, il Louvre, il Grand Palais e un pezzetto di Tour Eiffel farebbe disciogliere qualsiasi cuore. Quando poi in 72 ore hai due riunioni di progetti di ricerca con dei gran cervelli, in una delle più belle biblioteche del mondo che è anche quella dell'Académie française e passi il sabato a discutere di improbabili passioni umanistiche e vedi il tuo nome previsto in un convegno importante nel 2014 con questo solo preavviso cinque minuti prima della presentazione: "Non abbiamo fatto in tempo a dirtelo, ma speriamo che non ti dispiaccia, ovviamente se la cosa ti è sgradita rinunceremo al tuo prezioso contributo, scusaci", ti sembra di essere piombata nella terra dei marziani. E nessuno ha mai voluto sapere a chi appartieni, chi è il tuo relatore o nulla più, ma nemmeno sempre, di quale università frequenti. Addirittura un professore ti ha messo nero su bianco l'incredibile frase, mentre tu ti scusavi per aver chiesto qualcosa che sarebbe potuto apparire un'intrusione nel giardino privato dei rapporti con un altro docente: "Non si preoccupi assolutamente. Importa lei, non il suo relatore! Venga a fare un seminario da noi." (Ora, per chi non conosce la patria accademia sembrerà normale e logico, ma in realtà in rapporto all'Italia è una delle cose più inverosimili che possano capitare.) Semplicemente qui ti hanno conosciuto, parlato, sentito proporre. E sei felice, felice come una matta! Ridi e piangi e ti si aprono il cuore e l'anima.
Poi ti rendi conto che anche se oggi a pranzo con tutti gli altri ti sei spazzolata una fantastica tartiflette con il petit verre de vin d'ordinanza, malgrado il freddo, stai ricominciando dopo sei mesi a mangiare con ritmi e quantità ragionevoli, senza fame nervosa e ciò ti conferma ancora una volta in quello che già sapevi.
Quando pensi che per il 2014 hai già un altro impegno nello stesso posto (e apparentemente persino pagato) ti senti una specie di diva col calendario più che fitto e ti gira la testa e sogni solo di trasformare tutto questo in lavoro della vita, nella tua vita, di unire finalmente per sempre ciò che senti di essere e ciò che la tua condizione economica e origine sociale ti hanno obbligato a abbandonare un tempo e ancor oggi a conciliare con grande fatica e difficoltà anche spicciole piuttosto pesanti. Anche se, per quest'ultima cosa, ahimé, rien n'est moins sûr...
Poi vedi qualcuno dei dottorandi italiani presenti, la loro aria sempre cauta e timorosa, un filo servile, pensi che anche tu sei stata così, per quanto sempre esuberante e insofferente nell'animo e ti dici: ma viva due volte questo paese, in cui i docenti li guardi negli occhi, e parli di lavoro e di cultura e di scherzi, vivaddio, valeva la pena di fare una Rivoluzione per avere la dignità. (Ovvio che anche qui ci sono gli intriganti, quelli che si sanno vendere più di quanto sappiano fare e mille altre cose sgradevoli. Ma c'è anche altro, finalmente.)
Mon pays de coeur, se tutto andrà bene anche per la cosa su cui ho ancora con un filo di incertezza ma dovrebbe andare bene, sul Pont des Arts verrò a mettere anche io il mio lucchetto, con il nome di questa amatissima città unito al mio. E senza timer!!! (perché sui lucchetti del Pont ci sono anche quelli a tempo, ho scoperto). E lo ammetto, mi sono appena comprata un vestito rosso di fantastica lana caldissima e morbidissima (usato, ovviamente) che sta d'incanto con il grigio umido di questa città e mi avvolge dalla testa ai piedi nel suo tepore soffice.
Fine del post idiota.
Ritorno al lavoro che le Bibbie sono sempre lì, tra una riunione e un'emozione e l'altra.

giovedì 15 novembre 2012

Per "fortuna" non lo dico solo io...

... ma anche un ex-ministro dell'economia a quanto pare. Che una situazione del genere, anzi peggiore, l'ha già affrontata nel suo paese, l'Argentina.

"Non ci vuole un genio dell’economia per fare cassa tagliando salari pubblici e pensioni." Il giudizio di Roberto Lavagna non potrebbe essere più netto né più eloquente. 

L'Europa sta chiedendo alla Grecia e tra poco all'Italia, ciò che è stato chiesto all'Argentina dieci anni fa, spiega l'ex-ministro Lavagna: "La troika chiede ad Atene, e rischiate che tra poco chiederà a voi, le stesse cose che il Fmi chiese a noi dieci anni fa. Se l’avessimo seguito alla lettera, non ci saremmo mai più ripresi. In Argentina la prima richiesta del Fmi durante la crisi economica fu di ridurre le spese per i salari pubblici e per le pensioni del 13%. La prima richiesta fatta alla Grecia è stata di tagliarli del 14%. Noi avemmo il coraggio di dire no a richieste pressanti che ci arrivavano dagli organismi internazionali. Vi va male? Se seguite quelle richieste vi andrà peggio."

In soldoni, il suo discorso è: non si esce da una crisi con il taglio del welfare e degli impiegati pubblici, ma restituendo potere d'acquisto alla popolazione. Guardate la Grecia: dopo i tagli fatti e l'enorme massa di denaro investita, alcune banche hanno migliorato i loro debiti del 60%, mentre il debito pubblico e la popolazione sono allo stremo. E gli vengon chiesti ancora nuovi tagli. Con la quantità di denaro spesa si sarebbe potuta salvare una parte dell'economia al collasso. Si è scelto invece di proteggere alcuni settori di potere.
Il resto dell'articolo, ancora più illuminante, è qui.
Ricordiamocene, almeno quando andremo a votare. Ricordiamoci di chi sostiene l' "agenda Monti", pienamente d'accordo con ciò che viene dall'Europa.

mercoledì 14 novembre 2012

Q.E.D. (e non è una gnagna)

Figuriamoci se il problema sono 4000 stipendi non dirigenziali. (Basterebbe eliminare un po' di doppi incarichi e si farebbe prima, volendo. Sarebbe anche vagamente più etico, ma qui l'etica è optional.) No, queste sono le prove tecniche di concertazione di quello che ci aspetta dopo le elezioni.
La distruzione dello Stato in quanto servizio pubblico, lo smantellamento di ogni sua struttura, non solo del welfare. E le persone gettate sulle strade, salari e pensioni ridotti d'autorità non più pagati, l'assistenza sanitaria sparita, la disoccupazione ovunque inesorabile, la speculazione e l'arricchimento dei privilegiati, pure. L'arbitrio del più forte sovrano.
Dovremmo essere ormai avvisati e consapevoli. Il nostro futuro sono la Grecia e la Spagna, il Portogallo. Lì ci porta questo governo, nella ferocia sfrenata della disuguaglianza.
Ma dopo le elezioni, perché se no, come dice Angela Merkel, gli elettori potrebbero anche pensare di poter "penalizzare" le scelte della Libera Europa. E come dice Mario Monti, il governo deve saper educare il Parlamento.
E tanti ciechi e sordi non vedranno e non sentiranno.
E voteranno, sordi, e piangeranno, poi, insieme alle Cassandre, per loro e i loro figli.

Le tre cose che

Redigere un progetto di ricerca, scrivere un curriculum, sbrigare una pratica burocratica: forse le tre cose più ansiogene per la sottoscritta. Meglio riscrivere la Critica della ragion pura.
Finché non avrò finito, qui sarà una lagna perpetua. Anzi, stavolta una gnagna, come direbbe lei. (Non ho nemmeno il tempo di guardare i dolci natalizi scandinavi, che il clima qui non potrebbe essere più appropriato. Un gelidino umido che fa venir voglia di zuppe vino e spezie profumate :- ) ).
Per fortuna manca poco, se il diavolo non ci mette la coda.

giovedì 8 novembre 2012

Qualità

Sono la capostipite dei conigli.
A buon intenditor...
spero che abbiano pazienza (non i conigli, quelli che mi aspettano).
AAAAAHHHH!!!!
Urlo non oraziano. Neanche un po'.
E' che le Bibbie sono lunghe lunghe lunghe.
E io alle volte sono una gran perditempo. Per esempio adesso.
Meglio che torni alle cose serie.
AHHH!!!!
AAAAAAAHHHH!!!

venerdì 2 novembre 2012

Il piccione viaggiatore

Ecco, per me questa storia che spero sia vera, è la quintessenza di tutto ciò che mi elettrizza. Fossi a Bletchley Park ora starei facendo gli straordinari pure non pagati in giorno festivo, per capire cosa c'era scritto, da chi, quando è successo, perché, in quali condizioni, da dove poteva venire quel piccione se era arrivato in quel luogo e soprattutto dove siano finiti i cifrari - non posso pensare che i colleghi di JB se li siano allegramente persi e che Sean Connery non parta subito alla loro ricerca - e quali testimoni ci siano ancora della vicenda.
Spero di poter leggere fra qualche tempo un resoconto dettagliato di come si sia riusciti a ricostruire tutta la storia.  
Mmm sì, so benissimo di non essere normale. E' tanto più divertente :-)
E adesso è meglio che torni a studiare di corsa che di enigmi (in latino stavolta) ne avrei anch'io da decifrare.
P.S.: La mia mamma dice sempre che mi piacciono solo le cose morte da almeno duecento anni. Tutto sommato sto facendo progressi.

lunedì 22 ottobre 2012

sabato 13 ottobre 2012

La pace dei sepolcri


Pare che abbiano deciso di dare il Nobel per la pace all'Europa (?). Andrei piano nel considerare il nostro continente come un adepto della risoluzione pacifica dei conflitti di qualunque tipo, oggi. M'incuriosisce poi capire cosa ne verrà fatto del denaro del premio, che rispetto al bilancio della Commissione europea (siamo sugli 8 miliardi di euro ma ne vogliono ancora) e agli standard retributivi di chi ci lavora, forse serve a pagare un pic nic, ma tant'è. Magari potrebbero consacrarlo a mantenere il programma Erasmus, una delle rare iniziative europee davvero vicina alle persone anziché alle lobby, che ha probabilmente contribuito a stringere legami tra i cittadini dei vari paesi molto più di qualunque altra iniziativa. Forse i capi d'Europa avevano bisogno d'un po' di marchetta, pardon, di rifarsi un'immagine. Ma tutto ciò è secondario, difronte alla notizia che qualcuno, chissà se preso da ardore contabile, avrebbe pensato e fatto anche sapere in giro, che la Grecia, in nome del nuovo vitello chiamato pareggio del bilancio, dovrebbe evacuare le isole con meno di 150 abitanti: per lasciarle terra di nessuno, magari. Un giorno dovessero passare di lì i pirati cilici, qualche bandito internazionale, un ladro di plutonio...: un investimento davvero geniale. Ma non è nemmeno questo che mi sconvolge. No, non è questo il peggio.
In Europa l'ultimo a pianificare deportazioni del genere aveva un gran paio di baffi da scarafaggio e gli stivali lustri. Era nato in una terra dal vino generoso e aveva avuto il suo momento mistico.

Viviamo senza più fiutare sotto di noi il paese,
a dieci passi le nostre voci sono già bell’e sperse (...)
 Le sue tozze dita sono grasse come vermi
e le sue parole sicure come fili a piombo.
Se la ridono i suoi baffi da scarafaggio
e i suoi gambali scoccano neri lampi.
Intorno una marmaglia di gerarchi dal collo sottile
e si diletta dei servigi di mezzi uomini. (...)
 Come ferri di cavallo egli forgia e appioppa un decreto dietro l’altro,
all’inguine, in fronte, a un sopracciglio, in un occhio.
Ogni esecuzione, con lui, è una lieta
cuccagna ed un ampio torace di osseta.

 Iosip Mandel’stam - novembre 1933

Il nome dello scarafaggio letterario non è Gregor Samsa, anzi è un po' complicato da pronunciare per intero: Joseph Vissarionovich Dzhugashvili.
Aveva anche un soprannome, più facile se volete: Stalin.

P.S.: la notizia è stata smentita solo dopo diverse ore dal commissario europeo Olli Rehn. Il solo fatto che abbia potuto circolare, anche a scopo strumentale, intimidatorio o propagandistico che sia, la dice lunga su questi mezzi uomini che attorniano il capo dei nostri giorni tristi. Per inciso in Grecia, nel continente nobel per la pace, quello delle eccedenze di latte e pomodori, 400 mila bambini sono denutriti. Quattrocentomila. Una città di medie dimensioni.
Dopo le elezioni, arriveranno qui: gli stessi uomini, la stessa fame.
"Orrenda orrenda pace. La pace dei sepolcri. Questa è la pace che voi date al mondo" canta Rodrigo a Filippo II  nel don Carlos di Giuseppe Verdi. Sul frontespizio della tragedia di Friedrich Schiller da cui viene il libretto dell'opera c'era invece scritto "In tyrannos".

Un Nobel davvero ben speso.

giovedì 4 ottobre 2012

Postvague

Nella blogsfera (per quel che la frequento, non molto) i post vanno a onde. Che sia spirito di imitazione, di competizione o che semplicemente certi temi facciano riaffiorare ricordi e impulsi e prendere coraggio nel raccontarli, succede così. In certi momenti si parla con nostalgia di nonni, in altri si propaganda il riciclo; ogni tanto passa un'ondata di lagna. Il mio post oggi è un post di lagna, quindi si sa cosa aspettarsi.
Lagna nasce da angoscia? Lagna nasce da ansia, forse. Nell'ordine: ho scritto tre lettere, anzi quattro contandone una spedita da molto più tempo, in due paesi diversi e non arrivano risposte. Mi servono le risposte! C'è un pezzettino più o meno piccolo del mio futuro in ognuna di quelle lettere e qui io rabbrividisco nell'ansia di una splendida, climaticamente parlando, ottobrata romana. Poi ci sono due lettere personali che mi mettono ansia, una che ho scritto e una che devo scrivere. A paragone, però, è un'ansia molto piccola. Non sposterebbe situazioni consolidate, nel bene e nel male. Infine, ieri, in biblioteca Nazionale a Roma ho dimenticato il mio amato golfino a incrocio da mezza stagione, marroncino, bellissimo, di lana vera e foggia strana, su una sedia. Stamane ho telefonato, ma ovviamente "non l'avevano trovato". Ora in BNF a Parigi io ho lasciato sui tavoli, per ore, pc (ovvio), macchine fotografiche (perché lì essendo paese civile ti puoi fotografare da sola i libri fuori diritto d'autore, invece di salassarti e farti venire i capelli bianchi nell'attesa come succede da noi per far fare le foto al fotografo della solita ditta appaltatrice), stilografiche Mont Blanc, vestiti d'ogni sorta, persino portafogli... ogni volta sono tornata con l'ansia di trovare un vuoto al posto dell'horror vacui che è per antonomasia il mio tavolo, e ogni volta ho dovuto ricredermi: c'era sempre tutto. Sarà sciocco, ma quel maglioncino sparito mi mette di gran cattivo umore. Ecco.
Terza lagna: ennesimo lavoro da finire di ultracorsa (sono già in ritardo). Questa è una lagna seria: quando potrò vivere smettendo di essere scissa tra lavoro alimentare e vita? (Angoscia vera e non lagnosa: temo mai.) Quando il mio giro vita finirà di allargarsi per una frustrazione che da qualche parte deve uscire, dopo giornate di corse lavorative che iniziano con la sveglia alle 6.30 e si concludono alle 21.00? Anzi non si concludono, perché l'ansia del non-finito te la porti dietro anche quando arrivi a casa, e si mischia col bucato da ritirare e riporre (stirare? cos'è?), col letto da cambiare, con l'idea che almeno una volta a settimana il pavimento andrebbe (condizionale, sottolineo) fatto incontrare con l'acqua e sapone, con la cena da cucinare, soddisfatta già se hai ancora trovato il pane dall'unico fornaio decente, un macrobiotico che non lo fa surgelato con un chilo di lievito chimico per 30 g. di farina, bensì con la lievitazione naturale - sarebbe il suo mestiere, no? ma che per paura di non vendere mezzo panino lo finisce due ore prima della chiusura...
Quando tutte queste beghe si placheranno e eviteranno di farmi perdere tempo su internet invece di finire questi benedetti lavori che amo, ma a volte sembrano sovrastarmi e lasciarmi a mo' di bricioline di brisée o polverina di mandorle e farina da dolcetti spagnoli, con solo la sciocca tentazione di rimandare, anziché affrontare nuovo stress, ma la razionalità non può tutto senza le carezze.
Quando, se, la mia casella si riempirà di quelle prime piccole risposte forse andrà meglio. In genere il meglio arriva quando si hanno apprezzamenti e riscontri da fuori. E dopotutto questo dev'essere il motivo per cui tanta gente scrive post a degli sconosciuti affini e non affini, su internet. (O, ancora più triste, a nessuno. Qualche volta mi è capitato di vedere blog così, di gente disperata e persa nel nulla. E di sentirmi impotente e incapace difronte a tanto disagio.)
Ecco.
P.S.: a aver voglia di studiarci un po' su, la scrittura privata di tante persone è stata portata allo scoperto da internet. In parte ciò rivela la vera natura dei diari: sono fatti per essere letti, sono un tentativo comunicativo di sé. In parte permette un censimento curioso della scrittura femminile, ad esempio: temi, stili, livelli, elaborazione (probabilmente qualcuno lo ha già fatto). Confesso che i blog maschili li leggo meno, a parte qualcuno di attualità politica, perché li trovo in genere troppo aggressivi: a petto in fuori  - e pancia ben in dentro, ovviamente... In parte la forma del blog riporta e fa esprimere nella scrittura persone che non avrebbero mai tenuto un diario. Insomma interessante. Chissà che ne penserebbe costui una di quelle teste che vorrei avere la fortuna di incontrare con calma, un giorno.

domenica 26 agosto 2012

Ferragosto con griglia

Il motto della giornata, il ritornello dei giorni precedenti, la bandiera orgogliosamente sventolata verso quel di Ferragosto dalla mia amica Stella era: "Le donne possono fare tutto". Sì, certo ci mancherebbe. Tutto cosa? Perché Stella quando parla in genere ha un motivo che le frulla in testa. Stavolta il motivo era: due signore giunte e passate oltre rispetto all'età della ragione, riusciranno a portare avanti la tradizione del Ferragosto? Prive di famiglie, la sua cresciuta, la mia mai nata, sole e felici in una casa sui monti (sua), memori di tanti anni passati al seguito di familiari più o meno chiassosi, che il 15 d'agosto armavano il più classico degli ambaradam da commedia italiana a base irrinunciabili di pic nic faraonici, schiamazzi e stramazzi, come avrebbero celebrato la tradizione stavolta, di nuovo insieme dopo sei anni?  Premettiamo che per noi la tipica impresa è portarci in uno zaino leggero un goccetto di grappa fin su qualche cima per celebrare un'eclissi, parlare ininterrottamente facendoci milleduecento metri di dislivello un po' erto, gettarci ululando per il freddo (io) in qualche laghetto alpino nuotando senza dargli importanza (lei), la questione che si poneva era: ma come si fa un barbecue? Anzi "il" barbecue per eccellenza delle nostre vite, vale a dire quello di Ferragosto? L'impresa era sempre stata delegata, ahi femminile disonore, al lato maschile: suo marito e mio zio, ormai non più disponibili sottomano... ma insomma di quella grigliata Stella aveva proprio voglia: e della tradizione e della salamella, anch'io.
Per far le cose perbene, due come noi non potevano che partire in verticale, nel senso letterale della parola. "La valigetta è lassù", fa lei additando sconsolata la porta del soppalco che chiude uno spicchio di sottotetto della sua casa dai soffitti altissimi. Già perché Stella è una forte camminatrice, mille volte più di me, ma soffre di vertigini. E poi non ama i ragni ( io invece ci vado a nozze, si sa, e pare che i ragni invece adorino quel ripostiglio). Stella trovami una scala acconcia e te la prendo io la valigetta, ma a che cosa serve? Beh non vorrai mica fare un fuoco dove capita e incendiare tutto il Trentino? Per carità, io incendierei chi fa male al Trentino, l'unico pezzo d'Italia che riesca a sopportare. Così quatte quatte andiamo a rapinare la scala di sua sorella, una come si deve, da muratore e io vado a disturbare l'intimità di 45 coppie di ragni in due metri quadrati per scaricare giù dalla scala una valigetta nera che fa molto piani segretissimi della guerra atomica, se solo non fosse che dà nell'occhio perché al solo sfiorarla partono tutti i clin clang della scala dodecafonica e soprattutto è molto, molto piena di ragnatele. Aggiungiamoci un sacchetto di carbone già mezzo aperto che neanche la Befana e i duri cominciano a giocare.
Il posto è quello dell'ultima volta (dopotutto si tratta di celebrare la tradizione prima ancora del resto), quando griglia e tutto erano stati dimenticati e si era cucinato nel modo che preferisco: tutti intorno alle braci con uno stecco in mano. Gli stecchi flessibili e freschi erano stati fabbricati lì per lì, nell'emergenza, da qualcuno che se n'è andato, ma sono legati al mio cuore e alla mia memoria, purtroppo sei anni non sono bastati a staccarli né a rifarli.
Se non altro qui siamo sul greto di un fiumicello e non dovremmo dare fuoco a granché, che già di piromani volontari e non imbranati l'Italia non manca. La prima scena imperdibile era stata però dal macellaio del paese. Tra pasciuti clienti ambosessi la nostra ordinazione: 4 costine e una braciola - no due/no una - che le salamelle le abbiamo già, era finita d'ufficio negli annali della cronaca a futura memoria da parte di tutti gli astanti, mentre attorno a noi partivano speck e carré interi, arrosti da qualche chilo, collane di salami e pentole di spuntature. Ma dopotutto siamo solo due, con due soli stomaci. E nel cestino infilo anche melanzane, zucchine, pomodori, pesche (cose da donne, no?). 



Il posto è quello solito, Stella che è padrona di casa di lunga esperienza, sfodera con mano sicura la famosa valigetta che si rizza d'incanto su quattro piedini, la pianta tra i graniti con la disinvoltura d'una vera montanara,



impugna le settimane enigmistiche senza schema degli ultimi sei anni conservate all'uopo - senza schema perché le altre non sono abbastanza divertenti, ovvio -  e si dà all'accensione di tutte le scorte di fosforo dal '18 in poi. Io che sono non solo più imbranata, ma anche più pigra, rimpiango di non avere una scorta di balistite diavolina come si deve, ma lei con fastidio fa: "non serve". Il parere non è però condiviso dalla carbonella che soffia via senza infiammarsi tutti i cruciverba senza schema che a lei evidentemente fanno un baffo.



Il fatto è che nessuna di noi ha mai prestato attenzione a come si fa un fuoco: ci mancano le basi, la teoria, la pratica, l'epistemologia, il metodo, lo stage, il training, il progetto e la manutenzione. A essere sincera ci sono sempre sembrate operazioni troppo lunghe e noiose rispetto alla gioia di godersi la luce il calore le fiamme e le leccornie. Ma le donne possono fare tutto, no? Allora, mentre lei insiste con opportuna ostinazione nell'irrisolto indovinello di accendere carbonella per enigmi, io chiamo a raccolta tutto quello che ho mai letto intorno ai fuochi che nella mia infanzia fiammeggivano sempre dai rami resinosi... e direi che siamo anche nel posto giusto, perché se una cosa non manca in Trentino sono i legni resinosi. Con tutti i soldi che ho speso per darti un'istruzione, mi direbbe la mia prozia, una sorta di manico di scopa la cui conversazione faceva piegare in due chiunque le passasse accanto nel raggio di cinque miglia. Così io mi improvviso, con fede, provveditrice di microramoscelli ben secchi, che un ramo di abete bianco e uno di rosso hanno avuto la magnifica idea di venire a seccare proprio lì e lei diviene fuochista attenta e sudata.
Ovviamente non può mancare un'eco a contante imprese: un teutonico di passaggio decide di provare su di noi la sua nuova telecamera e armeggia per circa mezz'ora con pose equivoche nella nostra direzione. "Mi dà un fastidio, quello lì" sbotta la fuochista disturbata nella sua concentrazione. Chissà come usciremo dagli archivi Deutschland, nere di carbone e con le scintille intorno. Poi la palla passa al lato italiano, che intanto s'è fatto quasi mezzodì e i turisti fanno due passi per prepararsi al pranzo nel ristorante poco lontano. Arriva un quartetto lombardo-pugliese di mezz'età e si siede sui sassi: "Difficile eh,?" esordisce il capofamiglia n. 1, semipelato e con l'aria di chi ha sempre qualcosa da dire. "Ma volete accendere il fuoco?" si assicura una delle consorti, piuttosto affannata. "Sapete cosa? Dovreste prendere quella cosa, come si chiama? La diavolina, no? Non la conoscete?" viene generosamente in soccorso l'altra, mentre il quarto sogguarda il fiume con torva impazienza, in silenzio. Mentre fuochista e provveditrice raddoppiano i loro sforzi, perché non si può mica perdere la faccia ora, e soprattutto non si può ammettere di avere una fame da morire e una rabbia ancor più grande all'idea di tornarcene con le braciole ancora nel sacco, il capofamiglia n. 1 concede, magnanimo: "Ci piacerebbe farvi compagnia, ma sa, forse è il caso di preferire il ristorante: ci aspettano". Ma prego, è il pensiero delle due selvagge. Bruciano, ma non accendono, borbotta intanto la fuochista del mio approccio letterario al pino, scatendanomi una gran voglia di contestazione. Ah sì?
Comincio ad armeggiare nel sacco del cibo, perché dai miei disprezzati ramoscelli si levano fiammate già di tutto rispetto e al diavolo, mangeremo bruciato ma non crudo, penso. Dispongo tutto sulla griglia e appena le salamelle si sono un po'scaldate, il fuoco parte ovviamente arzillissimo in un grande abbraccio. Olio sul fuoco, no?









Ne approfittano anche le zucchine e le melanzane tutt'intorno. Ma non abbiamo né olio né sale, protesta Stella ormai incontentabile nel suo perfezionismo. Importa davvero? Gastronomicamente parlando, la scoperta - o  la conferma - di questa giornata è: no, assolutamente no. A parte che io metto già poco sale e poco olio in generale, ma con buoni ingredienti e questa tecnica di cottura non se ne sente davvero il bisogno. A distrarre la perfezionista dalle immagini bibliche del condimento arriva la soddisfazione. "Sta venendo, sta venendo": dopo circa due ore di soffi, sbuffi, baruffe il fuoco forma le sue brave braci. Sì, le donne Stella possono fare di tutto, anche un fuoco improvvisato con ostinazione e reminescenze letterarie... non è forse il colmo della più deliziosa perversione? Consapevole di questo risultato, e dell'aver spazzolato, nell'ordine, salamella, costine, braciola, verdure e formaggio ammorbidito sulla brace, la fuochista si lascia andare su un tronco in pose da Babette alla fine del pranzo con un bicchiere di vino in mano.
Io, intanto, mi preparo una pesca in tono col resto del pranzo:




appena scottata, succulenta. La tradizione è salva.

La contestazione, pure.
Non ho potuto immortalarli, ma eccoli arrivare: un quartetto di bravi figlioli con l'aria del milanese parvenu in caricatura. Pantaloni e maglietta appena usciti da un negozio di abbigliamento sportivo, scarpe da ginnastica bianche senza nemmeno un'ombra, Iphone branditi come un'arma, e totalmente smarriti all'idea di mettere il piede sulla luna, vale a dire il greto di un ruscelletto semi in secca data la stagione. Il più audace dei giovanissimi decide con sprezzo del pericolo di portare la sua bella sull'altra sponda per farsi fare una foto dai due rimasti indietro e colpiti dalla quasi sconvenienza dell'impresa. L'operazione si compie come se si stessero attraversando i fiumi tibetani in piena al momento del disgelo. Quando gli elementi danno tregua e ci scappa qualche occhiata che solo l'educazione potrebbe far definire perplessa verso le due marziane che evidentemente siamo, la voglia di provocazione prende il sopravvento. Ho l'aria di una squatter: brassière, pantaloncini stinti, scarponi scoloriti, (dato che non son andata a un défilé) ma vivaddio due passi sui sassi d'un fiume li so ancora fare. Scalza, attraverso  a metà il ruscelletto e data la giornata caldissima anche lì, il fuoco, la sudata e la mangiata, cosa faccio? Mi lavo! Vale a dire, mentre i 4 annaspano e sospirano barcollando in bilico su cinque cm d'acqua, mi sdraio letteralmente nel ruscello come se ci volessi fare le flessioni dentro e mi getto acqua ovunque, dai capelli alle caviglie. Che sollievo! indovino più che vedere le facce inorridite dei bravi ragazzi: se prima eravamo marziane ora siamo, sono, una via di mezzo tra una zingara e un non so nemmeno cosa. Una cosa pericolosa, comunque. :-) 





P.S.: ora sono partita... ma l'ultima immagine è quella della valigetta lustrata dalle mani di Stella che riposa sul pavimento del bagno per asciugarsi bene. E l'ultimo ricordo quello delle mie valli amate.


degli amici:


dei boschi, dei monti, dei colori:





e infine della nuova moda di quest'anno: il mitico "modello Oetzi"!




Vero Francesco, Massimo, Paolo, Massimiliano? ;-)
A presto.