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per gli scribi

Toulouse en érasmienne

lunedì 29 novembre 2021

Adaptation de Les illusions perdues

 E' un bel film.

Non ho letto il libro, la letteratura francese dell'ottocento per me va a buchi: Stendhal sì, Balzac no. Zola sì, Flaubert no. Certi autori proprio non fan per me. Quindi chi conosce e ama il testo potrebbe trovarlo estremamente deludente. Oltre ai tagli, i cambiamenti nella trama e nei personaggi sono notevoli, solo le prime due parti sono riprese e lo stile si avvicina di più a una biografia filmata di stampo USA. Ovviamente molte cose sono esplicitate rispetto a un testo ottocentesco oggi non più proponibile e probabilmente altre sono sottolineate, come il personaggio di Coralie, probabilmente poco più di un'ombra nel romanzo originario. Nel film diventa un personaggio a tutto tondo, forte e capace di iniziativa. L'attrice è scelta perfettamente per la parte, con un tocco di genuinità popolana e con un bel fisico paffuto e vivo, assolutamente non convenzionale.

Del film mi sono piaciute la delicatezza e l'indulgenza con cui guarda all'energia giovanile di un gruppo di ragazzi che cerca di costruirsi la vita che più ama in un mondo ostile e spietato, una certa crudezza nel non scolrire la brutalità dei rapporti di classe, il mostrare che le sconfitte non arrivano perché si è voluto troppo né per incapacità individuale, ma perché si è soli e si rifiutano i meccanismi di un regime economico predominante. Lo si può fare per una volta, come beau geste (la critica onesta che Lucien accetta di fare gratuitamente segna l'abbandono di un modello alla ripresa di una ricerca di altro che lo porterà fatalmente alla sconfitta), ma non costrircisi una vita stabile. Mi è piaciuta l'assenza di moralismo, e la scarsa parte data alla caduta di Lucien. Chissà poi se Balzac l'avrebbe davvero voluta, quella caduta senza speranza.

I vecchi negozianti benestanti, i vecchi mestieri artigianali dell'arte dei tipografi di provincia che Balzac conosceva bene stanno venendo soppiantati da nuove tecniche, prodotti e modelli produttivi in una società postrivoluzionaria in cui i rapporti tra gli strati sociali si stanno ridefinendo e dove aspirare a integrare modelli anacronistici rovina una vita che potrebbe svolgersi in modo ormai diverso. Questo apre spazi, ancora troppo asfittici per la riuscita di tutte le forze intellettuali di un paese in espansione, ma senza stato sociale a sostenerle.

Ovviamente è un film che vuole parlare all'oggi, e la sequenza che introduce la parte finale lo fa capire chiaramente con il linguaggio delle immagini che potrebbero rappresentare un sabato sera contemporaneo. Vuole parlare a una generazione, ormai la seconda ma in Francia forse la prima, che va venendo ripiombata suo malgrado in un modello economico di competizione e concorrenza - lo stato sociale e la piena occupazione abbattuti in ottemperanza alle nuove norme economiche UE. La Francia se lo era risparmiato finora, ma adesso sta toccando a lei.

E' un film sulla giovinezza, dove gli attori sono giovani davvero e spesso assai belli, e sull'amicizia - si è sconfitti quando si è soli. Sulla prostituzione intellettuale e fisica, sui piccoli bagordi che riscaldano con un'illusione di cameratismo, i ritmi di una vita da sciupare nella produzione di denaro che basta appena a sostenerli, non a dare stabilità e soddisfazione profonde. 

Più che un adattamento del romanzo lo definirei un'attualizzazione che sfrutta le coincidenze economico-ideologiche delle due epoche. Il regista utilizza il film e un registro popolare di film, per parlare dell'oggi. La Restaurazione del libro diviene la restaurazione del liberismo economico: e la generazione dei ventenni in cerca del futuro vi si trova confrontata, mentre i più anziani ve la spingono con compiacimento. I vecchi del regime prerivoluzionario hanno ripreso il controllo, sfogano il loro revanchismo e il loro sadismo, sui più poveri e sulle donne del loro ambiente, alla ricerca del predominio economico e sociale.

Il libro è ambientato durante la Restaurazione - si evocano del resto le restrizioni della libertà di stampa che potrebbero ricordare la prima ordinanza di Saint-Cloud, ma è scritto in piena monarchie de juillet, il film ha qualche ancronismo che lo pone tra le due epoche. Entrambe si chiusero con una rivolta che cambiò la storia di Francia. Che questo popolo determinato, fiero e consapevole, ricco di analisi e di immaginazione, di intelletto e rigore, di gusto riesca oggi a fare altrettanto contro la minaccia di una vita sempre più misera che le scelte politiche di una spietata Restaurazione economica, in cui l'Italia è ormai affondata da decenni, paiono riservargli.

 

lunedì 15 novembre 2021

Mario A G

 Ancora un risveglio in piena notte. Ancora parole che si agitano nella mente rapendo preziose ore di sonno, senza essere fissate su uno schermo o sulla carta, perché la mattina svaniscono e la notte mi esorto a riposare. Ma con esse svanisce anche ogni possibilità di concentrazione, lasciandomi in un sonno diurno a occhi aperti e annebbiati. Quante volte nelle mie notti parole così nascono mentre perdo i miei giorni più belli e preziosi invano. Per fortuna le strette di angoscia di un mese fa si allentano sempre più, adesso che ho scritto e parlato.

Ma resta ancora qualcosa che si agita domandando confusamente e convulsamente di essere fissato. Male, perché la scrittura è confusa, i motivi affastellati. La precisione, l’efficacia della trasmissione, un sogno. Sto traversando un curioso mare, una distesa di acque paludose come i marais del Cotentin, un percorso strano, invisibile nel viaggio come nella meta. Nulla vedo intorno a me di certo, non so dove vado, so della pressione del tempo che finirà ben presto e che da un punto di vista della vita attiva, sto perdendo. A volte sento frammenti di desiderio, spunti che mi spingono a minuscole azioni gratuite, solo perché mi va. Comprare un mazzo di fiori autunnali, le ultime rose e calle di strani colori affondate in un mucchio di foglie sempreverdi, desiderare una bicicletta, andare a leggere al sole. Imboccare una strada piuttosto che un’altra, gratuitamente, per il puro piacere di seguire una spinta istintiva. Riconoscere e dare spazio a questi barlumi, acchiapparli. Affiorano come segni di vita in una landa informe. Avrei bisogno di più tempo per ritornare a fiorire (se pur queste parole non stridono con la realtà) ma tempo non ce n’è. Tra due settimane dovrò  lasciare questa casa, il cui senso di protezione, nonché il fatto di essere una delle due uniche che ho potuto davvero scegliere in vita mia - e ne ho cambiate tante: sei da bambina, poi la prima dove sono andata uscendo da casa, quattro mentre abitavo al nord, di cui ho davvero scelto solo l’ultima, meravigliosa e antica, un’altra al ritorno, otto in Francia, di cui l’ultima è questa, la seconda che abbia davvero scelto. Diciannove case, ogni volta da ricreare, quasi mai da scegliere, bisogna adattarsi: più di così è impossibile fare, non ci sono i soldi. Presto ce ne sarà un’ottava, per poco più di un mese soltanto. Poi dovrò tornare, il lavoro da fare non fatto, un passo avanti contro l’angoscia forse sì e non piccolo, ma avrei bisogno di tempo e di serenità per ricostruirmi dopo essere forse, spero, non oso dirlo, uscita dalla tormenta dell’inferno, e fare emergere quel che è in me dandogli infine una forma. Mi dico che in qualche modo sono convalescente di una strana malattia, ma mi sento ugualmente in colpa.

Mia madre in quel caso non era esterna, estranea. Non aveva approvato il gesto, ma l’autore si. « Sai, aveva bevuto, poi me lo ha detto, gli dispiace, si è scusato », rispose, quando in un tentativo di parlare che sentii a posteriori inutile, le spiegai perché non avevo voglia di dire buongiorno al signore. Ancora confusione, ne parlerò nel prossimo post.

Mario, quello dell’altro post. Voce sonora senz’accento e senza enfasi, educata, statura media, abiti eleganti, magro e dritto, modi distinti e formali, distaccato, ragionevolmente istruito, familiare alla cultura più che colto, direi oggi e coglievo allora, capelli bruni e lisci, bella testa, labbra piene, sempre ben rasato, curato, consumi costosi. Un privilegiato, chiaramente, anche se ignoro la sua estrazione. In s é aveva una violenza rattenuta, come un rancore enorme e represso, palesato nel veleno pervasivo, viscido, trasversale, allusivo, opaco, sottilmente colpevolizzante con cui si esprimeva. Conversare era fare a botte con le parole anziché con gli schiaffi, mai per sviluppare un ragionamento, sempre per umiliare l’altro, brillantemente, schiacciandolo sotto le lucide scarpe, facendo aleggiare un educato stupore se avesse colto un lamento di quel che avrebbe chiamato « vittimismo ». Avrei ritrovato gli stessi modi in altri figli di buona famiglia. Mai a quel livello di compiacimento e di gratuita ferocia apparentemente serena, priva di enfasi come di imbarazzo, di chi si è limitato a enunciare l’ordine naturale delle cose a qualcuno troppo debole per accettarlo, per comprenderlo o per conformarvisi. Rivolta inane. Soddisfarsi non nel sviscerare un soggetto, ma unicamente al colare del sangue di qualsiasi interlocutore, come se fosse un avversario da veder steso ai propri piedi, per poterlo contemplare con freddezza prima di allontanarsi. Non esistevano neanche parole gratuite o utilitarie. Solo quello scopo c’era, in qualunque interazione. Anche quando arrivava con una bottiglia di champagne, o un vasetto di meravigliosa marmellata di fichi verdi che portò due volte, sembrava guardarci non lieto del dono, ma disprezzando i destinatari che lo festeggiavano. Era solo un altro modo di mostrare la propria superiorità e di incatenarci a una sorta di intrinseca malvagità, per me difficile da capire e da spiegare ma che in qualche modo sentivo scorrere sotterranea, sempre presente. Non ricordo di averlo mai visto fare un gesto di spontanea gentilezza o tenerezza verso mia madre, non dico verso di me. Non ricordo parlasse mai che di sé stesso o di politique politicienne (genere rassegna stampa di Radio radicale d’antan), ben diverso in questo dall’ambiente che noi frequentavamo, velleitario, se vogliamo, di corte vedute e superficiale talvolta, benché molto meno di oggi, ma cinico no, troppo modesto e ingenuo per esserlo. Questo era, piovuto nella nostra casa in un’ improbabile relazione con mia madre. Ancora oggi mi domando cosa lo avesse spinto verso di lei e l’unica risposta che so darmi è un perverso rapporto di sottomissione e dominio tra un disturbato e una donna fragile e sola, uscita da due tentativi falliti di costruirsi una vita completa di donna. Mi svegliavo la notte e la sentivo piangere sul guanciale mentre lui le parlava. La domenica mattina, quando agognavo il riposo, si alzava all’alba e si metteva a telefonare a voce altissima, o a lavorare al tavolo che era proprio davanti al mio letto, dopo avere alzato le tende. Sfuggente, andava e veniva a orari tutti suoi. Lei lo aspettava « perché lui ha avuto una donna che lo ha distrutto, gli ha rovinato la vita, e adesso... » Mah. « Perché io non posso fare come quando le telefonavo dopo una lite perché avevo visto Hiroshima mon amour, dicendole che era la nostra storia... » le lanciò un giorno lui in mia presenza. Mai visto quel film, non so di che parli, ma continuare a mettere sugli altri le immagini che ci siamo fatti di qualcuno non è degno di un essere adulto non particolarmente deprivato. Un tipo del genere, avendolo io sorpreso, oh quanto mio malgrado! Non avessi mai saputo della sua esistenza!!! con mia madre (e li’ settanta volte sette scema lei a non trovare un’altra soluzione per le sere in cui voleva vederlo) avvinghiati sotto le coperte sul letto del soggiorno quando ero stata costretta a passargli davanti per andare in bagno: « Ecco, lo sapevo! Che sarebbe arrivata! » doveva se non altro ristabilire il proprio ruolo di dominante. Giacché l’incesto è un gesto di dominio familiare e prevalentemente maschile dell’anziano sul giovane. A un certo punto decisero di comprare casa insieme. Andarono a vederne alcune. Poi tutto finì. Scomparve, con mio grande sollievo. Mia madre era triste, ovviamente. Una cosa buona ne venne: anni dopo, quando dovetti iscrivermi al liceo, mi fece prendere la residenza a casa sua, dove però all’epoca della loro relazione non andavano mai, perché il liceo richiedeva che si abitasse in una zona molto piccola del centro, limitrofa alla nostra casa ma appena al di fuori. Poi, buona, non so. Il liceo era ed è tuttora in un palazzo bellissimo quanto gelido (i termosifoni li installarono mentre ero al ginnasio), ma che sia stata la scelta migliore, chi può dirlo? Anche se non era obbligato a farlo, devo davvero essergli grata per questo? Riconoscerlo si, ma poi? Sentirmi comunque in debito con lui? Eppure. Eppure la catena del silenzio e dell‘ oppressione è ancora così forte da invischiarmi nel dubbio! sono esagerata, e poi tutto sommato è finita che ne hai ricavato qualcosa... Qualcosa???

Un giorno arrivò dicendo a mia madre che aveva la possibilità di entrare in un ottimo posto pubblico per via esclusivamente partitica. Militava in un partito, era entusiasta della nuova segreteria che avrebbe permesso di liberarsi delle vecchie correnti forse troppo audaci ai suoi occhi, e aveva all’epoca una sorta di sinecura nello stesso posto dove lavorava mia madre, allora un’importante associazione culturale e politica. Spiegò che le possibilità erano due, con stipendi ben superiori alla media: una meglio pagata di pianificazione, l’altra più tecnica, meno remunerata ma di maggiore visibilità e prestigio sociale, con ampi privilegi e vantaggi collaterali. Mia madre gli consigliò di scegliere quella dove avrebbe meglio salvaguardato la sua indipendenza. Scelse la seconda, fece una carriera non sfolgorante ma senz’altro più che buona. Divenne di destra, come il partito lasciava supporre, o forse semplicemente tornò alle origini. Oggi penso che quel posto potesse essere dovuto oltre che a relazioni personali, anche a un certo disegno politico di quegli anni. 

Una persona cieca all’altro se non come oggetto di dominio: in questo senso scelto bene. Incapace di sensibilità al dolore come al disagio altrui, totalmente preso da sé stesso e dalla propria supposta superiorità morale nei confronti del resto dell’universo. Questa l’impressione confusa che ebbi da bambina, senza poterla articolare, ma a che mi spinse allora a una rivolta che potè esprimersi soltanto nel rifiuto e che ritrovo ancora oggi.

Decenni dopo lo incontrai per caso, sul lavoro. La voce mi giunse prima di tutto, qualcosa prese a agitarsi  nel mio cervello davanti a un suono noto ma non familiare. Non la riconobbi. Poi si rivolse proprio a me, gli chiesi qualcosa, lessi un nome. Ancora non realizzavo, che avessi seppellito il ricordo troppo profondamente o che fosse incongrua la sua presenza lì. Mi avrà riconosciuta lui? Di certo era fisionomista: capi’ immediatamente chi fosse mio padre. Quando uscì iniziai a ricordare. Un oceano, una tempesta selvaggia salivano in me. Avrei voluto corrergli dietro nel cortile, urlargli di mettersi in ginocchio sul ghiaino e chiedermi perdono o lo avrei rovinato (cosa poco probabile date le rispettive posizioni socioeconomiche e la mia totale assenza di relazioni). Ero precaria esternalizzata all’epoca, praticamente con il divieto di alzarmi dal tavolo. Non osai muovermi, non osai uscire. O forse non osai credere che avrei avuto il diritto di protestare, di urlare, di farla tanto grande e tanto lunga « per una cosa così ». 

venerdì 12 novembre 2021

Avanti, continuo

 ... un’esperienza del genere lascia in una bambina un’enorme confusione. Perché io all’epoca ero ancora una bambina, nel fisico e nella mentalità.

Quella sera per me non c’erano parole. La mamma adorata non mi ha detto nulla durante tutta la situazione. Durante ha parlato solo a lui. Quando si è alzata e mi ha portato fuori per un braccio, era soprattutto seccata. Voleva finire con me al più presto possibile e ritornare in camera da letto. Non una parola per me, per spiegarmi. Io la guardavo allibita tirare fuori con gesti impazienti le lenzuola dal canterano, strappare il copriletto a righe variopinte dal letto singolo del soggiorno, rifarlo approssimativamente con gesti sbrigativi, pari alla sua indifferenza verso di me in quel momento, trovarmi una coperta di emergenza - faceva freddo - e poi mettermi lì dentro e andarsene. Senza un abbraccio, senza una parola, senza chiedermi come stessi, senza permettermi di parlare. Poche storie. Ma io ero appena uscita dal trauma di un’aggressione sessuale al limite dell’incesto. À undici-dodici anni. Non stavo facendo i capricci. Ammutolita nel terrore e nella paura di qualcosa che non potevo conoscere.

Io la guardavo, ed ero attonita. Avevo bisogno del suo calore, avevo bisogno che mi abbracciasse lei, nel suo modo rassicurante. Lei, che fuggiva verso quel letto di mostruosità.

Soprattutto avevo bisogno che mi spiegasse cosa diamine stesse accadendo. Un senso a ciò che succedeva. Abituata a vivere nella casa dei nonni, senza che lei avesse chiare relazioni stabili, il vederla fugacemente in coppia, sempre senza una spiegazione, era qualcosa che non avevo mai compreso appieno. Certo gli altri bambini avevano in genere una famiglia con due genitori, ma io non li vedevo praticamente mai insieme - i padri erano quasi sempre assenti quando andavo a giocare a casa delle amiche e non conoscevo né i rituali né le abitudini di una famiglia classica di tre persone. A tutt’oggi credo di avere un’idea molto vaga e indiretta di cosa sia un padre. Quando la mamma decise di andare a vivere con un uomo in un appartamento tutto per loro, non mi spiego’ nulla né della sua scelta, né dei cambiamenti che ciò avrebbe comportato. 

Mi portò in quella per me maledetta casa, mi disse che c’era una stanza per me e stop. Prima di trasferirsi, mi disse anche che un suo amico sarebbe venuto a prendermi in macchina per andare in un posto, e di farlo divertire per il tempo del tragitto. Io non capii nulla, mai mi aveva parlato in questi termini. Tentai di parlare, senza sapere bene di che. Ma quella persona si rivelò poi gentile e avendo anche lui dei figli, capace di interagire con un bambino e sinceramente interessato, in quella visita preliminare, a farmi parlare a capire qualcosa di me. Con i suoi figli, giacché poi mi toccarono fugacemente anche loro, non andò particolarmente bene. La figlia, un anno più di me, insopportabilmente egocentrica schizzinosa, e lui la portava in palma di mano. Il figlio, due anni di meno, decisamente troppo piccolo e con interessi del tutto diversi.

Ricordo che mi fece mangiare, in quella casa allora quasi vuota, forse la loro garçonnière, e che mi parve molto buffo e un po’ inquietante dover divertire un signore che mi spiegava come lui mangiasse i buchi del groviera e solo il pepe, che a me non piaceva, della mortadella. Qualcosa mi lasciava interdetta.

Però era innocuo. E mi guardava in modo in qualche senso paterno misto a curiosità. Forse è l’unica persona ad avermi guardato così. Il nonno è il nonno, sia ben chiaro, ma è un’altra cosa.

Fu molto meno semplice alzarmi una notte e trovare che dormiva, non è un eufemismo, nella stanza della mamma insieme a lei.

Mia mamma non mi spiegò mai perché noi dovessimo vivere con costui. Non mi disse nulla di cosa significasse per lei, del suo ruolo verso di lei né men che meno verso di me. Tutto sommato tirai un sospiro di sollievo quando scomparve. Lei no. Ne apparve un altro, e fu peggio. Pure questo non era libero (un vizio!), o meglio era separato in qualche modo, aveva una bimba poco più piccola di me. Non avevamo granché da dirci, la piccola era gelosissima del papà, comprensibilmente temeva di perderlo, e quindi delle attenzioni che lui riservava alla mamma. Non ne voleva sapere di doversi gestire pure una potenziale terza rivale. Come darle torto? Ma la mamma mi aveva obbligato, in quel suo nuovo modo tirannico, a giocare con lei, a stare con lei e soprattutto a comunicarle che doveva accettare la situazione senza fare storie, cioè a evitare di farla piangere. Quindi io non appena lei faceva una smorfia mi sentivo terrorizzata e sommersa dai sensi di colpa, per la mia inadeguatezza verso il compito richiesto dai desideri materni e perché con la consapevolezza di allora, ritenevo che il rifiuto di Barbara nei miei confronti fosse personale, il che distruggeva doppiamente la mia autostima. Avrei dovuto, secondo mia madre, gestire, quanto meno nel tempo che passavamo insieme, le angosce di una settenne che vede sfasciarsi la coppia genitoriale, il padre con un’altra donna e pure con la di lei figlia, avendo io forse nove anni e una scarsissima comprensione del senso di una coppia, che ad aggiungere incomprensibilità su incomprensibilità, non assomigliava per nulla a una classica vita di famiglia e mancava del tutto di stabilità. Cosa sarebbe successo adesso? Ne sapevo meno di loro. Bel colpo, madre! Ma come potevi essere diventata così rozza intellettualmente e totalmente cieca a ciò che è un bambino per soprammercato? 

 Barbara si ribellava contro la situazione e rivoleva il padre e la coppia genitoriale che aveva conosciuto, mentre io di ribellarmi non ero capace, sapevo che dai nonni comunque non si sarebbe tornati e mi lasciavo sommergere, inghiottire da questo nulla senza confini. Paralizzata dalla situazione, non potevo provare altro che la mia incomprensione di ciò che accadeva (nel frattempo mi era successo l’episodio delle scale). Peraltro Piero, diversamente dal primo, non era gentile né attento nei miei confronti. Noi figlie eravamo due impedimenti, ma anziché lasciarci altrove come avremmo desiderato, ci obbligavano a fare i terzi incomodi, o forse usavano me mentre lei era con il padre per tentare di tenerla tranquilla, laddove io avrei dovuto fornire compagnia poca spesa tanta resa e zero cognizione. Una volta mi strapparono dalla mia amata villeggiatura a Fiuggi con mia zia che passava le acque, per andare in un odiatissimo campeggio selvaggio nel parco nazionale d’Abruzzo, a vedere degli orsi che ovviamente non c’erano, scomodissimi in tenda sui materassini del mare, sotto la pioggia, dove finimmo per ammalarci di brutto tutti e otto, noi quattro e due coppie di amici di lui. Un’altra al Circeo, sempre in canadese, sempre scomodissimi, con Barbara sulle braccia che aveva paura del mare e frignava, mentre io sognavo solo di sguazzare otto ore al dì lontana da tutti costoro. I rimproveri senza fine perché io non ne avevo voglia: « Per una volta che ti porto in vacanza con un’altra bambina invece di restartene tutto il tempo a Fiuggi con la S. a non fare niente, tu fai anche storie? », « Ma come, tu fai sempre storie Gaeta Gaeta e poi ti porto al mare e non ti va bene? ». Gaeta era una vacanza ben diversa e lei lo sapeva. Fiuggi, non fare niente? Le sue urla uscire perentorie dal telefono, invece dei suoi saluti e dei suoi baci e io che non capivo: avevo sempre potuto esprimere il mio parere, i miei desideri e se del caso negoziare: « fare un patto » lo chiamavamo. Cos’era adesso, a partire dalla casa senza nonni, quell’impossibilità totale di avere una volontà che non collimasse con la sua? Quella necessità di obbedienza assoluta e adesione gioiosa al suo desiderio, annientando fin la consapevolezza della liceità del mio, fino a sfiorare, qualche anno dopo, la violenza sessuale? 

Ancora una volta, non capivo.

Avessi chiesto qualche cosa... dovetti tornare da sola in treno da Fiuggi a Roma,  azzeccare una coincidenza, con una certa preoccupazione, non avevo ancora dieci anni, e avevo paura di perdermi. Soprattutto avevo paura di tornare sotto la sua rabbia crescente ogni volta che le dicevo di no, che i miei gusti non erano i suoi, che le cose che mi imponeva di amare e accogliere con gratitudine, così diverse da quelle di quando eravamo dai nonni, non mi dicevano nulla, mi annoiavano o mi dispiacevano. 

Adesso capisco che in quel periodo tra i miei otto e diciotto anni i suoi desideri passavano avanti a tutto. Dieci anni infernali, soprattutto i primi otto. Lei voleva costruirsi una vita di donna, di amante, di compagna, cosa comprensibile, e io dovevo servire a renderglielo più facile, cosa del tutto sbagliata. Mai mai mai nel presentarmi tutte queste scelte ha pensato a me, a cosa volessi io, a come agire per rendermi più facile la situazione, a lasciarmi scegliere cosa preferivo fare nel quadro dato. Non era strano che mi sentissi spaesata: io non esistevo più, o il minimo possibile. Lo voleva, d’accordo, ma lei era l’adulta, lei aveva ogni potere. Io sentivo di perdere il suo affetto, sentivo che avrebbe voluto annientarmi, che avrebbe preferito che non esistessi, perché non volevo quello che lei voleva e soprattutto, reclamavo, senza avere le parole per dirlo, ma con fiducia in lei, il diritto di volere altro da quello che lei voleva. Non me lo ha mai riconosciuto, allora, questo diritto di esistere, di essere autonoma dai suoi desideri. La mia volontà, il mio desiderio, non dovevano esistere, non potevano essere riconosciuti, pena il rigetto della mia stessa esistenza. Sentivo, ma non potevo mettere parole su tutto questo. Mi sembrava che il mondo si fosse capovolto, ovviamente per colpa mia. Una colpa incomprensibile, perché quegli individui estranei, non particolarmente amabili, che importanza potevano avere, rispetto ai nonni, rispetto a noi, a me? Apriti cielo. « Sei solo gelosa! »

Il tutto, da parte di mia madre, sempre senza una spiegazione. Al massimo : «Andiamo  a... con Piero, c’è anche Barbara che è tanto simpatica, così tu non stai sempre coi grandi come quando vai dai nonni, che stai sempre con loro, alla fine, eh. », Ah, be’, allora.

Una notte dormimmo a casa sua. Io e Barbara ci guardavamo come le uniche persone adulte dotate di senno, capaci di restare reciprocamente cortesi nella vicendevole indifferenza in un mondo che aveva perso senso.

La mattina sentii dei colpi terribili alla porta, come qualcuno che vuole abbatterla, poi delle grida aumentare di tono. Mi dissi che dovevano esserci gli operai nel palazzo e tentai di continuare a dormire. Invano. Entrò mia madre, dopo un bel po’, mi fece alzare, malgrado le mie proteste che erano solo gli operai; Barbara si era già alzata e stava in piedi davanti alla porta piangendo in pigiama, terrorizzata. I due grandi erano in piedi davanti alla porta. Lui tentava di parlare alla persona che spingeva e gridava frasi incomprensibili, poi arrivo’ una terza persona fuori e tentò di placare la prima che di domenica mattina e con una voce femminile, sia pure sconosciuta, non poteva essere un operaio.        

Infatti era Stefania, la moglie di Piero e la mamma di Barbara. Che aveva il cattivo gusto, a sentire mia mamma, di non rassegnarsi alla situazione. In modi parecchio brutali, dato che la scena avveniva davanti alla figlia e davanti a me, che ne capivo sempre meno. Avevo otto o nove anni e per la prima volta sentivo parlare di separazione e divorzio, allora non così comuni, o meglio, magari ne avessero parlato. Mi trovavo in mezzo a una scena coniugale causa separazione non consensuale e non capivo cosa fosse. Il suo vocabolario era incomprensibile: « Sgualdrina, sgualdrina » cosa vorrà mai dire? Cercava qualcosa, un oggetto? Il tono era inequivocabile, ma con chi ce l’aveva? E perché?

Uscimmo da li’ con due poliziotti che tenevano Stefania per le braccia. Lei gridava, stravolta: « La sgualdrina! La donna coi poliziotti! » il che per il mio ambiente era un insulto molto peggiore di sgualdrina perché Police partout justice nulle part. La mia mamma con i poliziotti? Mia mamma aveva chiamato i poliziotti?  Impossibile. E poi, perché?

Anche stavolta, quasi nessuna spiegazione diretta, malgrado io abbia chissà farfugliato un: « Ma come mamma, ma i poliziotti non sono quelli che ci picchiano alle manifestazioni? Perché adesso li hai chiamati? ». Forse un: « La moglie di Piero non accetta la separazione e fa delle storie», detto con il solito tono spazientito magari nemmeno a me, ma a qualcun altro. Il che non è proprio il massimo dell’intelligibilità.

La sera stessa, o un’altra non molto dopo, eravamo a piazza Navona, sempre con l’eterno Piero e sempre con Barbara, accompagnata dall’amica che aveva tentato di trattenere Stefania quella mattina, senza riuscirci. Seduti al bar di fianco ai Tre scalini, o forse proprio ai Tre scalini, una cosa a pensarci ora, nel nostro ambiente praticamente inverosimile, un posto così borghese, costoso. Comunque niente gelato che costa troppo. Per i non romani, o per quelli più giovani, la specialità dei Tre scalini era il tartufo artigianale al cioccolato fondente, ben prima che esistessero quelli confezionati. Andrea, il mio primo ragazzo importante, anni dopo, amava invitarmi proprio lì, senza che io riuscissi a capire il vago senso di disagio che mi coglieva, malgrado la passione inveterata per i gelati e le scaglione di cioccolato nero da squaglio, oggi introvabile, grosse come due dadi di tavoletta. Parlavamo, e ecco ancora Stefania - avrà assoldato un investigatore privato? Ci pedinava? - piomba li’ e attacca a urlare. Barbara, che non so più se fosse con lei e dovesse tornare con il padre, o se fosse con noi, incomincia a piangere, forse perché non vuole più stare con il padre, e magari con due estranee per soprammercato - come darle torto? - io sto per piangere anch’io, perché non ne posso più di quell’atmosfera, di quelle persone, di questa bambina che mi sbattono addosso, che mi è estranea e piange sempre senza neanche essersi fatta male. Mia madre, durissima, mi fulmina: « Non ti metterai a piangere anche tu, adesso? Guai se lo fai,  eh. Non si fa, non ti permettere. ». Avevo nove anni. A un certo punto si alza, mi prende per un braccio, mi porta via, loro restano lì, e lei furiosa contro la povera Stefania, che certo era isterica e a suo dire manipolava la figlia, e contro Piero, perché si lasciava scuotere da quelle scenate, e forse, lui sì, dal pianto di sua figlia.  

Io, allora, non posso piangere. Io inghiotto la mia paura, e via, a piedi, di notte, stanca, trascinata fino a casa, sballottata, stordita. Sempre senza parole per me, per quello che ho dovuto subire per scelte non mie. La casa, che è quella casa, e le sue scale.


mercoledì 10 novembre 2021

Scrivo. E dovrei proprio scriverlo, con un grido e con terrore.

 Scrivo. E questa volta non è più questione di farlo dietro la lingua straniera, come ho fatto per altri due traumi catastrofici della mia vita. Quella lingua che lui ha permesso di parlare. Quella lingua che mi ha permesso di narrare, di fare una storia delle parole indicibili, indicibili perché, lo dico d’un fiato prima che mi si mozzi, perché raccontare nei dettagli alcuni gesti della propria madre è assumere e traversare una tempesta di vergogna come se ne fossi io la responsabile. Singhiozzi e termore. Ma mica lo so se ci riesco. Eppure, bisogna spezzare la congiura non detta del silenzio.

Scrivo per come ne ho avuto l’impulso l’altro ieri sera, da un posto pubblico in una biblioteca, dove non potevo aprire il blog per via delle manie di localizzazione del discretissimo google, che per proteggere la tua casella, si capisce, non ti lascia aprire la posta se non gli dai il numero di telefono. Molestatore.

Perché mamma, quella volta tu c’eri. Non eri in cima alle scale. Tu c’eri e l’aggressione è successa sotto i tuoi occhi, in una situazione che tu stessa avevi creato. E tu hai aspettato prima di intervenire. E quando sei intervenuta, mi hai sottratta a quelle mani, si’, ma non l’hai fatto fino in fondo. Mi hai lasciato davanti a quella presenza quasi quotidiana per un tempo che a me è parso lunghissimo. Forse non lo è stato, ma così io l’ho percepito. L’episodio è stato uno soltanto. Per fortuna. Molto meno invasivo del precedente. Ero più grande e tu, con il barlume di coscienza rimasto, sei riuscita a capire che dovevi fare qualcosa, e a farlo. Ma dopo, dopo, invece di mettermi al riparo da quella presenza, hai messo le mie forze di appena dodicenne davanti a quelle di un quaranta-cinquantenne, come se toccasse a me, ancora una bambina, sbrogliare quella matassa.

No, non toccava a me. Toccava a te spiegare a quell’uomo, dominatore, crudele, che odiava i bambini, che non sopportava di averli vicino - me lo ha detto tante volte - che riteneva i bimbi delle Zazie e nulla più, che voleva metterli a tacere ad ogni costo, che non avrebbe mai più dovuto rimettere piede in casa tua. Anzi, in casa nostra, dato che ci tenevi tanto a « avere la nostra casa per stare con me », salvo poi  tenermi il muso per mesi o anni, perché a me, abituata alla grande e animata casa dei nonni, quella situazione a due proprio non piaceva.

Ma evidentemente non piaceva neanche a te. Perché d’accordo, che i tuoi tentativi di fondare una relazione stabile, con mio padre e con un altro uomo, erano falliti tutti e due. Ma era forse il caso di esporre tua figlia a un essere siffatto, una volta che si era rivelato tale, e esigere da lei amabilità e cortesia verso costui?

Tu eri debole, mamma. Tu avevi bisogno di affetti. Disperatamente. E anche se ti facevi forte di una diversa morale, quella morale in fondo a te non andava affatto bene. Troppe mancanze nel suo fondo. Ma anche troppo amore per chi solo nella misura in cui accettavi quella morale avrebbe accettato te. E tu lo amavi sopra ogni cosa. Mio padre. Il mio maledetto, vile, intelligente, colto, appassionato, rivoluzionario, padre, impegnato fino a morire schiantato di delusione quando le prospettive ideologiche ed economiche (ma questa seconda cosa la so adesso) della nostra società mutarono, e quel mutamento gli impedì di continuare a fare il suo più amato lavoro, ovviamente anche quello politicamente connotato. Morire ovviamente lontano da te. Anche se a mio parere conta di più come si vive che dove si muore. E lui non aveva vissuto con te.

Quello che un giorno, vedendomi sdraiata sul vostro letto brucando foglie d’insalata esclamò: « Ah, perché non ho una cinepresa! » Credo sia stato l’unico slancio di vero affetto che l’ho sentito proferire nei miei confronti.

Ma in quel periodo mio padre non c’era, come del resto mai ci fu in modo stabile. Credo di aver dormito  sotto lo stesso tetto con lui forse tre volte e due non sono nemmeno sicura di ricordarmele. Adesso che ci penso, non c’è neanche nel mio certificato di nascita, l’ho sempre saputo, ma non son mai riuscita a guardarlo dall’esterno questo fatto. Dicendo che insomma, non è normale.

Insomma, la sto tirando in lunga per darmi coraggio. Ma fra un quarto d’ora devo uscire e quindi devo raccoglierlo, il coraggio, e scriverle queste parole tremende. Dopotutto non sono tremende per me. Sono tremende per lei. Ma perché oggi io mi devo sentire ancora di dover proteggere lei? Forse dopo andrà meglio.

Una notte mi svegliano dei rumori soffocati e incomprensibili. Dormo nello stesso letto della mia mamma. L’appartamento non è più quello dove lei mi porto’ urlante e scalciante la sera dell’Epifania di tanti anni fa. I prezzi degli affitti sono aumentati, il suo salario è diminuito. L’uomo con cui avrebbe voluto condividere quell’appartamento, devo dire assai bello, è tornato anch’egli da sua moglie (gli uomini sposati e confusi non sono un’esclusiva della nostra epoca). La padrona lo rivuole. 

Questo secondo è brutto, piccolo e inadatto a una madre con una figlia preadolescente. Affaccia su un cortile grigio di cemento. Ma è centrale e a te piace. Però ha due sole stanze: una sala, dove si entra direttamente senza ingresso, una cucina parzialmente chiusa, un bagno da un lato e una piccola stanza dall’altro lato. Dove ci sta un solo letto matrimoniale. E dove dormiamo tutt’e due. A me in via di principio la cosa non dispiace. Avevamo dormito in due letti gemelli nella stessa stanza a casa dei nonni e il cambiamento dell’appartamento non lo avevo capito bene.

Ma mai avevo dormito con altri. Come tu hai fatto quella notte, mamma. Perché io non dovevo essere svegliata dal vostro accoppiamento, con un essere sconosciuto, nel mio stesso letto. Perché c’era un letto singolo usato come divano nella sala. E io credo bene di avervici visto dormire una notte alzandomi per andare in bagno. E già la cosa non mi era piaciuta, dato che eravate semisvestiti. E quella intimità non mi piaceva vederla.

Forse avete pensato che ormai « sapevo » e quindi potevate installarvi più comodamente. Già questo sarebbe gravissimo da parte tua e sua. Anche se capisco che nelle nostre campagne era del tutto normale fino a pochi decenni fa. Ma la nostra famiglia non viveva in campagna e non c’era niente di normale. Ero paralizzata dallo stupore e non sapevo cosa fare. Non mi rendevo conto che avrei potuto uscire dal letto. Per andare dove? Quello era il MIO letto. Non il suo. Ma il peggio doveva ancora venire. Perché a un certo punto sento una mano sul mio pigiama, all’altezza del pube. Che mi gela. Che non mi piace. Che non voglio! No, non voglio. È il mio letto, vattene, lasciami in pace.

Non più lascia in pace. Io mi allontano verso il lato più lontano, ma il letto è piccolo e il suo braccio è lungo. Mi giro bocconi per proteggere il mio sesso. Mi tocca anche le natiche, non mi lascia in pace. Io non ho voce, non capisco, come può essere, cosa mi sta facendo? Io sono una bambina, so come nascono i bambini, ma non riesco a legare le due cose. Non capisco che senso abbia tutto quello che succede.

A questo punto mia mamma (inorridisco. Ma non dovrebbe inorridire lei?) articola « Lasciala stare ». E lui, « Le piace. Ma le piace. Lo so che le piace. ». A me tutto viene in mente fuorché il piacere. O quel che dicono proverebbero i bambini, cioè la curiosità. A me viene un disgusto senza fine. Paura, paralisi. Non sapere dove rifugiarsi. Non sapere dove sia il nemico, chi sia amico e chi nemico. Se sta con la mamma, come può essere un nemico?

Alla fine mia madre si alza, accende la luce, fa il giro del letto, mi prende per un braccio, mi trascina fuori dalla stanza, prepara l’altro piccolo letto che del soggiorno e mi mette a dormire li’. Poi ritorna da lui. Almeno mi lasciano in pace. Ma io sono sconvolta, atterrita e disgustata. Non riesco a riprendere sonno.

Qualche notte dopo, stessa scena anche se senza molestie. Inescusabilmente. Stavolta però è come se mia madre mi avesse dato l’autorizzazione a reagire, penso. Conosco la scena, mi dico. E così mi alzo, faccio il giro del letto, esco dalla stanza sbuffando e sbattendo la porta. 

E mi pare il minimo.

Qualche tempo dopo - giorni? Ore? « Non va bene che tu ti comporti così con Mario. Alzarti sbuffando, andartene sbattendo la porta. Se io ho piacere di dormire con un uomo nel letto tu non mi puoi fare ricatti emotivi. Se vuoi andare di là ti alzi, saluti e te ne vai piano piano. ». Come hai potuto pensare parole simili, preferirle e difenderle? Come hai potuto spezzare in me ogni coscienza del diritto sacrosanto al rispetto e alla mia integrità? Cosa diavolo avevi in mente quando mi hai detto quelle cose? Hai mai capito quanto mi avessero fatto male, sconvolgendo il mio orizzonte e la mia idea di limite fra bene e male, fra genitore protettivo e aggressore?

Devo uscire, ma non ho ancora finito.

giovedì 4 novembre 2021

Ma porca miseria!

 Allora: la persona con cui stavo trattando il mio amato spostamento, si sposta lei. Per andare in un posto che a me non piace per nulla e dove ad ogni buon conto non avrei spazio: ci sono già due persone entrambe molto più giovani e decisamente risolute, e giustamente, a non farsi pestare i piedi da nessuno. Quindi tutti i discorsi fatti, la sua approvazione, il suo sostegno, la domanda: niente da fare. Puff, perduto, svanito. Possibile che non lo sapesse già che era nell’aria? O è stata un’offerta dell’ultimo minuto, che non si poteva rifiutare? E si sarà spostata perché non si trovava bene là o perché preferiva il nuovo posto, sulla carta certo più prestigioso e meglio pagato, anche se, a mio parere, totalmente paralizzato dal contesto?  

Chi dovrà andare al suo posto chissà chi sarà e se mi vorrà. Inoltre, passerà del tempo prima che si preoccupi di chiedere a nuove persone di arrivare. A meno che non sia una soluzione interna, dovrà anzitutto capire in che luogo si trova. Se è una soluzione interna, avrà già gente sua, in una città più piccola. Per di più, chi mi aveva accolta più caldamente era proprio questa persona, non le prime a cui mi ero rivolta e che rimangono sul posto. Quindi si tratterebbe se mai, di arrivare in un contesto ben più freddo e meno disponibile. Peggio ancora, potrebbe arrivare un personaggio dalla pessima quanto meritata fama nel nostro ambiente. Con cotal persona qualunque convivenza sarebbe un suicidio. 

Sempre che il discorso rimanga ancora in piedi. Cosa poco probabile perché l’aveva avviato e voluto questa persona che ora se ne va e ci sono parecchi ostacoli burocratici da superare che avrebbero richiesto impegno assiduo e costante.

Inoltre lo scenario che avevo previsto nel post precedente si va consolidando. La morte di X ha aperto la via alla demolizione di tutto il discorso iniziato con X sulla struttura e al ripristino brutale, con malcelata soddisfazione, dello status quo ante.

Aiuto! Non posso dire che questo autunno stia passando senza sorprese; ma che esse mi facciano avanzare di tanto così nemmeno. Mi sento davvero un fuscello in balìa degli eventi. Soprattutto sono sempre più convinta di non poter ritornare fissa nell’istituzione dove lavoravo prima. E nemmeno nella stessa città.

Mapporca miseria. Ma questa persona non poteva aspettare che io mi fossi trasferita per partire verso altri lidi? Ma accidenti a costei!!! E anche basta. Di sfiga - giacché a questo punto tale è - ne ho avuta abbastanza in vita mia. Ecco. 

P. S. : alle mie implorazioni ha risposto ancora la sfiga. Non sono riuscita a aprire il divano letto che si ostinava a puntare i piedi verso l'alto per dieci minuti. Poi l'ho preso per il verso giusto. Ma ormai sono quasi le due, chissà cosa potrò combinare domani. Comunque se qui in qualche modo le cose si sistemano sempre, in Italia ogni volta è una situazione senza uscita, completamente asfittica, dove più cerchi di sfuggire e più ti invischi. L'Italia è un luogo senza aria né speranza. 

mercoledì 3 novembre 2021

Là-bas

 C’est que tout simplement j’aimerais aller vivre là-bas.

C’est mon désir.

Parfois on le dit, comme ce serait beau d’habiter là-bas - chacun a son lieu pour son là-bas.

Et puis, oui, mais euh, les difficultés, c’est compliqué. Le travail, les personnes, comment faire?

Et maintenant mon travail le permettrait, en principe.  

Ce sera pas la France, car c’est impossible, mais ce serait de mon choix et de mon cru, pas au hasard de la naissance ou de la réussite au concours.

Pourvu que les dirigeants de l’institution de départ me laissent partir. Et que les loyers soient suffisamment modérés: cela est un vrai cauchemar. De l’autre part, silence. J’espère qu’ils n’on pas oublié nos accords! Là, il y a un peu d’idée de persécution de ma part. J’en suis consciente, c’est que tout simplement j’y tiens tellement, et que mes chances me paraissent si minimes, au vu des prémisses car elles seraient parfaitement raisonnables en elles-mêmes, que je me méfie de tout.

Il faut attendre, encore attendre, toujours attendre... et ne pas déconner dans l’attente, car, je n’arrive plus rien faire à cause de cette anxiété vécue en silence (les dix personnes qui lisent ce carnet exceptées)!!!

martedì 2 novembre 2021

Nel giorno dei morti

 Mentre sono passati coloro che la esorcizzano con zucchero e varianti, mentre da tre giorni mi vanto di essere distrutta da sinusite, mal di testa e nausee, proprio oggi vengo a sapere della morte della sola persona in posizione influente che mi apprezzava fattivamente, mi aveva aiutato a portare le istanze della struttura là dove si puote e aveva mostrato l’intenzione di recuperare la struttura facendo fare ciò che da decenni non si è mai voluto realizzare. Precauzioni incluse, che adesso saranno passate sotto silenzio perché costano. Non disturbiamo. Andiamo avanti, tanto ormai la situazione è cambiata. 

Una struttura che per altri deve rimanere una cava, disfacendosi nel mentre.

Una persona capace di badare al sodo senza sentirsi sminuita dal mancato controllo delle formalità, delle precedenze, della sottomissione gerarchica. Una persona consapevole che semplificare la vita extralavorativa è il migliore modo di far lavorare bene chiunque. 

Una persona abbastanza sicura di sé da capire cosa sia una scala di priorità, la diversità degli approcci e delle indoli e l’importanza primaria del risultato e del buon risultato.

Una persona che non avrebbe mai proferito dall’alto della propria incompetente sicumera: « La forma è sostanza » né « Sei troppo indipendente », le due frasi degli incapaci che trovano sponda solo nel sadismo.

Una persona non scontata se non nella mesta conferma dell’adagio che sono sempre i migliori che se ne vanno.

Sono triste per questa morte, per le conseguenze su di me e sulla la struttura che muore anch’essa.

Allo stesso tempo il venir meno di questo minimo appoggio rinsalda ancora una volta la necessità per me di scappare a gambe levate. Il mio spirito d’iniziativa non è ovviamente mai garbato a chi avrebbe dovuto attivarsi e ha solo sopito e fatto sopire. Simpatiche conseguenze trasversali sarebbero nello stile. Dietro di me lascio macerie che non ho creato e che ho invano tentato per anni di ricomporre più o meno a mani nude, perché lo meritavano e lo meritano.

Mi piange il cuore, anzi no: da quando ho saputo ho le lacrime agli occhi, a pensare di lasciar depauperare una struttura come quella, ma non posso, cioè non ho il potere, di far diversamente, ora men che meno. E per quanto mi strazi il pensiero di lasciar la struttura alla devastazione silente, non posso e non devo estenuarmi dentro un’istituzione che permette e incoraggia uno sfregio simile, impedendo ogni recupero.

Sento che si sta chiudendo un lungo momento della mia vita, almeno quindici anni, nel complesso. Ho bisogno di chiuderlo perché non mi corrisponde più. Devo diventare altro. Ma non in quell’istituzione: ovunque li’ sarebbe impossibile. Lo sapevo già dal primo confinamento. Mi lasceranno andare? Riuscirò a scappare prima che arrivi qualche sadico ad aggiungere altre difficoltà? Quasi impossibile.

Addio X. Larguez les amarres!