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per gli scribi

Toulouse en érasmienne

venerdì 29 marzo 2013

"Peni culturali"

No, non ho l'intenzione di far finire questo mio povero blog in cima ai siti segnalati dai filtri internet per minori. Quelli, per intenderci, che misero tra gli inaffidabili e sospetti la home page della Casa Bianca dell'epoca Clinton, perché, pare, vi figuravano le parole "coppia" (per di più presidenziale) e "camera da letto" nella guida all'edificio.

Sarà perché ho passato tutto il 2010 all'estero, sarà perché sono distratta, sarà perché avevo altro a cui pensare, mi era sfuggita questa notizia. Che adesso ho scoperto per caso, di link in link.

Insomma: un gruppo statuario romano del II secolo d.C., raffigurante un'altra e ben più suggestiva coppia, Marte e Venere, spostato da un pubblico museo nazionale a Palazzo Chigi per desiderio dell'allora inquilino. Che trovandolo un po' invecchiato dedicò generosamente 70 mila euro di pubblico denaro a ripristinarne le parti mancanti, tra cui appunto il sesso di Marte - da lì il titolo di questo post. Neanche avessero dato la commissione a Bernini in persona.

Operazione, questa di sostituire le parti mancanti delle statue antiche - tutte, non solo gli accessori del bunga bunga - oggi appena appena riprovata da qualsiasi storico dell'arte o archeologo. Insomma degna giusto della pacchianeria di un simil "amico Putin", (che in sé tanto nuovo non è) di un nouveau riche slavo dalle oscure origini.

Oltre a lasciar crollare Pompei forse pensando di fare l'opera buona di ispirare un nuovo Piranesi, da queste parti non ci si priva proprio di niente. Perché lasciare queste povere statue incomplete sotto gli occhi di un PresdelCon?

Cambiato inquilino il gruppo è stato restituito al Museo dove da sempre era esposto per tutti i visitatori. Pare che smontare le integrazioni posticce non sia stato, per fortuna, troppo costoso.
Ma a perenne memoria citiamo il nome del sovrintendente archeologico Angelo Bottini che diede il benestare allo spostamento della statua nei Palazzi.
E anche quello dell' ormai ex-sovrintendente di Roma, Adriano La Regina, che non era competente in materia, ma, per quel che ha potuto fare, ha spesso bloccato l'uso disinvolto di un patrimonio sempre spregiato quanto saccheggiato.     




lunedì 18 marzo 2013

Interporsi

Metrò parigino verso l'ora di pranzo, dirigendomi a uno dei mille luoghi dove è bello studiare in questa città. Sprofondata col naso in un libro che devo restituire di corsa a una delle infinite biblioteche in cui hanno ormai appesa la mia foto con scritte da far west, o più semplicemente sabotage, data la mia tendenza a imboscare sempre i libri molto più a lungo del lecito. Del resto qui in metropolitana tanti leggono, aggrappati nelle posizioni più precarie e inverosimili. Soprattutto donne.
Un ronzio si affaccia senza sosta alle mie orecchie, incrementando sempre più il volume. Sposto un occhio orizzontalmente per non distrarmi troppo e cado su un paio di stivaletti con la zeppa, fatti a mo' di scarpe da ginnastica, cioè di tela, e decorati con leopardato brillante oro. Certo materia di riflessione non mancava, e io, ormai dipendente da certi consigli, con il pezzo di cervello rimasto sano mi distraggo dall'orientalismo letterario a cui la maggior parte delle cellule cerebrali rimane attaccata, per riflettere subito su come lo potrei sdrammatizzare.
Però la portatrice degli stivaletti non rispetta minimamente le mie già doppie speculazioni e insiste nell'alzare il volume al massimo fornendomene una terza (troppa grazia). E non sono propriamente paroline gentili, o argomenti del genere "'vabbè 'tte chiamo pee' staseraaa, dopo a' apeiitivo, 'a doccia, 'a cena e la partita magari usciamo" (ma chi ne avrebbe ancora voglia, di sentirti, mi dico). No, una parola mi buca le orecchie: "Vous, les Arabes, vous gens mauvaises, vous venez ici et faites de choses, vous, vous les terroristes". Il tutto pronunciato da una signora di colore all'indirizzo di un ragazzone maghrebino dall'aria buona, la cui testa sfiora il soffitto del vagone e che porta alle orecchie due cuffiette. Il quale, sconvolto da queste parole, si prova timidamente a soffiare un: "Madame, moi je ne suis pas terroriste", ma lei continua a insultarlo. Dal tono si capisce che la signora non ha proprio tutte le rotelle giuste, ma si capisce anche - e vorrei vedere - che sentirsi dare del terrorista davanti a un vagone intero di gente non è proprio la cosa più simpatica del mondo e non ispira compassione per i mentecatti. Mettiamo se un'italiana si sentisse perciostesso dare della mafiosa. Per cui, nascosta dietro una cortina di persone che assistono immote alla scena, cerco disperatamente lo sguardo del ragazzo, maledicendo l'educazione araba che impone di non guardare negli occhi le donne, perché vedo che lui al contrario lo sfugge. Alla fine, con piantato sulla faccia uno smile a 64 denti, riesco a intercettarlo, facendogli segno di lasciar perdere le straparole della vicina, gli scorgo un lampo negli occhi e capisco che finalmente non si sente solo. Però quella insiste: "Ah, vous tuez les gens, à Toulouse (la mia città amatissima), l'affaire Merah, ils sont tous terroristes, les Arabes...". A questo punto un altro maghrebino, più anziano e con l'aria decisamente seccata, aggredisce verbalmente la donna in modo violento, dicendole di non permettersi simili discorsi, ma non basta, quella insiste. Gli altri sono paralizzati, e io mi sento - assurdamente - male per un paese che adoro. La mia Francia deve saper reagire a una situazione simile, ecchediamine. Ma non me la sento di andare a dare lezioni di tolleranza e civiltà a un paese che non è il mio. D'altra parte non posso nemmeno accettare che la cosa degeneri. E così faccio quel che sono: la straniera, e anche quel che non sono più: una bambina ingenua. Mi alzo in piedi, libro in mano, e comincio a parlare in italiano italianissimo a voce alta. La cosa gira su di me tutte le teste manco fosse caduta una folgore, anche perché qui nessuno, tranne rarissimi casi, alza la voce. E io comincio a chiedere con tono quasi infantile, cosa succede, perché litigano, come se caduta dalla luna non avessi capito un accidenti di quello che sta capitando, ma fossi molto colpita e preoccupata di quel che sento e continuo a parlare parlare parlare. Per cui mi rendo ben presto conto che sto recitando un numero davanti a un intero vagone che ormai mi guarda meglio di una primadonna (sempre desiderato fare teatro!), mentre io tento solamente di mettermi nella direzione buona per ammiccare al ragazzone che ho davanti. Se non altro ho tappato la bocca alla cacciatrice di terroristi, la quale sta cercando evidentemente di capire da dove sia piovuta quella a rubarle la scena. Il tutto si svolge mentre lo zainetto e il computer ne approfittano ovviamente per scivolarmi dalle spalle, mentre il piumone lungo fino ai piedi, familiarmente detto "L'Orso",  decide di ottenere una variazione di colore all'ultimo grido grazie al pavimento di un vagone parigino. L'unica cosa che riesco ancora a brandire solidamente è il libro - ma si sa, la classe non è acqua.
La scombinata prova di esserlo del tutto, perché è la prima che si riprende e decide anche di riprendersi la scena. Neppure lei è francese, del resto, e comincia a parlarmi in italiano. Meno male, non pensa più ai due arabi. E io insisto nel dire che non capisco, così lei, passando allo spagnolo, mi spiega che lei vuole rispetto da tutto il mondo, ma non le piacciono le "personas malas". A questo punto le lascio volentieri la parola, guardandola, sorridendole, annuendo a tutte le enormità che dice, compreso, appunto il famoso "mafia". Però ha l'avvedutezza di aggiungere "cinese, russa, italiana, polacca". Ah. La signora decisamente si beve la cronaca, peccato che la agiti e la mescoli proprio male. Nel frattempo il ragazzone mi dà una mano, si avvicina all'amico furioso e comincia a blandire anche lui. A parte lo sforzo di dover fingere di non capire due lingue che comprendo benissimo, e le smorfie di complicità che cerco di indirizzare ai miei vicini per evitare che ci facciano portare alla neuro entrambe come due piccione, vedo con sollievo che poco a poco si calma e che la mia fermata si avvicina. Ormai siamo amicone, e la srotellata spiega che lei è di Capo Verde - conosce Capo Verde? -, ah sì, un collega di mio nonno lavorava laggiù, lontano, eh!, eh sì, lontano, la mia famiglia è là, ma io lavoro qui, sa?, accanto a me un ultimo testimone della scena mi guarda con l'aria di non aver capito ancora e io riprendo a ammiccare che neanche volessi candidarmi a un gara di burlesque, le porte si aprono, e via con un sospiro di sollievo. Il signore, sceso con me, mi sibila a questo punto "Comprendo", mentre con sollievo infinito io ritrovo la mia parlata francese e gli spiego che no, non potevo lasciare che la cosa degenerasse, che dovevo fare qualcosa. Un qualcosa che è stato tutto sommato  abbastanza adrenalinico, perché quando arrivo alla seconda metropolitana e mi siedo, mi sento sfinita, ma felice, come una bambola di pezza dal grande sorriso.
Che trattare con i matti non è che sia proprio il mio mestiere, eh.