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martedì 27 gennaio 2015

Je suis Charlie - le prime frasi

A quasi due settimane di distanza pubblico le prime parole scritte quel pomeriggio, mentre ero al
lavoro con le scadenze che premevano.
No, non mi passa, e non mi passerà presto, penso.
Nessuno verrà a cercarmi per spararmi un colpo in testa per farmi tacere come loro, con ogni probabilità. Sì, perché non pensiamo ai killer che entrano sfondando platealmente la porta e tirando raffiche come in un (brutto) film USA. No, la cosa si è svolta molto lentamente, è durata diversi minuti. I colpi sono stati esplosi l'uno dopo l'altro, con accuratezza, con calma. Alla testa. Cabu, Cayat, Charb, Tignous, Wolinski sono morti così. Un'esecuzione mirata, senza nulla di rocambolesco. 
Io non sono importante, non sono visibile, non faccio discorsi rilevanti nello spazio pubblico. Obiettare all'interno di sé stessi o in una ristretta cerchia è in fondo poco temibile, ecco perché il nicodemismo è stato tollerato in Italia e combattuto da Calvino. E' quando il discorso diventa pubblico, è quando raggiunge i media e la dimensione collettiva aperta e larga che va combattuto, osteggiato, proibito. Ristretto. Condannato. Ucciso, infine, se non impara. Ce lo insegnano le guerre di religione del XVI secolo, dal cui fiume di sangue nasce la prima nozione di tolleranza e laicità. Ne vedremo qualche cosa più avanti.
Ma ora lascio le parole scritte quel giorno.
  

Uccisi per avere disegnato
Allah est vraiement très grand, mi scrivono, calcando sul paradosso. [Ovvio che in questa storia se c'è qualcuno che non c'entra è Allah. O qualcuno dei suoi omologhi.] 
  On ne tire pas à balles sur les crayons rispondo io. “C’est la première des choses”, osserva qualcun altro cui paradossalmente tocca a me dare la notizia commentando che il suo  paese proprio non lo merita (paradosso o integrazione?). «Se cominciamo a fare così qui, non ci si ferma più, continua. Mais le monde est des fous».
Difficile ricominciare a lavorare come se niente fosse eppur bisogna, qui, questo pomeriggio. Se la Francia non lo merita, meno che meno lo meritavano loro. Una redazione falciata da un commando di tre persone, coperte di nero dalla testa ai piedi, armate di mitra. I politici che chiamano all’unità nazionale (che solerzia. In Francia è in discussione la legge Macron, concepita nel solco delle politiche più devastatrici della UE). Non credo vi siano precedenti per un simile attentato in Europa, nemmeno in guerra, forse, ma dico forse, nemmeno nel biennio delle squadracce fasciste –  difficile individuare un precedente peggiore e grazie comunque per eventuali precisazioni documentate. In mezzo i dodici morti del settimanale Charlie Hebdo, una rivista di satira dove oggi si svolgeva una riunione di redazione alla presenza di tutti o quasi i componenti del giornale. Quattro disegnatori uccisi. Ripetiamolo per tentare di capirne il senso. Quattro disegnatori ammazzati, oltre ad altre otto persone, più quattro in fin di vita. Una rivista spazzata via. Diverso tempo fa, un numero di Charlie Hebdo aveva suscitato le ire di alcuni personaggi di fede islamica per alcune vignette su Maometto. Prima come poi, si era occupato di molto altro. In una storica brasserie rossa e bianca, lontano da Parigi, apprendo la notizia. Ne ho ascoltate di notizie di morti e di attentati e di guerre e di bombe: tutta la nostra storia recente ne gronda. Ma questa è la prima volta in cui mi colano i lagrimoni nella minestra di verdura con cui mi stavo scaldando. Sto invecchiando, mi dico. Nel caffè sono tutti molto discreti, ci sono credo sei televisioni accese ma nemmeno in questa circostanza si sente un soffio, perché, civilmente, sono senza audio. Il personale approfitta dell’apparecchio più in disparte, dove il volume è appena percettibile, per tornare a  riferire qualche particolare: la riunione, il fatto che la redazione sia stata decapitata, la rivista che probabilmente non potrà più uscire (e pare avesse anche delle difficoltà economiche, come tutta la stampa del resto). “C’est enorme” mormora un ragazzo davanti allo schermo.
Le facce dei quattro disegnatori morti, dai trenta ai cinquanta anni forse: allegre, felici, vestite semplicemente; per nulla fotogeniche o divistiche. Persone che vanno al lavoro, anche se malpagato e incerto (la rivista non andava bene e tutti ne avevano almeno due o tre), con l’aria di divertirsi come matte, e sentirsi in pace con sé stesse e con il mondo. Ma non fuori dal mondo, al contrario. Bellissimo privilegio… ma perché oggi siamo ridotti a chiamarlo così: privilegio? La dignità di vita. Falciate dalla crudeltà umana. Al servizio del mostro di sempre: l’oscurantismo. Che mai risparmia le genti del libro, della conoscenza, dell’espressione. “Un attacco alla democrazia” dice l’imam di Drancy. No: un attacco alla libertà di essere, di pensare, di vivere. La democrazia è questo? Non so. In effetti ho la testa vuota di pensieri di parole, di riflessioni. Cosa che mi accade difficilmente. Il colpo è troppo violento. Non s’è sparato nel mucchio, non s’è colpito a caso. Non colpisce un’azione, colpisce un’idea. Un pilastro del nostro mondo, dell’umana civiltà. Mi viene in mente soltanto che loro scrivevano, disegnavano, pensavano. Cercavano di fare riflettere. Distaccare emotivamente dalle cose più atroci facendo ridere per poi permettere di pensare. Smuovevano la nostra indifferenza con lo stesso mezzo, per farci andare oltre quello che si vede. Cercavano di insegnare a trovare un filo alla realtà. Anche quella scomoda, anche quando prima di ridefinire le proprie posizioni si viene messi a disagio. Ma solo così si può costruire sé stessi e il proprio destino. Non gliel’hanno perdonato. Questo era il nemico. Questo è il nemico, un tempo come sempre. N’importe chi sia il censore: il re o la regina, il papa o la papessa, il dittatore o la dittatrice, il politico o la politica, l’imprenditore o l’imprenditrice, lo speculatore o la speculatrice, il boss mafioso o la boss mafiosa, Jorge contro Aristotele, o i volenterosi esecutori. Non dovete pensare, non dovete osare, non dovete parlare. Dovete tacere, dovete accettare, dovete distrarvi. Tornate a casa. Parlate della nuova compilation, andate al supermercato, leggete la stampa scandalistica, ciarlate a vuoto sulle reti sociali. Non scuotete l’uniformità. Imporre il consenso, imporre il silenzio, imporre la paura. Imporre, abituare alla sottomissione. Imporla non solo esteriormente, ma imporla ai cervelli: che ovviamente danno subito la stura alla vecchia, cara scusa degli imbelli repressi contro le ragazze in minigonna: “Se la sono cercata. “ Sottinteso: “Vedi come sono furbo io? Sto zitto, non pesto i piedi e mi faccio gli affari miei.” Tuoi? 
Tu, stolto, tu credi di farti gli affari tuoi: ma cosa siano gli affari tuoi, cosa siano i tuoi interessi, l’hai lasciato e lo lasci decidere a loro per te. 
Rimpiango che all’indomani di queste spietate esecuzioni non si analizzi mai cosa cambia, non nella vita spicciola di una società, ma a macro livello. Avete presente le solite geremiadi: “Abbiamo paura la sera, non ci fidiamo più; oh com’erano belli i bei tempi”. Ecco, no, non quello. Cosa cambia sì, ma nelle scelte politiche,  economiche  e sociali. A cosa ha portato in termini di evoluzione politica, la selvaggia ecatombe di Utoya? Questo potrebbe darci una chiave di lettura del fenomeno, una chiave del terrore, quello più insidioso, di oggi.




giovedì 22 gennaio 2015

Je suis Charlie - Réponses

"Tu non ci crederai, ma tutta questa situazione mi angoscia, mi fa fare incubi la notte e mi fa pensare che no, non è possibile disprezzare la Vita solo perché esistono Altri che la pensano diversamente. (...) Sento proprio un dolore nel cuore per tutto quello che accade agli altri, animali inclusi. Mi sento fuori dal mondo, pur stando nel mondo."
Questo me lo scrive una poetessa. E io le dedico questa lettura sulle lagrime di Averroè, perché la poetessa ama anche molto insegnare.
Ma ricevo anche lunghi commenti da due blogger (uno ha appena annunciato degli spiedini di maiale - aiuto! e se fosse un insulto? - e io ho appena comprato il necessario per farli) e mi rendo conto che per replicare nei commenti non basterebbe un lenzuolo. Perciò, dopo avere risposto ad alcune osservazioni puntuali sotto i rispettivi post, le riflessioni più generali che ne sono scaturite le scrivo anche qui.


La tutela della libertà di espressione serve proprio ad evitare che simili suscettibilità facciano legge. Stabilendo peraltro che qualora sorgano delle discriminazioni oggettive o dei danni oggettivi a singoli o a gruppi dall'uso di questa libertà, esso può essere sanzionato.
Difficile rintracciare questi estremi nella vicenda CH - il giornale fu processato e assolto per le vignette in questione - che non ha mai incitato all'odio, né obbligato alcuno a leggerlo, ma si è  limitato a commentare la cronaca nei suoi lati assurdi e ridicoli, senza basarsi, come altra stampa fa, sull'insulto onnicomprensivo fine a sé stesso prendendo di mira qualcuno senza motivo e senza occasione. Lo fa da giornale satirico, ovvio. Quindi esagerato, perché deve colpire, spiazzare le proprie certezze e far pensare. Far ridefinire i propri valori. Far riflettere sulle proprie reazioni. Un credente o chiunque invece di scandalizzarsi, innanzitutto si gioverebbe del riflettere e ribadire più articolatamente ciò in cui crede avendo sormontato gli eventuali attacchi alle sue certezze e alla sua tranquillità quotidiana che la lettura può avergli dato. Lì sta la forza delle idee o della fede: nella capacità di ridefinirle anche davanti a chi le mette in difficoltà.
Tra i balordi che hanno distrutto tante vite comprese le loro e chi gli ha armato la mano e lavato il cervello di acqua sotto ai ponti ce ne passa. CH vendeva 20mila copie: figuriamoci se era la prima preoccupazione di piccoli criminali disoccupati e quant'altro delle borgate parigine. Ma qui c'è una lunga storia che parte da Rushdie ed arriva ad oggi: ed è quella appunto di voler far sentire il controllo sulle discussioni e gli argomenti ammissibili nello spazio pubblico dei paesi occidentali. Spostando su di essi la questione dei rapporti di potere tra stati (non tra civiltà, attenzione). Farne oggetto di azione politica e questione essenziale per i credenti a livello universale, prima di ogni altra cosa. Nello stesso tempo ricompattando tante tensioni all'interno dei paesi arabi (detto sbrigativamente, l'Iran non è arabo) e additando come causa di tutti i mali interni ed esterni non tanto l'Occidente come sistema, (che le sue responsabilità le ha, purtroppo), ma qualche inerme personaggio armato solo dell'intelligenza e purtroppo sempre più bisogna dire del coraggio, e proprio non dovremmo, no, mai, pensare che ci debba volere del coraggio per questo, per scrivere o disegnare su qualcosa che è anche un simbolo religioso. Che poi è anche molto altro, e non appartiene ai soli musulmani - pensiamo se sulla Chiesa potessero parlare solo i cattolici o sulla Bibbia solo gli ebrei,  finiremmo col creare una serie di argomenti tabù senza il minimo senso: sulla mafia solo i mafiosi? Cioè il controllo degli individui, delle loro mentalità, delle loro scelte quotidiane, cosa che le religioni comprendono e manipolano benissimo e i paesi teocratici praticano comunemente come mezzo di controllo politico (vedi post precedente).
Questione molto più complessa ciò che realmente si proponevano gli attentati, gli attentatori e i mandanti di Parigi. Non sarei certissima che tutti volessero e vedessero le stesse cose allo stesso modo. Rimpiango l'impossibilità di ascoltare la versione degli esecutori, di decifrare le loro spinte e le loro mentalità. Sarebbe molto utile, per il presente e per il futuro. Resto comunque convinta  che nella complessità interna e senza dubbio internazionale che può circondare questo attentato, esso si iscriva in quella linea di pensiero variamente poi attuata, ripresa, riutilizzata in contesti diversi, che parte dalla fatwa di Komeini contro Rushdie e che ha fatto infinite vittime in giro per i paesi arabi se non nell'Occidente. Vale a dire la ridefinizione di ciò che è lecito discutere o vivere nello spazio pubblico, specialmente se di rilievo internazionale, ma non necessariamente. Ciò per me è la cosa più rischiosa: perché hai ben a esecrare chi mette bombe a caso, ma attentati come questi sono profondamente divisivi delle comunità fra loro, respingendole in un contesto di appartenenza e di valutazione su un fatto privato come la religione, come puntualmente si verifica con tutti i distinguo su CH, anziché pubblico, come la cittadinanza e i suoi valori condivisi. Cioè praticamente annullando quello che ha fatto di meglio il mondo europeo. Con limiti, incompiutezze, contraddizioni, ma la cosa non mi sorprende, né mi paralizza: sono concetti che hanno 300 anni e implicano ridefinizioni dei contesti economici e sociali, le religioni istituzionalizzate, molto meno rivoluzionarie da questo punto di vista, quanti? Dovremmo rinforzarli e dargli tempo, invece di concentrarci sulle identità religiose e sulla separatezza dei discorsi leciti, come se giustapporre monadi silenziose insegnasse a convivere.
Plus fort que le glaive est mon esprit, leggevo per tutti questi giorni su un muro ogni mattina, andando a lavorare.
Ciò posto, resta la domanda (posta da uno dei due blogger) del cui prodest, e se ovviamente per Komeini si trattava di compattare un paese in cui veniva imposto uno stato profondamente repressivo e dove una guerra lunga e sanguinosa si era appena conclusa con un nulla di fatto (i territori occupati dagli iracheni non erano stati restituiti), dietro l'idea che il male venisse da un fuori corrotto e ostile, il che gli dava anche l'occasione di porsi come leader per i musulmani del mondo, oggi la cosa è meno decifrabile, per me, nel senso che non ne so abbastanza. Sono abbastanza convinta però che quella fatwa abbia svolto il ruolo di ridare alienata perversa e letale dignità allo sfogo di frustrazioni nate altrove, e in cui ovviamente la religione c'entra zero. Ma questo lo avevo già scritto. Però di nuovo fa sentire importanti poter dare la colpa a una matita da spezzare (o pensare di fare da appoggio alla fuga di chi l'ha spezzata). L'anello di congiunzione che scatena l'occasione di oggi, quello non lo conosco
. Comunque il terrorismo ha sempre uno scopo, non è il mostro che sorge dal nulla e che non vuole nulla. Per questo penso che la risposta debba passare per parole d'ordine più articolate del "no alla violenza": vogliamo dimenticarci quanto esecutori e mandanti ma anche molti simpatizzanti parziali conoscano un contesto violento dalla nascita? Che possono recepire da un mero "no alla violenza"? Su quale prospettiva? su quale alternativa? Quali parole positive di incontro trovare per loro e per tutti? Per questo ritengo assolutamente indispensabile smontare il presupposto mentale dell'Occidente che insulta l'Islam, sia perché non si tratta di realtà monolitiche, sia perché solo rilanciando su un valore più ampio e più complesso quale la libertà reciproca di fare e non obbligare (e secondo me la reazione spontanea dei Francesi per cui questi sono sostanzialmente valori profondamente sentiti e condivisi era soprattutto in difesa di ciò) smonterai quel meccanismo infernale di identificazione del nemico e autoidentificazione comunitaria nell'antibuoncostume da abbattere per essere riconosciuto in casa e in paradiso.
Oltre a tutta una serie di questioni sociali, ovviamente, ma di questo se n'è parlato a iosa.

venerdì 16 gennaio 2015

Je suis Charlie - Aux kiosques citoyens

Mi piacerebbe riportare il nome del disegnatore che inventato quest'arma, oltretutto complicatissima da imbracciare per chi volesse farlo in maniera ortodossa. L'immagine è pubblicata dall'agenzia di stampa Reuters, ma il nome dell'autore, come troppo spesso accade, non compare. Si può supporre che sia sudamericano.
Mercoledì sera all'edicola della stazione di Strasburgo un cartello scritto a penna informa che Charlie Hebdo è terminato. Ma "ci saranno consegne giovedì e venerdì" prosegue, per poi aggiungere sotto, di mano diversa "e sabato".  La prima tiratura del settimanale, che resterà eccezionalmente in edicola quindici giorni, è andata esaurita. Speriamo continui così. L'edicolante ha allestito un piccolo stand con tutto ciò che è uscito sulla vicenda Charlie Hebdo. Faccio incetta di varia altra carta stampata e a p. 13 di questo quotidiano trovo una piccola citazione. "Un cittadino che si interroghi sul wahhabismo in Arabia Saudita o lo sciismo in Iran è automaticamente considerato blasfemo. Può essere condannato a mille colpi di frusta e dieci anni di prigione, come Raif Badawi in Arabia Saudita o alla pena di morte, come Soheil Arabi in Iran (la sentenza è stata confermata in dicembre)." (Joelle Fiss.) Oggi la notizia della condanna di Badawi è visibile anche sul sito internet. In quei paesi, prosegue il giornale cartaceo di mercoledì 14, le leggi antiblasfeme servono a rinforzare le dottrine teologiche di stato, in cui cioè la religione è parte inscindibile dell'organizzazione statuale e pubblica. Se ti salta in mente di aprire un blog per discutere anche di religione, potresti ritrovarti accusato di slealtà verso il sovrano, attentato alla giustizia e creazione di organizzazione non autorizzata. Peggio ancora di apostasia, che prevede la pena di morte. «Dès qu’un penseur commence à exposer ses idées, on peut trouver des centaines de fatwas l’accusant d’être un infidèle, simplement parce qu’il a eu le courage de discuter de certains sujets sacrés», faisait-il par exemple remarquer sur son blog. «Je suis vraiment inquiet à l’idée que les penseurs arabes puissent migrer ailleurs pour trouver de l’air frais et échapper au glaive des autorités religieuses.» Ou: «La laïcité est le meilleur refuge pour les citoyens d’un pays(sottolineature e grassetto miei). A pensarci bene, i post di Badawi non erano nemmeno del tutto esenti da sarcasmo. Secondo Amnesty international che ne racconta la storia, uno dei capi di accusa era l'aver parlato della festa di San Valentino. concludendo addirittura così: "Grazie alla Commissione per la vigilanza del vizio e la protezione della virtù e alla sua volontà che tutti i Sauditi vadano in paradiso." Eh, qui da me avrebbero sospirato. "On ne fait pas le bonheur des gens malgré eux." San Valentino, poi. Una festaccia, lo so: spesso il colmo del peggior cattivo gusto commerciale gratuito che insulta e profana la nostra religione con rappresentazioni offensive di gadget privi di rispetto per il sacro. E poi, tutto quel parlare di sesso e vita sessuale. Ma che volete farci? Bisogna tollerare, tollerare... oppure, ad esempio, provare a firmare la petizione di Amnesty per ls sospensione della pena, qui. O chessò, pubblicare una vignetta per chi è capace di disegnare... Oppure diffondere la notizia. Basta non stare zitti.
Ma il caso di Badawi non sarebbe isolato. Blogger, cittadini, associazioni per i diritti civili sauditi sarebbero sempre più controllati per la loro attività in rete. 
Anche quando semplicemente raccontano.
"Alla fin fine serve a reprimere le minoranze religiose o atee, i dissidenti politici, o qualsiasi intellettuale che discuta o si beffi della teologia ufficiale dello Stato", conclude Fiss.
L'ambasciatore saudita era presente alla manifestazione di domenica a Parigi. Al di là del rituale diplomatico - lutto nazionale, una partecipazione è di dovere - diversi governanti di paesi arabi hanno sfilato. Anche in quei paesi ci sono organizzazioni integraliste: persino in Arabia Saudita vi sono stati attentati. Oltre a mostrare solidarietà e a manifestarsi estranei agli attentatori di Parigi quelle presenze vorrebbero indicare la non disponibilità a livello ufficiale a coprire certi gesti. Non necessariamente un atteggiamento di apertura all'interno di quegli stati.
Intanto in Francia una rivista gesuita, Etudes, ripubblica le tevvvvibili caricature del sulfureo Charlie sul papa emerito innamorato di una guardia svizzera, su Gesù che vuole votare al conclave per non essere lasciato fuori dalla sua Chiesa, sul papa in carica abbigliato da travestito a Rio per acchiappare clienti, invitando con molto buonsenso i cattolici a non prendersi troppo sul serio: l'humour è un sano antidoto al fanatismo e poter ridere di sé stessi è un segno di forza. Allo scandalo "dei piccoli" si reagisce con il senso critico e la riflessione.
Ma no? Dove ce l'eravamo dimenticato? in quale abisso di ignoranza, di debolezza e di paura? E l'insulto? La profanazione?
Se a Sant'Ignazio ne è scorsa di acqua (e se ne sono fatti di sentieri) dall'Encyclopédie, altrove si sta tornando indietro.
Putiferio. La rivista cancella la pagina con le vignette. Rimane un commento di perfida abilità: in cui si riesce a assolvere, anzi a difendere fermamente, il principio in maniera impeccabile e a ribaltare la responsabilità di quelle dodici morti: un pretesto. Istruttivo. Pacificatorio. Solvente. Da leggere.
I lettori, improvvisamente balzati a cifre record, discutono accanitamente. Seguitate, via, bravissimi, avrebbe cantato il poeta.
Qui commentano: "Mais qu'ils [Charlie hebdo] crottent qui veulent. C'est tout."

In questo giorni sto leggendo una quantità di stampa, su carta, che mai avrei pensato di sfogliare.  I balordi di Parigi avranno creato un'appassionata curiosa di satira in più. Son soddisfazioni.

Aggiornato il 16 gennaio 2015.

martedì 13 gennaio 2015

Je suis Charlie - Images

Fotografato in place Kléber, Strasburgo.
Pubblicato credo da qualche parte che non conosco.
(Cliccare sulla foto per leggere il testo.)



Come dimenticare che per averle usate non potrenno più farlo?



La direttrice del museo delle Belle Arti di Strasburgodesidera raccogliere i cartelli, i disegni, i componimenti, i collage realizzati nel corso di queste giornate e deposti spesso in place Kléber, attorno a cui si è svolta domenica pomeriggio una manifestazione di ampiezza senza precedenti in città. Non pensa di realizzare una mostra specifica ma di integrarli nel percorso delle sale del museo. Per lei si tratta di conservare le traccee  le produzioni visive di un momento rilevante nella storia cittadina. Probabilmente sarà realizzato anche un progetto più specifico con gli allievi della scuola nazionale di Belle Arti di Strasburgo.
Quanto alla BnF una mostra loro l'hanno allestita. Del resto ce l'hanno in casa, per così dire. Hanno anche proiettato su una delle loro immense torri una vignetta di Wolinski, visible seguendo il link.

sabato 10 gennaio 2015

Je suis Charlie 3 - Sang

Sangue, ancora sangue. Ancora sangue gente mia, paese dell'anima e del cuore. Basta, fermati,
  rifletti. Guarda il tuo passato, il tuo presente. Progetta il tuo futuro. Non te lo lasciar strappare. "Ouvrez des écoles, vous fermerez des prisons": ce lo avete detto voi, noi?  La compostezza della tua gente, lacrime sul ciglio e fermezza nel contegno. C'è anche chi trova tutto questo troppo retorico, troppo strumentalizzato dai politici a caccia di consensi. "I principi repubblicani" che soffio d'aria pura rispetto a un paese feudale e bigotto come il nostro, in cui già si è partiti con i distinguo su cosa si può satireggiare e cosa no, e su quanto la sappiamo lunga noi politically correct scaltriti sull'odio razziale povero bruttosporcoecattivo, eh - ma no?
E quanto tutto questo sia fuori dal mondo rispetto al palpito di chi qui piange senza volersi esibire, di chi si sorride timidamente tra sconosciuti per strada, tra chi si sente di dire: "Non siamo d'accordo, bene, non importa. L'importante è poterlo dire", tra chi silenziosamente con sé stesso, apertamente con gli altri e in pubblico dice senza cedimenti no, non qui. Con l'emozione che nasce dalla lucidità della ragione. "Charlie Hebdo n'était pas ma tasse de thé, et alors?" sottinteso: permettiamo che qualcuno pigli e spari? Ci fermiamo a fare distinguo tra chi lo trova bello e chi no? Non si spara sulle matite e sulle opinioni è un valore pubblico ed acquisito che va difeso, un fondamento di condivisione sociale, un pilastro della convivenza; la propria opinione sul valore di una rivista di satira è un fatto personale, del tutto legittimo ovviamente, che viene molto dopo. Soprattutto, sta su tutt'altro piano. Altra scala.
Ieri sera su France 3, che in questi giorni ha sempre "Je suis Charlie" sui suoi programmi, è stato trasmesso il documentario Caricaturistes fantassins de la démocratie di Stéphanie Valloatto, in cui dodici vignettisti di tutto il mondo raccontano il loro mestiere. Plantu di Le Monde, ricordando di essere stato considerato di volta in volta islamofobo e islamofilo, antisemita e filoisraeliano, fascista e comunista e chi più ne ha più ne metta, dice: "Oggi il vero problema del caricaturista [ovviamente in Europa] non è tanto la censura, ma il politically correct. Questa falsa gentilezza, questa falsa uniformazione, questo falso rispetto: una maniera ipocrita di essere educati e corretti." Non riesco a non avvicinarlo al "Non giudicare" che va di moda oggi. Che detto così non vuol dire nulla, e fa semplicemente il gioco del più prepotente, del più menefreghista, e del più forte. Non dovrei dirlo, perché non ho letto il suo libro, ma Indignez vous mi sembra più interessante come motto. Perché implica una scelta e un'attività di comprensione, non il tacitare i propri dubbi, le proprie incertezze, le proprie legittime domande. Il silenzio uccide, il silenzio non è mai rispetto. Il silenzio è isolamento, o autoisolamento.
Mercoledì 14 gennaio Charlie Hebdo uscirà come al solito, in tiratura eccezionale di un milione di copie. La redazione decimata ha scelto di preparare questo numero con le sole forze restanti, malgrado le offerte di tanti disegnatori e giornalisti. Speriamo le copie vadano esaurite tutte. Brutto o bello, non è quello il punto. Nemmeno un po'. Qui la maggioranza lo dà per scontato. Da noi siamo assai lontani.
Continua.

giovedì 8 gennaio 2015

Je suis Charlie 2 Mots

«Il ne faut pas laisser le silence s’installer, il faut vraiment nous aider. Maintenant il faut qu’on soit groupé contre cette horreur. La terreur ne doit pas empêcher la joie de vivre, la liberté, l’expression — je vais employer des mots à la con — la démocratie, c’est tout de même ça qui est en jeu. C’est cette espèce de fraternité qui fait qu’on peut vivre. Il ne faut pas laisser ça, c’est un acte de guerre. Peut-être que cela serait bien que demain les journaux s’appellent Charlie Hebdo. Si on titrait tous Charlie Hebdo. Si toute la France était Charlie Hebdo. Ça montrerait qu’on n’est pas d’accord avec ça. Que jamais on ne laissera le rire s’éteindre. Jamais on ne laissera la liberté s’éteindre. »
Philippe Val, ex direttore di Charlie Hebdo

mercoledì 7 gennaio 2015

Je suis Charlie - Nomi

Cabu, Charb, Tignous, Wolinski, disegnatori Honoré, Mustapha Ourad, Bernard Maris, giornalisti, Michel Renaud invitato della redazione, Franck Brinsolaro della sicurezza, Ahmed Merabet, più uno sconosciuto, uccisi da un commando di tre persone per avere fatto parte della redazione di Charlie Hebdo.Altre undici persone ferite, di cui quattro gravi. 
Non ho connessione e non posso pubblicare quanto ho scritto. Ma stasera volevo lasciare almeno una traccia dello strazio di quanto è successo al paese che amo più che tutti, e a tutti coloro che amano le matite e non le pallottole. 

lunedì 5 gennaio 2015

Con azucar, con canela



Post lungo e riflessivo…

Poco da fare. Si sa che non sono alla moda. Allora, perché tentare di voler sembrare ciò che non si è, dice sempre lei.
Le feste di fine anno mi piacciono. Un sacco. Da sempre. Come i dolci che le accompagnano. Finora non ci sono segni di cambiamento, né di convinzione né di sentire. Né quando ho festeggiato, né quando non è stato possibile farlo. Né su un treno, né a letto con la febbre – ciò che mi capita a volte, perché le vie respiratorie sono il mio punto debole, e grazie – ma mille volte grazie sentitamente – a tutti coloro che, dimenticandosi del sacrosanto tutti sono utili, nessuno è indispensabile, decidono che loro “se la fanno in piedi”, perché non possono fermarsi, perché a casa non ci sanno stare, perché se no crolla l’ufficio, perché “tanto non ho la febbre“, perché loro sono più forti, più bravi, più sportivi, più competitivi (ma andassero alla Toyota), più protetti dal dio della soia, più a contatto con le potenze invisibili o so io. Di certo sono piùn nel regalare generosamente microbi a chi è costretto a stargli intorno dai loro sfoggi di eroismo, o addirittura malinteso civismo, non c’è che dire, e a causare problemi ben peggiori dei loro al loro prossimo. Questo post non si sarebbe trasformato nell'elogio di cotanti eroi del nostro tempo se non fossi da due mesi impelagata in un’infezione che non passa, bensì passeggia da un organo delle mie vie respiratorie all’altro, soggiornandovi a quanto pare con suo estremo diletto, e non fossi, con le poche forze che ho ancora e il portafogli ormai gonfio di azioni di fabbricanti di fazzoletti, antinfiammatorii e medicine varie, assolutamente fuori di me per il tempo, le energie, le occasioni e i


doveri che ho dovuto buttare tentando, ahimé invano, di migliorare. Finisco per sbadataggine con l'annegare le passioni nei fomenti... E no, il vaccino serve per proteggere chi ha patologie serie, gli anziani, i cardiopatici. Non sono ancora in quelle condizioni e non ne approfitto, quindi. Ma quando sento, o leggo, dell’ennesimo che proclama, con malcelata soddisfazione per la propria performance: “andavo in giro con la febbre a 39°, passata in tre giorni tutti in piedi, basta avere la volontà di non dargliela vinta”, be’ la prossima volta che sternutisce avrei voglia di fargli un bondage preventivo per la salute pubblica (e forse, hai visto mai, anche per il suo ego prestazionista), bene più prezioso di una prestazione privata. [Ciò che scrivo non si applica ovviamente a quanti, magari precari o in nero a causa di mancati controlli e di una legislazione scellerata, sono costretti a lavorare col ricatto anche se stanno male. In quei casi dovrebbe finire al fresco il datore di lavoro e restarci molto ma molto a lungo.] Sfogato appena il pessimo umore, ritorno a dire che per me il periodo tra vigilia e epifania è sempre stato uno dei più belli, di cui ho sempre tentato di approfittare godendomene ogni singolo giorno. Certo, ho avuto la fortuna di godermi quelli della mia infanzia in una bella atmosfera familiare, in tanti, anche se pochi bambini, ragionevolmente sereni, solidali, di poche smorfie e con la voglia di stare insieme e passare qualche ora distesa gustando quei piccoli piaceri che bisogna saper accogliere. Attorno a me non è stato sempre idillio per tutti, ma non ho mai visto i drammi, gli odi, i conflitti, i geli, i silenzi che fanno proclamare a troppi la loro antipatia per questo periodo. Per fortuna, nemmeno i lutti.
Sono poco compatibile con la routine e la ripetitività (motivo per cui, ad esempio, mi trovo molto poco a mio agio in palestra, dove bisogna ripetere qualche centinaio di volte lo stesso movimento fine a sé stesso, e per fare attività fisica devo esser immersa nella natura). Quel che trovo irresistibile nel periodo di fine anno, diciamo fra il solstizio e l’epifania, è innanzitutto il carattere di eccezionalità. Astronomicamente e culturalmente in primis, ovviamente: la scomparsa e la rinascita della luce, il passaggio degli antenati simboleggiato da santa Lucia, le feste di Yalda, capodanno persiano giusto la notte del solstizio e ricordo del più importante culto misterico insieme a quello cristiano che poi si appropriò della data: Mitra. Ritualmente poi. Sono i giorni del tempo sospeso, in cui si fa ciò che non si fa di solito, si prendono altri ritmi, ci si riposa e si festeggia, e per chi può permettersi di stare a casa (e ha familiari collaborativi e gli elettrodomestici necessari), si gestisce il tempo in maniera autonoma. Trovo bellissimo il gesto di scambiarsi dei doni augurali, che viene dall'antica Roma.
Prendersi il tempo di accendere una candela per la colazione con il dolce del mese. Perdersi nel contemplare un mazzo di fiori comprato per far bella la casa. Cucinare piatti più lunghi ed elaborati. Un rifiatare necessario, un riappropriarsi, anche, di ritmi e
attività spesso perdute nel corso dell’anno. Anche se si ha famiglia, si può. Ricordo un Capodanno in una grande casa del senese: 5 coppie e 8 bambini. Li si vedeva appena passare come un soffio frusciante, un lieve trapestio di piedini sempre di corsa, i musini seri e assorti che solo i bambini sanno avere quando si divertono, volando in gruppo da una stanza all’altra. Mai un pianto, mai un capriccio, mai uno strillo, mai una testa rotta, mai un bisticcio ci arrivarono alle orecchie per tre giorni. La sera crollavano presto, lasciandoci davanti al fuoco in assoluta tranquillità. Sarà perché facevano tutti la Montessori? O perché tra fratelli non venivano tollerati dispetti e sopraffazioni da parte di genitori intelligenti e determinati ad intervenire da sempre per imporre il rispetto reciproco, al posto del solito, variamente declinato, “Sono fratelli, è normale che si menino, bisogna che imparino a cavarsela [ovviamente quando uno è il doppio dell’altro, per stazza o per aggressività] anche io…ecc.”? Bah. Fatto sta che la prole non è necessariamente un ostacolo totale al disporre del proprio tempo in ragionevole tranquillità, come sa anche chi abbia frequentato una buona parte delle famiglie francesi. 

Forse perché vengo da una famiglia modesta, di piccola borghesia e anche meno, nonché abbastanza spartana, quelle feste erano veramente l’occasione per tante cose che nel corso dell’anno non c’erano e non si facevano. Non erano lo spreco del superfluo, ma una necessità preziosa, di gioco, di cambiamento, di distrazione.

Mi piacciono albero e presepio, purché non di plastica. Ricordo quello dei miei nonni, acquistato un pezzo all’anno tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta. Veniva steso sul lungo buffet del salone ricoperto di muschio che si attaccava ai maglioni, completo di lago e fiumicello costruiti dal nonno ogni anno in maniera diversa, sulle cui rive si mettevano i pescatori. Lo specchio del buffet lo raddoppiava. Ricordo le bellissime palle di vetro in due misure, verdi e giallo oro, un po’invecchiato,

o rosso cupo. Il filo d’argento (altri colori non erano tollerati), il puntale lucente, l’uccello dalle piume dipinte di rosa e oro. Il profumo degli aghi di pino, quelli rotondi, non i piatti che oggi non hanno più odore, che facevano impazzire la nonna perché cadevano sul pavimento del salone. Lo stesso salone, la sera del 24 si copriva di pacchetti non certo lussuosi, ma piacevoli, quasi sempre utili, e accurati, anche se negli ultimi vent’anni il potere d’acquisto della nostra famiglia, come di molte altre, è stato follemente eroso da una politica economica e sociale irresponsabile e assassina, che distrugge quanto di più civile l’Europa a cui si richiama ha saputo produrre. 
Oggi che quel salone non c’è più e la perdita mi strazia ancora, addobbo gli alberi che ho sottomano, con la soddisfazione di sapere che sopravviveranno 
oltre la Candelora. In anni più vicini, il pensiero dell’abete sradicato dai suoi monti non mancava di scatenarmi tristezza. Scartati i regali, i giorni successivi si passavano ad usarli: nel mio caso ciò significava leggere tutto il giorno nel tepore della casa e nei profumi del cibo, o, più tardi, ascoltare musica del XVIII secolo. Il tempo, ancora oggi, di godersi un lungo meritevole film che altrimenti avremmo forse perso: quest’anno questo. Preparare la casa arrendandola con piccoli lussi. Era gradevole vestirsi tutti in maniera più curata del solito, con colori insoliti, fogge poco usate. Le festacce di Capodanno gratuitamente chiassose, in fredde case di villeggiatura o locali scelti con chissà quale criterio da chissà chi dove si arrivava chissà come, il conto alla rovescia con la bottiglia in mano davanti a uno show televisivo girato chissà quando, non mi hanno invece mai attratta, più spesso delusa, ma amici scelti in un ambiente confortevole, o la musica amata e le stelle purissime nell’aria nera, o un
ristorante tranquillo sì. Le elegantissime signore di Siviglia, fresche di parrucchiere e  con il cappotto di cammello, cantare in coro sotto gli aranci, davanti a una piccola chiesa di cui non ricordo il nome, le loro canzoni del Natale e i corali di Bach. Ah, i giri di valzer in piazza a Vienna a mezzanotte, attaccata a un cappotto di cachemire foderato di rosso cupo, mentre i piedi negli stivali imbottiti di pelliccia facevano scricchiolare la neve ghiaccia. La notte del 2008, la prima in quella casa, mi regalò invece una splendida, visibilissima, indimenticabile eclissi di luna. Un vero lusso. Per non parlare dei fuochi: quando ero piccola visti dal balcone della casa dei nonni e poi sempre amati visceralmente. Era un
quartiere popolare: i bengala si scatenavano con i loro fischi da sirena, dietro l’angolo della casa, e noi ci imbacuccavamo per scapicollarci fuori sui lunghi balconi dell’ottavo piano e non perderne neppure uno. Il cielo impazziva da ogni parte, ognuno era specializzato in qualcosa: chi gialli, chi bianchi, chi blu. Chi si alzava a razzo, chi ricadeva a torrente in mille scintille. Il nostro balcone, molto modestamente, si riempiva di piccole stelline nate con un po’ di timore da cilindretti grigi. I botti no, quelli non erano graditi e non se ne facevano mai.  La mattina dopo si ascoltava il concerto da Vienna, grande passione del nonno che se lo godeva tutto seduto sul divano, abitudine poi sempre seguita in sua memoria. I ravioli di carne cotta fatti a mano del primo dell’anno o che chiudevano il tutto il giorno dell’Epifania, ognuno debordante dal piatto, il sugo denso di pomodoro delle case lombarde, erano un altro segno rassicurante di quel periodo di eccezione. Sperimentavo i miei primi tentativi culinari: ricordo il successo di una torta ai cardi in collaborazione con mia zia, la quale detestava cucinare e si prendeva il lavoro più noioso (pulire i cardi in questo caso) perché così non doveva pensare. Mi piaceva, e mi piace, l’idea di un pranzo più accurato del solito, con i piatti tradizionali che non si preparano di solito, più ricco e più vario. Adoro gli avanzi che rimangono nei giorni
successivi, perché prolungano quella festa togliendoti in più l’impegno di pensare al cibo quotidiano. Trovo ridicolo l’afflato di controllo che pervade il mondo reale quanto virtuale davanti a quelle forse sei? (a fare l’en plein - noi spesso lo facevamo eppure non siamo mai stati obesi), occasioni conviviali, (o davanti ai pacchetti): come disse in una frase di immortale buonsenso un foodblogger degno per questo di imperitura memoria, il problema non è quel che si mangia tra Natale e Capodanno, ma quello che si mangia tra Capodanno e Natale. Ma, per ritornare alla moda di cui sopra, mainstream oblige; e poi si sa: il controllo del piacere provoca sempre il maggior diletto, e la più grande voluttà sta nello sfoggio della Virtù.