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Toulouse en érasmienne

martedì 27 gennaio 2015

Je suis Charlie - le prime frasi

A quasi due settimane di distanza pubblico le prime parole scritte quel pomeriggio, mentre ero al
lavoro con le scadenze che premevano.
No, non mi passa, e non mi passerà presto, penso.
Nessuno verrà a cercarmi per spararmi un colpo in testa per farmi tacere come loro, con ogni probabilità. Sì, perché non pensiamo ai killer che entrano sfondando platealmente la porta e tirando raffiche come in un (brutto) film USA. No, la cosa si è svolta molto lentamente, è durata diversi minuti. I colpi sono stati esplosi l'uno dopo l'altro, con accuratezza, con calma. Alla testa. Cabu, Cayat, Charb, Tignous, Wolinski sono morti così. Un'esecuzione mirata, senza nulla di rocambolesco. 
Io non sono importante, non sono visibile, non faccio discorsi rilevanti nello spazio pubblico. Obiettare all'interno di sé stessi o in una ristretta cerchia è in fondo poco temibile, ecco perché il nicodemismo è stato tollerato in Italia e combattuto da Calvino. E' quando il discorso diventa pubblico, è quando raggiunge i media e la dimensione collettiva aperta e larga che va combattuto, osteggiato, proibito. Ristretto. Condannato. Ucciso, infine, se non impara. Ce lo insegnano le guerre di religione del XVI secolo, dal cui fiume di sangue nasce la prima nozione di tolleranza e laicità. Ne vedremo qualche cosa più avanti.
Ma ora lascio le parole scritte quel giorno.
  

Uccisi per avere disegnato
Allah est vraiement très grand, mi scrivono, calcando sul paradosso. [Ovvio che in questa storia se c'è qualcuno che non c'entra è Allah. O qualcuno dei suoi omologhi.] 
  On ne tire pas à balles sur les crayons rispondo io. “C’est la première des choses”, osserva qualcun altro cui paradossalmente tocca a me dare la notizia commentando che il suo  paese proprio non lo merita (paradosso o integrazione?). «Se cominciamo a fare così qui, non ci si ferma più, continua. Mais le monde est des fous».
Difficile ricominciare a lavorare come se niente fosse eppur bisogna, qui, questo pomeriggio. Se la Francia non lo merita, meno che meno lo meritavano loro. Una redazione falciata da un commando di tre persone, coperte di nero dalla testa ai piedi, armate di mitra. I politici che chiamano all’unità nazionale (che solerzia. In Francia è in discussione la legge Macron, concepita nel solco delle politiche più devastatrici della UE). Non credo vi siano precedenti per un simile attentato in Europa, nemmeno in guerra, forse, ma dico forse, nemmeno nel biennio delle squadracce fasciste –  difficile individuare un precedente peggiore e grazie comunque per eventuali precisazioni documentate. In mezzo i dodici morti del settimanale Charlie Hebdo, una rivista di satira dove oggi si svolgeva una riunione di redazione alla presenza di tutti o quasi i componenti del giornale. Quattro disegnatori uccisi. Ripetiamolo per tentare di capirne il senso. Quattro disegnatori ammazzati, oltre ad altre otto persone, più quattro in fin di vita. Una rivista spazzata via. Diverso tempo fa, un numero di Charlie Hebdo aveva suscitato le ire di alcuni personaggi di fede islamica per alcune vignette su Maometto. Prima come poi, si era occupato di molto altro. In una storica brasserie rossa e bianca, lontano da Parigi, apprendo la notizia. Ne ho ascoltate di notizie di morti e di attentati e di guerre e di bombe: tutta la nostra storia recente ne gronda. Ma questa è la prima volta in cui mi colano i lagrimoni nella minestra di verdura con cui mi stavo scaldando. Sto invecchiando, mi dico. Nel caffè sono tutti molto discreti, ci sono credo sei televisioni accese ma nemmeno in questa circostanza si sente un soffio, perché, civilmente, sono senza audio. Il personale approfitta dell’apparecchio più in disparte, dove il volume è appena percettibile, per tornare a  riferire qualche particolare: la riunione, il fatto che la redazione sia stata decapitata, la rivista che probabilmente non potrà più uscire (e pare avesse anche delle difficoltà economiche, come tutta la stampa del resto). “C’est enorme” mormora un ragazzo davanti allo schermo.
Le facce dei quattro disegnatori morti, dai trenta ai cinquanta anni forse: allegre, felici, vestite semplicemente; per nulla fotogeniche o divistiche. Persone che vanno al lavoro, anche se malpagato e incerto (la rivista non andava bene e tutti ne avevano almeno due o tre), con l’aria di divertirsi come matte, e sentirsi in pace con sé stesse e con il mondo. Ma non fuori dal mondo, al contrario. Bellissimo privilegio… ma perché oggi siamo ridotti a chiamarlo così: privilegio? La dignità di vita. Falciate dalla crudeltà umana. Al servizio del mostro di sempre: l’oscurantismo. Che mai risparmia le genti del libro, della conoscenza, dell’espressione. “Un attacco alla democrazia” dice l’imam di Drancy. No: un attacco alla libertà di essere, di pensare, di vivere. La democrazia è questo? Non so. In effetti ho la testa vuota di pensieri di parole, di riflessioni. Cosa che mi accade difficilmente. Il colpo è troppo violento. Non s’è sparato nel mucchio, non s’è colpito a caso. Non colpisce un’azione, colpisce un’idea. Un pilastro del nostro mondo, dell’umana civiltà. Mi viene in mente soltanto che loro scrivevano, disegnavano, pensavano. Cercavano di fare riflettere. Distaccare emotivamente dalle cose più atroci facendo ridere per poi permettere di pensare. Smuovevano la nostra indifferenza con lo stesso mezzo, per farci andare oltre quello che si vede. Cercavano di insegnare a trovare un filo alla realtà. Anche quella scomoda, anche quando prima di ridefinire le proprie posizioni si viene messi a disagio. Ma solo così si può costruire sé stessi e il proprio destino. Non gliel’hanno perdonato. Questo era il nemico. Questo è il nemico, un tempo come sempre. N’importe chi sia il censore: il re o la regina, il papa o la papessa, il dittatore o la dittatrice, il politico o la politica, l’imprenditore o l’imprenditrice, lo speculatore o la speculatrice, il boss mafioso o la boss mafiosa, Jorge contro Aristotele, o i volenterosi esecutori. Non dovete pensare, non dovete osare, non dovete parlare. Dovete tacere, dovete accettare, dovete distrarvi. Tornate a casa. Parlate della nuova compilation, andate al supermercato, leggete la stampa scandalistica, ciarlate a vuoto sulle reti sociali. Non scuotete l’uniformità. Imporre il consenso, imporre il silenzio, imporre la paura. Imporre, abituare alla sottomissione. Imporla non solo esteriormente, ma imporla ai cervelli: che ovviamente danno subito la stura alla vecchia, cara scusa degli imbelli repressi contro le ragazze in minigonna: “Se la sono cercata. “ Sottinteso: “Vedi come sono furbo io? Sto zitto, non pesto i piedi e mi faccio gli affari miei.” Tuoi? 
Tu, stolto, tu credi di farti gli affari tuoi: ma cosa siano gli affari tuoi, cosa siano i tuoi interessi, l’hai lasciato e lo lasci decidere a loro per te. 
Rimpiango che all’indomani di queste spietate esecuzioni non si analizzi mai cosa cambia, non nella vita spicciola di una società, ma a macro livello. Avete presente le solite geremiadi: “Abbiamo paura la sera, non ci fidiamo più; oh com’erano belli i bei tempi”. Ecco, no, non quello. Cosa cambia sì, ma nelle scelte politiche,  economiche  e sociali. A cosa ha portato in termini di evoluzione politica, la selvaggia ecatombe di Utoya? Questo potrebbe darci una chiave di lettura del fenomeno, una chiave del terrore, quello più insidioso, di oggi.




2 commenti:

  1. Come non darti ragione?
    Sai, la mia tesi specialistica in sociologia verteva proprio su questo, sulla costruzione sociale del nemico, su come facendo leva su meccanismi di insicurezza si inducano le persone a rinunciare a fette sempre più ampie di libertà personale, per garantirsi protezione; come i governi nazionali siano incapaci di far fronte alla richiesta di sicurezza, quando essi stessi l'hanno generata su più fronti e come continuino a produrre nemici e insicurezza per garantisti obbedienza incondizionata; come la nascita di ogni gruppo che metta un Noi contro degli Altri, deumanizzati, ridotti al rango di non-persone, nemici da abbattere, serva a compattare identità disgregate che tentano di darsi un senso.
    E in tutto ciò non smetto di provare sgomento e tristezza infiniti.
    Dov'è l'Uomo? È questo l'Uomo? Se questo è l'Uomo...

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    1. Bella la tua tesi. Bello che continui a rifletterci. Grazie di averlo scritto qui.

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