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Toulouse en érasmienne

venerdì 28 ottobre 2022

Risotto monografico

 “Quella è una vera scarogna!” sento proferire solidale la voce femminile dall’altro capo del filo, mentre sto disdicendo l’ennesimo appuntamento. Che sollievo, finalmente qualcuno che mi capisce: alla vigilia di una delle rare vacanze mi ammalo, tento invano di salvare qualcosa di questo magnifico ponte, ma lo so che per me il raffreddore “che passa in tre giorni” comporta fatalmente una ricaduta il quarto e senza antibiotici non se ne va. Cosa che non mi fa amare tutti coloro che vanno in giro spargendo microbi pur di non stare a casa. Quindi disdici perdi soldi di biglietti resta inchiodata in una città antipatica tra fazzoletti, nausee e beghe burocratiche di certificati, ricette, software e quant’altro di ansiogeno.

Per farla breve il mio risotto di stasera per il Clan è una rivisitazione nello spirito del tema della settimana di un risotto famosissimo e di suo assai caricato: il risotto Vittoria di cui, buona ultima, ho scoperto l’esistenza poche settimane fa sulle pagine del Clan, pubblicato il 19 settembre da Alessandra Ruggiero, con cui mi scuso per non riuscire a linkare direttamente il suo post.

La ricetta è ovviamente semplificata da ogni coprotagonista. 

Risotto con i gamberi alla bisque di gamberi mantecato ai gamberi 

Riso

Sedano

Cipolla

Alloro 

Semi di finocchio pestati nel mortaio (si adattano divinamente ai crostacei e ai pesci più dolci)

Spumante

Gamberi (dovrebbero essere i rossi di Mazara. Io non li avevo e ho usato dei gamberi vulgaris di non so dove)

Burro

Olio

Bisque: soffriggere il sedano tritato in olio e alloro, unire le teste schiacciandole, coprire con acqua bollente e cuocere 40’.

Rosolare cipolla in burro e olio, tostare il riso bagnare con spumante, cuocere con bisque. Unire i gamberi.

Mantecare con gamberi crudi tritati molto finemente e amalgamati con un po’ olio e finocchio pestato.

Ci sono quindi gamberi in tre stadi e consistenze: la bisque ipercotta (non si butta via niente), i gamberi cotti e quelli crudi che aggiungono molto sapore.

Non c’è il parmigiano che proprio non riuscirei a infilare in un risotto con il pesce, mi sembra una forzatura tipica da stranieri...

Prima di tornare a tossire e mangiar pillole ringrazio tutti coloro che in modo molto lusinghiero hanno apprezzato il precedente risotto alla lampuga e zucca. Ad maiora.


Stavo dimenticando la fotografia:






martedì 25 ottobre 2022

Quando la grettezza ti lascia senza fiato perché scoppi di odio incredulo e il sadico lo sa

 Le giornate sono meravigliosamente calde. Ma in ufficio non batte mai il sole - il lato illuminato è riservato a quelli importanti, anche se ci passano un quarto del tempo nostro, se va bene - ed è buio freddo e quindi triste. Soprattutto la mattina che è la maggior parte del mio orario.

Morale ieri sera torno a casa con un bel mal di gola, squassata da brividi e tutta intontita. Il raffreddore per me finisce nel 90% dei casi attaccata agli antibiotici, malgrado tutte le ramanzine sui virus e le medicine inutili, altrimenti non se ne va.

Passo la notte a tossire, e stamattina inizia la corvée burocratica. Noi dipendenti pubblici si sa siamo da sorvegliare e punire per definizione unanime e bipartisan, da Berlusconi, Brunetta, Grillo, Monti, Cottarelli Dalla Vedova e tutta l’infâme +Europa che si porta dietro, a chi pubblicizzando la propria superiorità morale mai ha pensato di eliminare la normativa elaborata in merito da così repellenti personaggi. La nostra colpa principale è di essere un po’ meno ricattabili degli altri, quelli cui sono stati regalati il JA, i cococo dell’amato Prodi, la Biagi ecc.

Nel luogo vomitevole in cui lavoro una dirigenza inutile inetta incapace e misera ha deciso di rendere le cose più vessatorie possibili. In casi così ci si somma ovviamente la sfiga.

Riesco a comunicare la malattia solo tardi e per paura che sia troppo tardi avviso prima del problema causa del disguido non solo l’ufficio, ma pure il personale. Il quale mi dice di scrivere a una casella anonima per comunicare il contrattempo.

Poi il disguido per fortuna si risolve e riesco a espletare la procedura. Val la pena di dire che è la prima volta che mi capita da quando lavoro e stiamo parlando di decenni.

Poco dopo la casella anonima mi risponde, anonimamente, per dirmi che ho inserito tardi la malattia - vero - e per informarmi che nei permessi retribuiti (quelli per visita medica o urgenze familiari) da me richiesti ci sono due casi che non vanno bene perché trattandosi di permessi in entrata vanno calcolati dall’inizio dell’orario di entrata, che è flessibile - anziché come qualunque persona normale farebbe e come io e tutti abbiamo sempre fatto senza che nessuno ci trovi da ridire - dalla fine della flessibilità in entrata. Quindi i permessi da me chiesti verranno ricalcolati a partire dall‘inizio dell’orario, togliendoli cioè dalle ore del monte ancora a mia disposizione. Siccome lo stile è il tutto anonimo la casella non fa riferimento a nessuna norma che stabilisca quanto mi ha appena imposto.

Io, che già ho la nausea perché mi sento malissimo, ho solo voglia di vomitare. A quanto ammontano i permessi così richiesti? A due in dieci mesi, entrambi per meno di un’ora e per mesi che sono già stati calcolati come a posto con le presenze. Mi viene così sottratto il diritto di avere bisogno di un permesso retribuito per tre ore, dato che la flessibilità in entrata è di un’ora e mezza. Tre ore preziose per me in caso di bisogno, ma che non è detto avrei utilizzato. Tre ore totalmente insignificanti per l’amministrazione. Tre ore che rappresentano una vendetta perpetrata per nulla e sulla base di nulla su una persona che sta male, sia pure in modo non tragico, che si è trovata in difficoltà e ha cercato di mostrare la sua buona fede e nient’altro. Tre ore di meschinità gratuita che seppur meno gravi mi ricordano lo squallore senza fine di chi viene sospeso per avere mangiato uno scarto di mortadella alla luce del sole. 

Sento un rumore di tuono.

Quando si dice saper motivare il personale.

 

venerdì 21 ottobre 2022

Risotto zucca e pesce

 La temperatura in casa è ormai piacevole, oggi sono riuscita a arrivare a casa alle cinque e posso riprendere il gioco con i compagni del #Clandelrisottodelvenerdi che quest’oggi prescrive zucca e pesce.

Molto di corsa: a me il pesce piace tanto, ma crudo o marinato, esclusi i cefalopodi. Senza sale, spesso quasi senza olio. Faccio eccezione per una bella, vera spigola bollita, ma guai se scappa di cottura. Al vapore, se si tratta di conchiglie o cefalopodi piccini. Ricordo ancora come una delle cose più buone mai mangiate in assoluto un piatto di misto al vapore al Sambuco di Porto Garibaldi. Ma era prima di convertirmi al tutto crudo.

Tutto questo per dire che mettere il pesce in un risotto mi crea problematiche non da poco. Certo, il riso si addice al pesce molto più della pasta, ad eccezione degli spaghetti alle vongole.

Quale pesce, poi. Li’ la scelta era meno complicata perché da tempo rimuginavo un risotto che avevo dovuto saltare, quello dell’azzurro. E complice un giorno in cui ero entrata al supermercato per tutt’altro e ero rimasta impietrita davanti al banco del pesce ripetendo silenziosamente il grido della Creatrice, uscendone poi con questo mostro qui di quasi due chili:


Meditavo di infilarne un po’ in un risotto.
Zucca e gamberi o zucca e telline sono abbinamenti conosciuti: zucca e azzurro si poteva fare?

Risotto alla zucca con lampuga - parola che il correttore neanche conosce! Impara, impara...


Riso
2 pugni di riso Gallo che dice di essere Carnaroli
2 pugni di zucca a cubetti
1 cucchiaio di zucca grattugiata a microplane, unita a poco EVO
1 pugno di lampuga cruda e abbattuta a cubetti, rotolati in poco EVO e un pizzico di semi di finocchio
Qualche fettina sottile di lampuga cruda e abbattuta
    Attenzione: scartare tutta la buzzonaglia eventuale.
Vino bianco
1 piccolo pomodoro oblungo, di quelli settembrini che le piante del produttore sabino del mercato danno ancora
Semi di finocchio ben pestati nel mortaio
Olio EVO
Pepe
1 agrume misterioso del fruttivendolo egiziano che non è un limone né un arancio né una clementina (prometto di essere più precisa la prossima volta)

Brodo vegetale 
Cipolla
Sedano
Carota
1 stella anice
Semi di coriandolo
Scorza dell’agrume di cui sopra
1 ramo di pomodoro (idea che ho imparato tanti anni fa dalla magnifica Fabiana, scomparsa dietro ai souvenir canari e da me certo rimpianta)
Timo
1 pepe garofanato

Bollire piano gli ingredienti del brodo per almeno mezz’ora.
Far sudare la cipolla in olio - la lampuga proprio non m’ispira burro - unire la zucca a dadini, rosolare, pomodoro a fettine, rosolare. Unire in seguito il riso, girare, sfumare con il vino. Cuocere con il brodo ben caldo. 
Appena prima di spegnere unire i cubetti di lampuga. Spegnere e mantecare con la zucca grattugiata.
Nel piatto spremere qualche goccia di agrume a temperatura ambiente sopra il riso caldo.
Guarnire con le fettine di lampuga qualche stilla di EVO e un aroma appena accennato di pepe.
Il pesce resta morbido e a mio parere il migliore è quello della guarnizione che non ha avuto il tempo di scottarsi! Ma io sono di parte. P-:


Il succo di agrume impedisce al gusto troppo pronunciato dell’azzurro di prevalere. Però il pesce si sente e è piacevole come consistenza e come sapore. Li’ per li’ avevo paura che fosse esagerato e ci volesse piuttosto una sogliola o qualcosa di più delicato, insieme alla zucca. In realtà no.
Il punto debole è proprio la zucca. Che necessiti di acqua o di freddo, mentre entrambi latitano, non so, ma qui di zucche se ne vedono ancora poche e piccoline e soprattutto decorative. Al mercato, zero. Ho dovuto cercarla al supermercato, e non era eccelsa eccetto nel prezzo. Ora, la zucca è una gran bella cosa ma come tutto è migliore al suo tempo. Che magari arriverà fra un paio di settimane o tre. Pazienza, l’inverno non scappa, come sempre se qualcosa deve pazientare non è mai il risotto, piuttosto quella pacchianata ‘meregana di Halloween, prezzo o no...  - lo ammetto, la roba USA quale che sia non è ma tasse de thé (-:  

In conclusione zucca e pesce è stata proprio una bella idea!



lunedì 17 ottobre 2022

La sagra del merito

 L’occhio cadde su di loro. Erano proprio davanti a me. Due bimbi procedevano abbracciati davanti a noi lungo il binario del treno per Parigi in una sera di fine dicembre. Dovevo prender quello stesso treno. Capelli d’oro scuro, infagottati in abiti blu, gonnellina a ruota lei, la custodia nera di una chitarra sulla spalla lui.

Mi accompagnava al treno A. Al vederli  m’ironizzò con tenerezza all’orecchio: « Una fuga d’amore? ». Era improbabile perché apparivano davvero ancora bambini. Quattordici e tredici anni, avrei saputo dopo: non troppo presto per una fuga d’amore, ma raro. Saremmo infatti stati compagni di viaggio. Le nostre madri avevano combinato un appuntamento al buio per motivi di lavoro e si erano fatte accompagnare dai figli per una vacanza prenatalizia. 

Manco a dirlo in quel momento la mia situazione non mi invogliava per nulla a partire: capita, quando hai l’età dell’università. Il mio stato emotivo dominante in quei giorni era e sarebbe stata l’ansia per quanto lasciavo dietro di me. I due piccoli erano non innamorati ma fratello e sorella. Sul treno legai con la sorella maggiore. Malgrado la differenza d’età fu un’amicizia intensa - era ancora il periodo - e relativamente lunga.

Nel frattempo E. cresceva, diventando il classico sogno maschile del nostro tempo. Capelli biondi mossi naturalmente (un’INVIDIA nera! Ma avrei poi scoperto che lei, che aveva tutto, invidiava le mie forme. Sempre in senso buono naturalmente) visetto da cerbiatta, occhi allungati, bocca pronunciata, snella, alta, gambe chilometriche e grinta da vendere. Fisico da modella, in breve. Ma diventava soprattutto una donna determinata e sicura di sé, capace di cavarsela, brava a scuola e con un istinto ribelle che era fatto per rendermela affine. Dopo la maturità si innamorò perdutamente di un ragazzo e decise di seguirlo all’università fuori dalla sua città, interferendo con i piani di sua madre con gran rammarico di quest’ultima che più o meno le taglio’ i viveri. Per mantenersi fuori agli studi fece di tutto, incluso sfruttare la sua avvenenza sempre in verticale, ma ai limiti del compiacimento maschile altrui e del fastidio di sé, rubare di tanto in tanto qualche prelibatezza, come un pezzo di parmigiano che non avrebbe potuto permettersi di pagare, nei negozi dove facevano la spesa, apparentemente con il consapevole consenso dei proprietari.

Seguirono gli studi all’estero, altri amori e poi la compagna di classe. Una coetanea che lei aveva sempre adorato e descritto come Venere in persona, qualcuno strabordante di fascino che la teneva sous charme e aveva tutti gli uomini ai suoi piedi. L’amica era partita anche lei dalla città d’origine, senza proseguire gli studi, per ricercare una carriera nel campo di un mestiere che serbava un che di indeterminato. Dopo qualche anno l’aveva chiamata a sé in vacanza in barche di lusso sul Mediterraneo. E poi le aveva proposto di condividere una casa nel centro storico di una grande città dove nel frattempo E. avrebbe potuto iniziare a fare un tirocinio. Perché, riferiva la mia mamma dai discorsi della sua, le era stato detto che senza un minimo di esperienza non avrebbe potuto proporsi altrove. « Non posso lasciare l’amica mentre lei ha questa situazione » mi aveva soffiato E., sibillina. Avevo intravisto l’amica una volta e l’avevo trovata grottesca: un’isteria, voluta o spontanea che fosse, agli antipodi del fascino, e un fisico curato, si’, ma assolutamente non all’altezza della personalità di E. né della sua bellezza. Ma non doveva piacere a me: gli uomini ricchi, molto ricchi, davvero ricchi, non le mancavano. Buon per lei.

Qualche tempo dopo E. trova lavoro in una grande organizzazione sovranazionale, il che rientra nei suoi studi, anche se non nel settore in cui è specializzata « Non avrei pensato effettivamente di trovarmi a occuparmi di... » mi diceva i primi tempi. Hai visto com’è brava, entrarci è così difficile, è il che è settore difficile, lo vogliono tutti (all’epoca andava di moda), ma ha fatto un concorso? No, ha un contratto a tempo determinato, ma guadagna bene, sta comprando una bella casa, tanto glielo rinnovano... Evviva che bella cosa, allora studiare, impegnarsi, funziona, fatichi tanto ma tutto sommato ti piace e poi... e poi E. lo merita davvero, ne sono sempre stata sinceramente convinta, lo sono ancora.

La vita continua, E. incontra il compagno che vuole, fanno due figlie, è ormai stabile, non ci sentiamo più, la distanza, la differenza d’età, tutto normale, sono contenta.

Finché pochi giorni fa, cado in internet sul più improbabile dei siti, sulla più inverosimile delle notizie. Anche l’amica ha fatto carriera, più precisamente con un matrimonio da favola. Sì, proprio quel tipo di matrimonio lì, letteralmente. Ora, da dove proviene la favola di marito? Ma dal paese dove ha sede l’organizzazione in questione, naturalmente, che non è né il nostro né quello dove E. ha studiato né un posto con cui abbia avuto alcun legame in precedenza. 

Magari è un caso. O magari proprio no. 

E. ai tempi della loro coabitazione ha fatto da donna dello schermo tra l’amica, la favola e il ricco di turno. E quando la favola ha deciso di avere incontrato l’amica ideale, perché non ringraziare con eleganza una pronuba tanto essenziale alla sua felicità? «Fammi controllare il telefono che mi ha dato l’amica... questo telefono non deve esistere » mi diceva sempre più sibillina, ai tempi.   

Ora, io sono e resto convinta che E. il posto che ha avuto se lo è meritato e sudato. Sudato negli anni di studi e di lavori umilianti, sudato nell’impegno, nella determinazione e nel coraggio. Meritato per la sua bravura, la sua serietà e la sua grinta. Ma se non ci fosse stata quella conoscenza, sarebbe magari rimasta tra coloro che inanellano un precariato dopo l’altro, un giorno dopo l’altro, senza futuro e senza certezze, o con la certezza di non poter mai vivere liberi dall’angoscia dell’elettrodomestico che si rompe, della cura medica che la mutua non passa, del piccolo sfizio che è meglio rimandare finché non te ne verrà più voglia, della vacanza di cinque giorni che non puoi permetterti e magari ti sfogherai mangiando troppo pane e mortadella. Sono contenta che abbia trovato un buon lavoro e si sia costruita la vita che ha penato a raggiungere. Sono convinta che al posto suo avrei fatto probabilmente lo stesso, ammesso di esserne  capace, e che lei ha fatto bene a afferrare l’occasione che le si presentava. Sono anche assolutamente certa che ha agito per amore verso l’amica e non perché sperava di trovare una sistemazione grazie a lei. 

Ma. Sono anche certa, una volta di più, che le sviolinate sul merito, oggi, sono fuffa. Pura, pericolosa fuffa e pura esiziale retorica. Il merito oggi serve, a volte e raramente, per strappare una situazione mediocre rispetto al niente che hai. Il merito serve quando ci sono politiche di piena occupazione, per avere un lavoro che ti piaccia davvero e non solo uno stipendio. Ma per avere un lavoro che ti permetta di passare da un ceto all’altro, o di fare un minimo di carriera, nell’epoca della deflazione salariale, del pareggio di bilancio, dei tagli alla spesa pubblica e della disoccupazione non inflattiva che hanno bloccato da trent’anni la mobilità sociale, serve solo e sempre la stessa cosa: le conoscenze.   




domenica 9 ottobre 2022

Il compleanno

E sono ottantacinque. La mamma compie gli anni l’8 ottobre.       

Se non fosse che c’era un esame prenotato all’ospedale per mezzogiorno, avrei voluto organizzare una gita , per passare qualche ora fuori da questa città sempre irrimediabilmente sporca e fatiscente, malgrado le vanterie di quello bravo, quello nuovo, il sindaco ex-ministro arrivato da Bruxelles.

Tempo opprimente e appuntamento in un ospedale relativamente scomodo, non se ne parla. Però si passa la giornata insieme, cercando di capire cosa possa farle piacere fare. Attraverso Roma per arrivare fin lassù a piedi, per scoprire che suo marito ha sbagliato data di appena un mese. Pazienza, capita. 

Suo marito è desolato, disperato,: «Non sono più buono a niente! » dice quasi piangendo. Lei, che nella sua confusione mentale ha serbato però i gesti di protezione, lo guarda, lo accarezza, lo consola. Io sono lì davanti, commossa.

«Ti va di fare una passeggiata in centro o andiamo a cucinare il pollo? » La mamma per pranzo ha ordinato pollo arrosto, patate e uva e così sia. Stamattina ho fatto di corsa la spesa, trovando addirittura la sua amata uva fragola e preparato per la cottura. Una volta amava passeggiare per il centro di Roma, ma oggi è diventata come un bambino di dieci anni che di casa non uscirebbe mai, tanto più con un tempo pesante e uggioso. «Quale strada prendiamo? » «Quella in cui si cammina meno! » dice, come se fosse una vecchia cadente. Malgrado la sua età cammina tranquillamente per chilometri, perché la sua salute fisica è ahimé ottima e in vita sua non ha mai avuto l’automobile, perciò ha oltre mezzo secolo di allenamento. D’altra parte ognuno ha il diritto di passare il compleanno come meglio crede. L’autobus che dobbiamo prendere si fa come sempre aspettare e io sono dolorante, spiego alla mamma che stare ferma mi fa male: «Camminiamo, camminiamo su e giù davanti alla fermata! » 

Si torna a casa, che come sempre è un campo di battaglia che come sempre non ho tempo e energia di sistemare, soprattutto perché è molto piccola e mal disposta. Il suo vantaggio è di essere vicina all’ufficio e in stile umbertino, non quegli orrori di cemento del secondo novecento.

Un’ala di pollo, la sua porzione favorita da sempre, e poche patate! Poi però va a piluccarsele nella teglia che ho lasciato sul tavolo (-:

Le chiedo della nonna, non ho mai saputo quasi nulla dei loro rapporti. Di come le ha raccontato la sua nascita. Ma si ricorda poco e si confonde.

Da tempo il suo guardaroba è un po’ sguarnito, rifornito solo di quei brutti capi sintetici che si trovano al mercato, così irrimediabilmente tristi e stazzonati. Quest’estate ha sofferto tanto per il caldo. Ho scovato, nell’usato, un vestito che dovrebbe piacerle: materia un cotone fresco di grande qualità, colore neutro che lei ha sempre amato, taglio austero a parte due manichine a sbuffo - non porta più volentieri vestiti senza maniche - cosa rara in un periodo in cui le maniche corte sono diventate introvabili, a parte quelle brutte magliette unisex che cancellano la femminilità di chiunque. Anche a poter spendere, nei negozi riconvertiti al poliestere estate e inverno, oggi è difficile trovare capi così.

Le piace infatti molto, mentre da tempo rifiuta di provare qualcosa in negozio o anche solo di cambiarsi di abito. Riesco a farglielo indossare, sembra un figurino e se lo tiene indosso. Le do’ un paio di calze. Mando una foto a suo marito.

Ripartiamo verso la metropolitana che ci porta a casa sua. Passiamo davanti a un gelataio discreto molto apprezzato nel mio quartiere. « Ti va un gelato? » - una delle sue passioni. « No. » Nella regressione è infatti alla fase del « no »: qualsiasi cosa le si proponga sembra divertirsi a dire di no. Sfiliamo davanti al bancone: « Sicura? » « Tu lo prendi? » « Sì » « Allora lo mangio anch’io » fa, con gli occhi brillanti. Questa volta ci riesce meglio dell’ultima, ma devo comunque rispiegarle come si fa. « Era proprio buono! », dice felice. 

Riesco a farla camminare un po’ attraverso giardini e monumenti verso la fermata, a un certo momento risuona un bel concerto di jazz tradizionale, grazie al cielo senza ombra di rock. Lei è molto contenta del suo vestito nuovo, il tempo è migliorato e si sente indubbiamente meglio. 

Poi inizia il dramma della mascherina. Alla sua età e con un marito fragile se la deve proprio mettere. Ma lei non vuole, come si ribella a qualsiasi cosa abbia attinenza con la malattia. Per cui, mentre facciamo la fila per comprare il mio biglietto in una calca inverosimile - si’, perché il sindaco quello bravo, quello nuovo, quello ex-ministro arrivato da Bruxelles ecc., quello che qualsiasi cosa accada conosce una risposta sola: transennare e piantar li’,  non ha pensato a far funzionare le quattro macchinette quattro che sono ovviamente sufficienti per la stazione forse più turistica della città e i quattro diconsi quattro tornelli della stessa, due bastano e avanzano, non vi pare? - prima ne butta via una, poi accetta di mettersela ma poi appena entrate se la strappa via. 

Rifiuta in malo modo qualsiasi argomento da parte mia compreso quello che riguarda la salute di suo marito: «Non ce l’ha nessuno! » il che non è vero. Le persone più anziane e molte donne straniere, presumibilmente badanti, e anche qualcuno più giovane, ce l’hanno quasi sempre.

Per fortuna sbuffando accetta di rimettersela quando saliamo. Poi mi fa una carezza sul braccio. Suo marito ci aspetta alla fermata e fa grandi feste al suo vestito nuovo. Lei non parla quasi. Le chiede qualcosa e lei risponde a voce alta ma guardando verso di me: « Ti odio! » « Finalmente so cosa pensi di me » fa lui sorridendo. Spiego che ce l’ha con me perché la costringo a mettere la maschera. 

Li saluto per tornare a casa, ma sono invasa da un abbattimento triste. Lei lo legge nei miei occhi, viene verso di me e mi dà un bacio, un po’ freddo. Giro le spalle e torno via.

Ora, lo so che è malata, che ha paura di esserlo, che sa solo a metà quanto sia grave, che la attende un destino orribile e che tutto questo si somma alla capricciosità degli anziani unita alla sua innata caparbietà, pari a quelle di sua madre e di sua nonna. Lo so che non mi odia e non odia suo marito, ma ecco, finire la giornata su questo bémol mi pesa.

Ritorno nella metropolitana ormai per fortuna vuota, dondolo fino alla stessa stazione, oggi avrò camminato quasi undici chilometri e le mie ossa ringrazieranno,  il concerto è finito, ma appena esco da sotterra vedo la più bella luna rotonda con tanto di pianeta rilucente che si possa immaginare tra alberi e monumenti e, come sempre, m’incanta.

Dentro lo stomaco però rimane qualcosa. Doccia ben calda, letto, internet, libro, frutta secca e mezzo bicchiere di vino rosso, poi dormo.

La capacità di reagire c’è, ma offuscata dalla fatica pervadente per il peso sempre più enorme della situazione professionale (avremmo dovuto avere un aumento entro quest’anno, lo aspettavo per poi trasferirmi ma pare non se ne farà nulla perché hanno già assunto un’infinità di persone, probabile prebenda elettorale trasversale che non gli servi’ e ben gli sta) economica (ho provato a informarmi per un mutuo per una casa più grande e dove entri il sole, insostenibile sia dove l’avrei voluta sia dove sono attualmente) e familiare.

La cosa micidiale è la mancanza di prospettive di un cambiamento a breve e soprattutto medio e lungo termine. La cosa che evolverà senza dubbio è la sua lunga agonia e forse dopo la sua morte potrò comprare un’altra casa, a patto di restare senza risparmi - e ovviamente con la pensione contributiva dell’amato Dini, devastata da quindici anni di contributi non cumulabili da cococo del sempre amato Prodi. Il resto, nella sostanza immobile. Può essere una prospettiva che tiene in vita perché c’è rimasta la luna?

Oggi mi sveglio tranquilla, ma sono poco a poco invasa dalla tristezza.