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Toulouse en érasmienne

mercoledì 26 aprile 2017

La panne? - Versione eretica dell'eretico

Non c'è più religione. Nel mini supermercato di Montparnasse dove mi intrufolo a un passo dal métro
nella speranza di abbreviare i tempi della lunghissima spesa necessaria il ragazzino, probabilmente uno studente assunto per le vacanze, mi fa: "Saindoux? e cosa sarebbe?". Tento di spiegare cosa sia e a cosa serva mentre mi sorge il timore di avere sbagliato parola. Allora si dirige verso lo scaffale di quelle orripilanti robe che vanno sotto il nome barbàro di "salad dressing". "Non penso che lo troverà lì..." azzardo un po' perplessa. "Aspetti, mi fa imbarazzato, vado a chiedere al capo". Il capo si rivela avere due o tre anni di più con l'aria totalmente persa dietro le treccine rasta quando gli rivolgo la stessa richiesta. Fila allo scaffale dei pelati e delle conserve al pomodoro: "Guardi che si tiene in frigorifero" tento di precisare. "Allora non lo abbiamo", decreta con aria sicura.
Ma ma ma: possibile che un'oltremontana debba spiegare agli autoctoni che non saranno belgi come quelli delle patatine di Asterix ma insomma celti sì cosa sia il saindoux?  


Quando si è grafomani logorroici come chi scrive scopiazzare la ricetta di un blog indiano risulta molto comodo, perché grazie ai fusi diversi lui ti risponde mentre dormi e viceversa. In realtà apprezzo le chiacchiere appassionate e senza barriere su qualsiasi argomento coinvolga realmente gli interlocutori e da questo punto di vista lui è ideale, perché ha tempo, curiosità, competenza, disponibilità e interesse per intavolare una vera conversazione.

Caduto l'occhio su questo monumentale sformato con altrettanto monumentale carica emotiva ho capito che contrariamente al solito ci avrei perso un po' di tempo volentieri.
M'incuriosiva l'aspetto di preparazione storica e tradizionale da un lato e dall'altro una serie di dettagli (eretici) cui non avevo mai riflettuto e che ora mi balzavano agli occhi.

Abbiamo sempre realizzato dei piatti del sud con un ingrediente che è prettamente del nord: il burro e un altro del centro nord: il parmigiano.
A lume di naso questi prodotti potrebbero essere stati usati largamente al sud a partire dagli anni '60 del '900, quando le tradizioni si andavano stemperando,  sparendo in una sorta di colonizzazione economica e culturale di tutta la penisola che faceva imporre prodotti dell'industria alimentare del nord impiantandoli nella tradizione alimentare del sud. Destinata a imbastardirsi e a scomparire quasi del tutto.

Così dopo un po' di botta e risposta con l'autore mi è venuta voglia di provare a decostruire la vulgata odierna e ricostruire da inesperta e a tentoni come potesse essere realizzata la preparazione prima dell'innesto di un riso lombardo su un piatto franco-napoletano.

  Ma quando mi sono ritrovata al mercato - s'intende, dove altro? - davanti all'equivalente francese del norcino a chiedere "Svp, avez vous de la panne" - già che non avevo trovato il saindoux tanto valeva andare sul difficile - ahimé la risposta è stata: "Possiamo chiedere al fornitore ma calcoli che la deve prender intera e non sarà meno di un chilo e mezzo". Il mio rigore filologico si è liquefatto davanti alla prospettiva di dover smaltire quel saturissimo chilo e mezzo praticamente da sola e ho ripiegato sul più canonico saindoux che almeno nei casi migliori dalla panne deriva.


La lunghissima ricetta è spiegata nei paricolari qui.
Io mi limito a precisare le mie varianti.

Il piatto è ricchissimo e deve esserlo, sia che lo si voglia interpretare come robusto cibo su tavole padronali che come celebrazione dell'abbondanza del giorno di festa su quelle più modeste.
Io però non ce l'ho fatta a farlo altrettanto ricco. Filologico magari sì, ma un po meno clinquant, absit iniuria verbis ché già la salsa francese ci aggiunge del suo.
Roba da poco, sia chiaro: ho solo eliminato la pancetta sia dal ripieno che dal sugo.
Ho ridotto di un terzo la dose di burro che va nel riso, anche perché non di burro si trattava ma di saindoux che diventa facilmente stucchevole.
Ho ridotto di un terzo la dose di burro della salsa, e ho eliminato il pezzetto di burro aggiunto alla fine ché a me la pellicina in un piatto così non dà problemi.
Nello stesso spirito ho utilizzato del caciocavallo al posto del parmigiano. Purtroppo non l'ho trovato stagionato quanto avrei voluto, ma quando ti intestardisci a fare un piatto con prodotti di un altro paese va messo nel conto.
Nel riso ho messo tre uova più il mezzo avanzato dalle polpette anziché quattro e con mia grande gioia si è incollato allo stampo nel modo giusto ugualmente. 
Nel brodo ho aggiunto chiodi di garofano e cannella che hanno profumato meravigliosamente anche la casa.
Nelle polpette cannella e piment de la Jamaique. Nel risultato finale si sentono nettamente e si amalgamano bene.
Ho persino trovato delle melanzane sottili e lunghe come serpenti della taranta che vanno sotto il nome di "napoletane" e sotto il prezzo di collier di Chaumet. Ora, solo l'India poteva convincermi ad acquistare una cosa così platealmente fuori stagione, ma in Italia ci sono state due settimane di caldo estivo e magari qualche cosa è spuntato anzitempo... raccontiamocela così, ma che non si ripeta!

Dopodiché ho iniziato a disobbedire, anzi a contestare, no a ribellarmi sul serio. Niente e nessuno mi farà acquistare dei pomodori [sic!] tra novembre e luglio, tanto più se bretoni o nordafricani. Eh, poco da fare: la mia religione me lo proibisce. Si sappia che la mia salsa è fatta con dei nobilissimi pelati, oltre al concentrato, ma i pomodori freschi ad aprile in India forse ma qui proprio no. 

Però restava un punctum dolens.
La frittura di polpette e melanzana, separatamente.
Ora, il saindoux è nato per quello.
Ma anche le eresie devono aver un limite. Perché sarà pure eretico e anarchico ma per l'olio d'oliva salirebbe sulle barricate, scatenerebbe i cieli e non so come la metterebbe con gli oceani.
E tutto sommato meglio così, perché effettivamente il saindoux con la melanzana sarebbe uno choc culturale quanto l'olio di oliva nel knaidelach!!!
Ultima tappa l'ansia da stampo. Non avendo quello filologico troncoconico anzi avendone uno solo, di vetro e cilindrico quello s'è usato. Salvo poi farsi venire i patemi: si sformerà? Rovinerà? L'ho fatto aspettare un bel po' prima di provarci, passando un coltello lungo il bordo esterno per liberarlo di qualche crosticina. La tecnica pangrattato burro (questa volta sì) l'ha avuta vinta e complice forse un po' di umidità formatasi tra vetro e riso, è uscito perfettamente.

Che dire: il padrone di casa si è precipitato a metterne due fette in un luogo sicuro, precisando che finalmente non è quella cucina sana tutta verdure che di solito gli passa sotto al naso (cosa ahimé falsa, ma lasciam andare). Io direi che finisce con il sembrare, non si sa come, equilibrato (!!!) e che la pancetta sarebbe stata di troppo, ma forse nemmeno così stucchevole come avrei temuto.

Una parola sulla salsa francese al pomodoro (con un po' di Germania...): data l'origine del piatto è meno eretica di quel che sembra. A me ha ricordato due salse lombarde, cioè imbastardite francesi, di questo libro che mischia la cucina francese tradizionale come utilizzata nelle case alto borghesi del '900 a quella tradizionale lombarda. In particolare il sugo fatto con l'estratto di carne e la salsa Gioconda cotta a lungo e lentamente ben chiusa con tante verdure poi passate. Probabilmente lo stemma riporta a questa famiglia di salse.
Va ricordata una cosa, preziosa: il bouquet garni doveva essere a dominante timo. E la salsa sa di timo!!! Davvero.







lunedì 24 aprile 2017

Tout est bon dans le macron


Una delle ragioni del mio amore per la Francia è la loro capacità di rappresentare qualsiasi cosa. Per esempio una canzone sul candidato che ha ottenuto più voti al primo turno come questa, apparsa ieri.

giovedì 20 aprile 2017

Chanter, danser, être nous-mêmes. - Opéra

Aggiornamento: oggi più che mai le parole del direttore dell'Opéra di Parigi sono appropriate.

Se foste un toro francese bianco e muscoloso potrebbe capitarvi di passare tutte le sere a teatro per farvi la doccia. Prima però avreste trascorso diverse ore nella vostra stalla o recinto all'aperto con un altoparlante al fianco, ascoltando Moses und Aaron di Arnold Schoenberg. Il siparietto fa parte del documentario dietro le quinte L'Opéra, girato dal regista svizzero Jean-Stéphane Bron nei teatri parigini di Bastille e Palais Garnier. Al settimo piano del (brutto) edificio contemporaneo dell'Opéra Bastille (a suo tempo criticato per le sale prova sotterranee ecc.), nel sud est della città, il direttore del teatro, Stéphane Lissner, ha Parigi in mano e sotto di sé. Tutti i monumenti celebri fanno da scenografia alla parete vetrata circolare della sua sala riunioni. Sui divani si prepara la conferenza stampa della stagione: "Un nuovo modello economico... dobbiamo cercare più mecenati" è la conclusione. "Sì, ma questo non lo diciamo", ribatte il direttore, "parliamo solo di nuovo modello". Si parte bene, pensa la spettatrice, finalmente qualcuno osa dire che la cultura e lo spettacolo vanno  dove ci sono i soldi prima e poi tutto il resto. Purtroppo alle premesse non seguirà che qualche sporadico accenno in tutto il film, del resto alquanto epidermico. Bello nel ritmo e nello stile, spoglio e attento a evitare la retorica fino al punto di non rendere quasi omaggio alle opulente strutture architettoniche tanto a portata di mano, il film paga probabilmente lo scotto di essere stato girato troppo dall'interno (un Lissner nel Lissner?). Diventa un diario d'alta classe (noblesse oblige) e grande pubblico che potrebbe proseguire infinitamente uguale a sé stesso, ma difficilmente, forse per mancanza di competenza del regista stesso, riesce a esprimere un'analisi critica, artistica (totalmente assente) o d'altro genere. Al confronto, sul tema economico e persino sociale e di costume era più brutale il Jean Renoir dell'inverosimile French can can...

Luogo composito di incontro e rappresentazione, l'Opéra nel film è anzitutto un luogo di lavoro quotidiano di oltre cinquecento persone, artigianale e complesso. I protagonisti entrano e escono dalle parti inversamente rispetto allo spettatore, con effetti talvolta splendidi, come in una prova con i danzatori. Questo interessa il regista, senza dubbio.
Gli elementi fondamentali e la routine della costruzione di spettacoli complessi (opera e balletto) di alto livello ci sono tutti. Il concorso di canto, le prove, le inevitabili tensioni con il regista cui il direttore dà un risposta di grande classe, senza interferire dal punto di vista artistico, ma programmando una gratifica al coro e all'orchestra impegnati in un lavoro più duro e lungo del solito, i dissensi con il responsabile del corpo di ballo, frammenti di prove, affascinanti ma troppo brevi per capire alcunché, i cantanti danno interviste, il maestro scende, le costumiste si affannano, le cantanti si fanno riprendere con il telefonino... il  polverio del lavoro teatrale si ricompone nelle numerose sere di spettacolo di un grande teatro internazionale, dei quali non si vede quasi nulla perché non sono l'oggetto del film. Ma tutto resta appena sfiorato all'interno di qualche vicenda individuale per fortuna solo accennata: il giovane slavo che ha fatto i suoi studi in Germania, ambizioso, narciso e adeguatamente svagato, preso sotto tutela dai colleghi più esperti, il coreografo in crisi per avere dovuto lasciare la danza attiva, la sostituzione dell'ultimo minuto sotto Pasqua e naturalmente le particine che allargano il cuore, come i due fattori giunti alla prima per accompagnare il loro formidabile toro. "Fategli la doccia, dopo, perché gli piace, lo rassicura, così lui è contento", raccomandano, prima di aprirsi in un sorriso radioso all'entrata della loro bestia fino al proscenio. E così sarà, nei sotterranei, con un bel tubo di gomma. La Francia è ancora un paese rurale, dove l'agricoltura è un'attività importante, celebrata ogni anno da un salone nazionale a Parigi nelle due ultime settimane di febbraio, un avvenimento interclassista, interetnico e intergenerazionale. Raccomanderei di visitarlo a chiunque si interessi non solo di vacche ma di cosa siano i Francesi che (sia pure con diversi snobismi da parte di un certo ceto) ci tengono moltissimo. Raccomanderei anche i fichi secchi farciti al foie gras, detto tra noi ;-), i caldi maglioni di lana pura e molto altro, prodotti di attività familiari o comunque molto piccole. Andarci è sacro dovere di ogni presidente in carica a costo di essere accolti da carrettate di letame e quest'anno anche di tutti i candidati presidenziali. In diversi programmi elettorali una sezione o almeno alcuni punti sono rivolti proprio ai piccoli e medi agricoltori. Sarkozy perse non poca popolarità quando saltando quell'impegno manifestò tutto il suo snobismo nei loro confronti, vale a dire il suo interesse per altre frequentazioni economiche.  Il toro in scena nel film porta dentro il teatro anche questo pezzetto di Francia. A teatro confluiscono mestieri e classi sociali, quindi i loro rapporti. Arriva il presidente della Repubblica, ma si riesce appena a raccomandargli la propria politica di formazione di nuovi artisti e nuovo personale. "Siamo bloccati tra le richieste dei sindacati di sostituire i lavoratori andati in pensione e aumentare i salari e le richieste del ministero di fare più rappresentazioni con meno mezzi e di vendere sempre più biglietti" riassumono Lissner (peraltro di nomina politica com'è quasi inevitabile per cariche del genere) e il suo vice dopo una telefonata con il ministero costituita di rifiuti a qualsiasi richiesta di impegno economico e di assunzioni (c'è il fiscal compact della UE, bellezza, pure sul palcoscenico). I salari sono aumentati del 20% negli ultimi decenni, ma i biglietti dell'80% con il calo dei contributi pubblici, si fa notare in una riunione di direzione quando Lissner spiega che il costo elevato dei biglietti influisce sull'immagine del servizio pubblico che il teatro è, e nella considerazione che i cittadini ne hanno, quindi lui vorrebbe ridurre i prezzi. "Sciopero nazionale" dice il direttore al telefono con la stampa, mentre giù, nella Place de Bastille i manifestanti scandiscono "grève [sciopero] générale": è solo lo scorso anno, scioperi, manifestazioni e anche pestaggi sono all'ordine del giorno per mesi proprio sotto quelle finestre, luogo storico delle proteste francesi, ma l'espressione loi travail (l'equivalente del criminale Jobs Act italiano) non viene né intesa al di là dei vetri, né pronunciata al di qua. Manca il coraggio? manca il permesso? manca la voglia?

Nel frattempo il mecenatismo trova la sua espressione più colorita e commovente nel progetto di una canuta filantropa internazionale che accoglie per tre anni i bambini dei quartieri sfavoriti per insegnare loro uno strumento, formando una piccola orchestra. Troppe questioni pesano sugli archetti sfoderati dietro quegli occhioni, troppo facile raccomandare alla fine del percorso, al bimbo che ti si aggrappa alla vita: "Continua a studiare a scuola: sei dotato" e poi volare a New York per rivedere gli amici. Le gocce nel mare della casuale buona volontà non possono e non potranno sostituire la politica di programmazione a lungo termine basata su adeguate risorse pubbliche: l'unica inclusione che realmente funzioni. Ovviamente anche a teatro.

Chanter, danser, être nous-mêmes
Il faut montrer qu’on est debout, que le public aussi est debout, car c’est lui qui a été touché vendredi. (...) Il faut continuer à aller au spectacle, revendiquer notre culture."
A novembre 2015 l'Opéra decide di andare in scena, primo spettacolo dopo gli attentati del Bataclan, dei caffè e ristoranti di République e dello Stade de France ricordando all'apertura del sipario come siano stati colpiti i loro colleghi e i luoghi di spettacolo: ancora una volta la cultura, come con Charlie Hebdo.
Ma l'altra coesione, quella sociale di ogni giorno, lasciata fuori dal teatro, dove la stiamo abbandonando?

Ad ogni modo, splendida serata per il sabato di Pasqua in una Parigi spazzata dal vento e dalle nuvole grigie (perdoni Picasso) e rosa.



sabato 15 aprile 2017

A Parigi



Non vi sono soli infuocati in questa città (magari i suoi abitanti la penserebbero altrimenti, ma oggi non saranno 12 gradi umidi e piovosi e io sono imbozzolata in tre maglioni), ma se dovessi descrivere cosa sia, cosa mi abbia dato e quanto io l'ami, vorrei saperlo esprimere altrettanto bene:

59. Air

Queen of Sheba
Will the sun forget to streak
Eastern skies with amber ray,
When the dusky shades to break
He unbars the gates of day?
Then demand if Sheba's queen
E'er can banish from her thought
All the splendour she has seen,
All the knowledge thou hast taught.

Newburgh Hamilton?, 1749

ma non lasciarla per sempre.




martedì 4 aprile 2017

Une force tranquille

La mattinata finisce con un pensiero suicida quanto razionalmente immotivato che mi esplode nel cervello: "E' tutto perduto". Sto cercando di capire se stesse parlando della torta in forno o della zuppa in frigorifero, del tempus fugit o del trauma infantile.
Poi:
"Scusi è del quartiere?" mi piacerebbe, ci passo molto spesso, ma non ci vivo. L'anziano signore ha l'aria un po' sperduta ma gentile e quasi cerimoniosa. "Sa mica dove passa l'autobus qui?" "Qui" è una piazza trafficatissima dove sboccano almeno cinque viali, il métro e innumerevoli autobus, costellata di caffè e colorata di aiuole fiorite. "Mi hanno detto che è di là", prosegue indicando vagamente alle mie spalle. Lo sento proprio perso. Sto brandendo il cellulare per segnarci un appuntamento importante e ricordo di avere giusto quel mattino recuperato la mia mappa di Parigi che temevo persa durante il trasloco. Aspetti che lo cerco, rispondo, dato che la mia aria sperduta non l'ha affatto scoraggiato. "Oh no, ma no, questo è troppo, vedo che lei è davvero attrezzata" replica lui, sempre più gentile e stupito. "Allora dove deve andare? E quale sarebbe il numero dell'autobus?" Il numero è sbagliato ma con una coincidenza si riesce a raggiungere la buona fermata. "Vede, deve andare su quel viale, lì prende il primo autobus, poi all'incrocio cambia, oppure prende quest'altro che dovrebbe avere una fermata in comune con quello che lei sta cercando." Non è facile fargli vedere la pur evidentissima pensilina.
Alla fine si illumina: "Vede, le persone... grazie... dio [e a questo punto credo di percepire nella sua lingua un lievissimo accento nordafricano, i Francesi di origine europea essendo molto pudichi nel fare riferimento al soprannaturale] ci ha fatti per aiutarci gli uni con gli altri, per vivere bene insieme... eppure... questo... lei... una forza tranquilla... ma basta capire che possiamo... che non dobbiamo avere paura, le persone spesso sono chiuse per la paura, per la fretta... perché non sanno... invece... si può essere così gentili, tanto tanto gentili... e risolvere tutti i problemi." Sono così confusa che la mia repluca non è di sicuro all'altezza della sua benedizione. Ma spero che l'anziano signore serberà un ricordo altrettanto buono di questa giornata.
La mia continua in libreria, dove cado inaspettatamente su un libro che desideravo da tempo, usato, a 13 euro anziché 35 - il che è un balsamo per le mie tasche vuote.
Due buoni presagi.
E se adesso trovassi l'animo per finire sul serio quel benedetto lavoro che mi aspetta e mi soffoca da troppo tempo, il bambino capriccioso che è in me potrebbe ritirarsi soddisfatto e farmi godere delle meritate vacanze.

Aggiornamento: avevo tralasciato l'espressione più importante del discorso del signore: "une force tranquille", l'ho aggiunto oggi.

sabato 1 aprile 2017

2 marzo 1584 - Sentinelle des mers

Viene firmato il contratto per i lavori:
 

non lontano da Bordeaux nel mezzo dell'estuario della Gironda, nella Francia sudoccidentale,
 
  su un'isola di sabbia. 
 Si dice che almeno a partire dall'alto medioevo quei banchi di sabbia fossero segnalati alle navi in transito. Operavano presenze strane: nell'alto medioevo misteriosi mercanti saraceni, poi eremiti cluniacensi si fanno custodi dei fuochi. Nel tardo XVI secolo lo stato assume l'iniziativa, consolidando la sua presenza e i suoi campi di azione. Henri III poi Henri IV si sarebbero interessati al progetto. Il faro sarà inaugurato nel 1611, un anno dopo l'assassinio di quest'ultimo.
Luigi XIV farà decorare una sala interna, la sala dei re.

La parte più delicata del lavoro di un faro è l'accensione della lanterna. Oggi si fa automaticamente. Un tempo era un lavoro di destrezza e anche pericoloso. Bisognava riuscire ad accendere tutti i fuochi senza bruciarsi e senza dare fuoco all'apparecchio:

Tutti i fari di Francia sono stati poco a poco automatizzati e nessun guardiano dello stato vi abita più dal 2012. A Cordouan, monumento storico, e in altri fari dell'Aquitania sono gli enti locali a assicurare la conservazione e la pulizia delle lenti, tramite un consorzio. Ma altrove?
A Cordouan volendo ci si può sposare, ma solo in chiesa. C'è infatti una cappella. Per celebrare i quattrocento anni del faro il Ministero dell'ambiente ha commissionato un pezzo di musica corale sul testo di un sonetto scolpito nella cappella, scritto probabilmente dall'architetto di Cordouan. "Quand j'admire ravi ceste oeuvre de mon courage".

Nei fari mancavano i gabinetti, installati solo negli anni '80, in seguito a una campagna stampa. Mi ricordò la mia prima casa vicino a Vercelli.  Era nella soffitta di in una villa nobile vicino alla quale sorgeva una casa contadina. Viveva lì una coppia arrivata negli anni Settanta dal sud, con i genitori di lei. Presi in consegna già in stazione dai proprietari terrieri della zona ormai traferiti a Milano. Avevano bisogno di qualcuno che gli curasse le proprietà, e i contadini immigrati avevano trascorso la loro vita in quello sperduto angolo di paradiso a mezza costa su un incantevole lago, in faccia alle Alpi. Il gabinetto era una tavola posata su un buco, esterno. I padroni installarono i servizi igienici solo a metà degli anni'80, dopo ripetute richieste.
All'epoca i guardiani dei fari dissero che avrebbero preferito che gli cambiassero i materassi e gli altri arredi. L'umidità li faceva marcire in breve tempo. Malgrado interni dall'apparenza spesso lussosa, i quindici giorni al mese che passavano in mare erano piuttosto scomodi. Salsedine dappertutto, buona parte del loro lavoro consisteva nel pulire i meccanismi e i fuochi della lanterna, e il faro nel suo complesso.
Eppure a chi non piacerebbe lavorare a una scrivania così?

o scorgere questo al mattino:
giocare con le luci?

L'importante è che non manchi una biblioteca.
La storia del faro  accompagnata da molti documenti che ne parlano.
Immagini prese da Wikimedia commons (grazie) e da qui.
Mi piacerebbe un giorno arrivare laggiù.
 
(L'ultima foto è di Michel Le Collen.)

"C'est la sentinelle des mers."