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lunedì 5 giugno 2017

Quando l'informatica aiuta la lettura? - Aggiornamento del post precedente

Aggiornamento: l'esperienza di due domeniche fa ha confermato vantaggi e svantaggi di questo tipo di strumenti. Tra i vantaggi va posta senza esitare la possibilità di ricercare termini e nomi in testi lunghi privi di indici affidabili: bisogna pero' stare attenti e essere sicuri di conoscere tutte le varianti ortografiche adoperate per questi ultimi, il che quando si tratta di documenti non recenti è tutt'altro che scontato. Basta una doppia in più o in meno per neutralizzare il motore di ricerca interno, cosa che con un indice su carta opportunamente fornito di rinvii non accadrebbe. Inoltre il motore non sempre è un grado di leggere correttamente le ortografie antiche e quindi da' a volte risultati inesistenti o fantasiosi.

Svantaggi: son di due tipi.
I programmi di visualizzazione. Se si legge in .pdf è complicatissimo per un documento cosi' lungo riuscire a scorrere le pagine all'indietro, ad esempio. Ci mette un tempo infinito e molto spesso salta una pagina tra quella in lettura e quella che visualizzerà: generalmente salta proprio la pagina richiesta. Inoltre per motivi incomprensibili, il programma si chiude da solo su certe pagine (testato su due pc diversi).
Se leggi in kindle ma da pc, come faccio io, nove su dieci non te lo apre, o lo apre male, insomma si parlano poco. Inoltre non si riesce a usare la funzione "trova".
Se lo lasci sul sito di archive.org, come pure ho provato a fare, sfogliando le pagine, va bene finché vuoi fare una lettura "dalla prima pagina all'ultima" come fosse il romanzino del mese che non ti va di comprare su carta perché costa meno digitale. Va meno bene se ad esempio, hai cercato un termine o un nome che ricorre frequentemente nell'arco di poche pagine. I punti di segnalazione, ancora una volta esemplati sulle palette delle mappe google, si sovrappongono e non c'è verso di riuscire a individuare quali e quante siano le pagine giuste: rischi sempre di perdertene qualcuna senza accorgertene.
Inoltre non si puo' stampare.

Tutte cose che fanno perdere un sacco di tempo e di pazienza, ma pure di salute. Infatti e qui veniamo al secondo tipo di svantaggi, io trovo che la lettura da pc sia quanto di meno ergonomico esista. Il libro è un oggetto complesso, concepito e un tempo anche fabbricato per la lunga durata. Ha una sua ergonomia che mira al risparmio e alla comodità, fatto salvo ovviamente un uso di rappresentanza o tesaurizzazione che ha altre esigenze. 
La macchina oltre a essere constantemente energivora, richiede una postura molto meno modificabile e adattabile e per quanto sia ad alta definizione, questi  schermi sono splendidi ad esempio, stanca occhi e articolazioni molto più di un oggetto relativamente maneggevole e leggero su carta.
Insomma crea dolori, soprattutto se si usa in modo costante e quanto meno è moderna e ovviamente costosa, e si parla di migliaia di euro, pesanti sui nostri salari impoveriti da decenni di tagli, precarietà e disoccupazione.

Inoltre la lettura su schermo per me è deleteria perché non mi fa ricordare nulla. Lo schermo in sé unito all'imperativo di internet, stupido, ma commerciale, di leggere solo i primi dieci risultati (forniti da un indipendente e disinteressato motore, naturalmente) e di interagire per urletti e battutine, una cosa che i blog avevano per fortuna iniziato a ridurre, proponendo un ritorno alla scrittura che i social hanno distrutto a vantaggio della stupidità e del nulla assunti a suprema abilità comunicativa sotto il nome di spiritosaggine, ma cio' è un altro discorso, facilitano l'ansia di "andare avanti" e una lettura frammentaria, volante e superficiale di contenuti e ragionamenti che sono invece per loro natura distesi, articolati e complessi.

Puo' essere un grande vantaggio in certe discipline, per esempio, avere sottomano senza scollarsi dalla sedia articoli scientifici concepiti in maniera ormai sempre più standardizzata cui fa figo mostrare di saper aderire meglio degli altri, composti da una serie di quattro disegnini accompagnati da tre pagine di tessuto connettivo formato da parole, per concludere con una pagina di note: "Mi cita? chi cita?" è la tipica reazione pavloviana. Questo tipo di lettura (che puo' ovviamente proporre risultati validissimi, nel proprio campo, esattamente come vere porcherie) è assai favorita da programmi che permettono di visualizzare ad esempio le sole note o i soli grafici. Ma la formula di organizzazione del testo e di scelte di impaginazione, quindi di lettura, riflette solo la maggiore forza economica di alcuni modelli mentali legati a precisi campi di ricerca, non a tutti e non c'è nulla di più deleterio per le scienze umane che hanno altri modi e linguaggi, discorsi e tempi di riflessione e lettura. Si facilita cosi' l'uniformazione forzata su un solo criterio di elaborazione e fruizione di testi scientifici che tende a eliminare qualsiasi approccio diverso, proposto sempre più all'esecrazione sia pure garbata,  come mancante di rigore o peggio ancora di "modernità".

Morale: ho potuto individuare i passi che mi interessavano, a prezzo di tre quarti di giornata passati a sudare su come trattare con quella digitalizzazione: ma per poter dire di essermi realmente appropriata di quel testo ho dovuto aspettare il giorno dopo, andare in biblioteca e leggerlo sulla sacrosanta carta senza ammazzarmi il corpo oltre che la pazienza. 
Quello che è stato assolutamente insostituibile è stato l'indice automatico, anche perché conoscevo le varianti ortografiche: non avrei mai potuto leggere tutto il volume in tempo ragionevole. Allo stesso tempo, la scomodità assoluta di leggere online il contesto attorno ai passi citati avrebbe sicuramente facilitato una lettura parziale e superficiale, oppure domandato una fatica che pochi e non sempre sosterrebbero, per comprenderlo realmente.

Mi domando a questo punto se la lettura su schermo non stia diventando una lettura sostanzialmente per poveri, mentre la carta, che richiede tempo per accedervi, costi maggiori per acquistarla, spazio per immagazzinarla, anche e soprattutto in case sempre più esigue per il loro costo rispetto ai salari, spese di gestione rilevanti per le strutture collettive, non stia invece sempre più acquistando, dopo avere contribuito a diminuire il costo della produzione dei libri facilitandone la diffusione, le caratteristiche di un prodotto per ricchi.   

Quindi, per fortuna che esistono ancora le biblioteche aperte, in Francia, con orari anche serali, e con la distribuzione che non chiude nel primo pomeriggio e che non è limitata a un numero assurdamente esiguo di volumi, come in Italia. Cioè per fortuna che lo stato SPENDE per i SALARI  delle PERSONE ( non per i profitti delle aziende che impiegano precari!) che devono garantire questi SERVIZI sacrosanti, l'ACQUISTO dei libri necessari per rimanere aggiornati rispetto alla produzione editoriale, il MANTENIMENTO di strutture eccezionali e spesso BELLISSIME, dove studiare, leggere, imparare diventa più semplice perché il nostro corpo e il nostro cervello sono semplicemente, più SERENI.
Queste sono (alcune delle) cose per cui lo Stato, cioè tutti, DEVE spendere. Non risparmiare. Mai. 

giovedì 20 aprile 2017

Chanter, danser, être nous-mêmes. - Opéra

Aggiornamento: oggi più che mai le parole del direttore dell'Opéra di Parigi sono appropriate.

Se foste un toro francese bianco e muscoloso potrebbe capitarvi di passare tutte le sere a teatro per farvi la doccia. Prima però avreste trascorso diverse ore nella vostra stalla o recinto all'aperto con un altoparlante al fianco, ascoltando Moses und Aaron di Arnold Schoenberg. Il siparietto fa parte del documentario dietro le quinte L'Opéra, girato dal regista svizzero Jean-Stéphane Bron nei teatri parigini di Bastille e Palais Garnier. Al settimo piano del (brutto) edificio contemporaneo dell'Opéra Bastille (a suo tempo criticato per le sale prova sotterranee ecc.), nel sud est della città, il direttore del teatro, Stéphane Lissner, ha Parigi in mano e sotto di sé. Tutti i monumenti celebri fanno da scenografia alla parete vetrata circolare della sua sala riunioni. Sui divani si prepara la conferenza stampa della stagione: "Un nuovo modello economico... dobbiamo cercare più mecenati" è la conclusione. "Sì, ma questo non lo diciamo", ribatte il direttore, "parliamo solo di nuovo modello". Si parte bene, pensa la spettatrice, finalmente qualcuno osa dire che la cultura e lo spettacolo vanno  dove ci sono i soldi prima e poi tutto il resto. Purtroppo alle premesse non seguirà che qualche sporadico accenno in tutto il film, del resto alquanto epidermico. Bello nel ritmo e nello stile, spoglio e attento a evitare la retorica fino al punto di non rendere quasi omaggio alle opulente strutture architettoniche tanto a portata di mano, il film paga probabilmente lo scotto di essere stato girato troppo dall'interno (un Lissner nel Lissner?). Diventa un diario d'alta classe (noblesse oblige) e grande pubblico che potrebbe proseguire infinitamente uguale a sé stesso, ma difficilmente, forse per mancanza di competenza del regista stesso, riesce a esprimere un'analisi critica, artistica (totalmente assente) o d'altro genere. Al confronto, sul tema economico e persino sociale e di costume era più brutale il Jean Renoir dell'inverosimile French can can...

Luogo composito di incontro e rappresentazione, l'Opéra nel film è anzitutto un luogo di lavoro quotidiano di oltre cinquecento persone, artigianale e complesso. I protagonisti entrano e escono dalle parti inversamente rispetto allo spettatore, con effetti talvolta splendidi, come in una prova con i danzatori. Questo interessa il regista, senza dubbio.
Gli elementi fondamentali e la routine della costruzione di spettacoli complessi (opera e balletto) di alto livello ci sono tutti. Il concorso di canto, le prove, le inevitabili tensioni con il regista cui il direttore dà un risposta di grande classe, senza interferire dal punto di vista artistico, ma programmando una gratifica al coro e all'orchestra impegnati in un lavoro più duro e lungo del solito, i dissensi con il responsabile del corpo di ballo, frammenti di prove, affascinanti ma troppo brevi per capire alcunché, i cantanti danno interviste, il maestro scende, le costumiste si affannano, le cantanti si fanno riprendere con il telefonino... il  polverio del lavoro teatrale si ricompone nelle numerose sere di spettacolo di un grande teatro internazionale, dei quali non si vede quasi nulla perché non sono l'oggetto del film. Ma tutto resta appena sfiorato all'interno di qualche vicenda individuale per fortuna solo accennata: il giovane slavo che ha fatto i suoi studi in Germania, ambizioso, narciso e adeguatamente svagato, preso sotto tutela dai colleghi più esperti, il coreografo in crisi per avere dovuto lasciare la danza attiva, la sostituzione dell'ultimo minuto sotto Pasqua e naturalmente le particine che allargano il cuore, come i due fattori giunti alla prima per accompagnare il loro formidabile toro. "Fategli la doccia, dopo, perché gli piace, lo rassicura, così lui è contento", raccomandano, prima di aprirsi in un sorriso radioso all'entrata della loro bestia fino al proscenio. E così sarà, nei sotterranei, con un bel tubo di gomma. La Francia è ancora un paese rurale, dove l'agricoltura è un'attività importante, celebrata ogni anno da un salone nazionale a Parigi nelle due ultime settimane di febbraio, un avvenimento interclassista, interetnico e intergenerazionale. Raccomanderei di visitarlo a chiunque si interessi non solo di vacche ma di cosa siano i Francesi che (sia pure con diversi snobismi da parte di un certo ceto) ci tengono moltissimo. Raccomanderei anche i fichi secchi farciti al foie gras, detto tra noi ;-), i caldi maglioni di lana pura e molto altro, prodotti di attività familiari o comunque molto piccole. Andarci è sacro dovere di ogni presidente in carica a costo di essere accolti da carrettate di letame e quest'anno anche di tutti i candidati presidenziali. In diversi programmi elettorali una sezione o almeno alcuni punti sono rivolti proprio ai piccoli e medi agricoltori. Sarkozy perse non poca popolarità quando saltando quell'impegno manifestò tutto il suo snobismo nei loro confronti, vale a dire il suo interesse per altre frequentazioni economiche.  Il toro in scena nel film porta dentro il teatro anche questo pezzetto di Francia. A teatro confluiscono mestieri e classi sociali, quindi i loro rapporti. Arriva il presidente della Repubblica, ma si riesce appena a raccomandargli la propria politica di formazione di nuovi artisti e nuovo personale. "Siamo bloccati tra le richieste dei sindacati di sostituire i lavoratori andati in pensione e aumentare i salari e le richieste del ministero di fare più rappresentazioni con meno mezzi e di vendere sempre più biglietti" riassumono Lissner (peraltro di nomina politica com'è quasi inevitabile per cariche del genere) e il suo vice dopo una telefonata con il ministero costituita di rifiuti a qualsiasi richiesta di impegno economico e di assunzioni (c'è il fiscal compact della UE, bellezza, pure sul palcoscenico). I salari sono aumentati del 20% negli ultimi decenni, ma i biglietti dell'80% con il calo dei contributi pubblici, si fa notare in una riunione di direzione quando Lissner spiega che il costo elevato dei biglietti influisce sull'immagine del servizio pubblico che il teatro è, e nella considerazione che i cittadini ne hanno, quindi lui vorrebbe ridurre i prezzi. "Sciopero nazionale" dice il direttore al telefono con la stampa, mentre giù, nella Place de Bastille i manifestanti scandiscono "grève [sciopero] générale": è solo lo scorso anno, scioperi, manifestazioni e anche pestaggi sono all'ordine del giorno per mesi proprio sotto quelle finestre, luogo storico delle proteste francesi, ma l'espressione loi travail (l'equivalente del criminale Jobs Act italiano) non viene né intesa al di là dei vetri, né pronunciata al di qua. Manca il coraggio? manca il permesso? manca la voglia?

Nel frattempo il mecenatismo trova la sua espressione più colorita e commovente nel progetto di una canuta filantropa internazionale che accoglie per tre anni i bambini dei quartieri sfavoriti per insegnare loro uno strumento, formando una piccola orchestra. Troppe questioni pesano sugli archetti sfoderati dietro quegli occhioni, troppo facile raccomandare alla fine del percorso, al bimbo che ti si aggrappa alla vita: "Continua a studiare a scuola: sei dotato" e poi volare a New York per rivedere gli amici. Le gocce nel mare della casuale buona volontà non possono e non potranno sostituire la politica di programmazione a lungo termine basata su adeguate risorse pubbliche: l'unica inclusione che realmente funzioni. Ovviamente anche a teatro.

Chanter, danser, être nous-mêmes
Il faut montrer qu’on est debout, que le public aussi est debout, car c’est lui qui a été touché vendredi. (...) Il faut continuer à aller au spectacle, revendiquer notre culture."
A novembre 2015 l'Opéra decide di andare in scena, primo spettacolo dopo gli attentati del Bataclan, dei caffè e ristoranti di République e dello Stade de France ricordando all'apertura del sipario come siano stati colpiti i loro colleghi e i luoghi di spettacolo: ancora una volta la cultura, come con Charlie Hebdo.
Ma l'altra coesione, quella sociale di ogni giorno, lasciata fuori dal teatro, dove la stiamo abbandonando?

Ad ogni modo, splendida serata per il sabato di Pasqua in una Parigi spazzata dal vento e dalle nuvole grigie (perdoni Picasso) e rosa.



sabato 12 dicembre 2015

... e di cuocerlo la sera

Stavolta il pane. 
Idea nata d'un balzo davanti agli sconfortanti scaffali del supermercato che, ormai ahimé come quelli dei fornai, propongono pane di cartongesso, polveroso e vuoto. Fatto in serie, badando a risparmiare sino all'ultimo granello di tempo, farina, energia di cottura, per realizzare margini di profitto sempre più alti. Per mangiare del pane decente devo aspettare di avere a disposizione le baguettes tradition nelle boulangeries parigine degli artisans boulangers. Un'arte con i suoi maestri, lassù. I maestri si vedono in questi mesi minacciati dalle nuove leggi che consentono l'apertura tutti i giorni e tutto il giorno dei supermercati e dei cosiddetti "punti di cottura" che si limitano a cuocere e smerciare impasti congelati anche diverso tempo prima. Legati alla grande distribuzione, questi punti vendita possono permettersi di tenere aperto tutti i giorni tutto il giorno, mentre le panetterie artigianali dovrebbero o aumentare a dismisura il loro carico di lavoro o assumere nuovo personale che non potrebbero permettersi di pagare il giusto per tenere aperto con gli stessi orari. Il rischio è la chiusura delle piccole attività artigianali (con relativa disoccupazione), il cui giro d'affari andrebbe una volta di più ad aumentare quello della grande distribuzione, che smercia però un prodotto tutt'altro che comparabile, proprio per le sue esigenze di standardizzazione e massimizzazione dei profitti in ogni passo della catena di produzione e distribuzione. Ma come? E la "Libertàààààààà"?????
Tra il forte e il debole la massima libertà danneggia il debole, diceva una volta qualcuno.  Qualcosa di simile avviene già in Italia, dove il pane non ha l'importanza che riveste in Francia, dato il nostro consumo di primi piatti a base di carboidrati, lassù molto meno rilevante.

A questo punto perché non farcelo da noi, visto che siamo ospiti in campagna in un we dalle notti fredde e dalla giornate ancora quasi di fine estate? Lo faccio io. Sia chiaro, non farò mai parte dell'esercito che si autoproduce tutto in casa, perché di ritornare a vivere per impastare e pulire come le nostre ave non se ne parla proprio. Anche coltivare la pasta madre presuppone fare della cucina il passatempo principale e benché sia nobilissima arte, al momento preferisco ancora passare dall'altro lato della mensa. Quanto al decrescitismo all'italiana che tale dedizione conforterebbe, così facile e alla moda tra certe damazze dalle pretese finto alternative quanto molto perbene nel loro consumare, rimango con il dubbio se mille forni casalinghi non siano in realtà più energivori di un unico forno collettivo che lavora per mille famiglie, senza parlare delle impastatrici. Quindi  è stato un esperimento, forse non un unicum, ma
soprattutto un gioco. Che deve cominciare dalle regole, la prima delle quali è: si impasta a mano. La seconda è: facciamo la figura del tipico italico marito che davanti agli scaffali del supermercato, giacché è troppo sforzo segnarsi la lista della spesa, si attacca al cellulare e chiama, seccato, lagnoso e passivo aggressivo quanto basta, la moglie. Cara, che pomodori devo prendere? Non li trovo. Ma scusa, i pomodori sono rossi? Sono di forma allungata? Sono in un barattolo o in bottiglia? Ma la salsa non si fa con il succo di pomodoro? qui c'è "solo" il succo di pomodorooo e via attivamente collaborando alla gestione del quotidiano (inferno per chi li sopporta. Lo confesso: sono rimasta traumatizzata a vita, temo, quando in un viaggio di lavoro una povera partecipante dovette ricevere in meno di un quarto d'ora cinque telefonate dal marito che non sapeva dove fossero i vestiti dei due figli, né quali fossero acconci a una giornata di maggio. Maria Montessori quanto ci sarebbe bisogno di te!).

La mia telefonata era diretta a lei, che molto pazientemente mi ha guidata prima nell'identificare quale farina di forza fosse la più adatta, poi con quale semola accompagnarla, e tutto il tempo del procedimento col rispondere a una serie di sms. "Se raddoppio i tempi di lievitazione posso dimezzare il lievito?" - sì, sono della setta a lievito zero ;-P e credo che la prossima volta lo diminuirò ancora perché è quello che rende il pane simile a polvere - "Posso strapazzare l'impasto?" "Devi!". Si sa che i lievitati richiedono la massima attenzione: "È un'emergenza?" mi ha chiesto quando in un momento culminante l'ho chiamata distrubandola sul serio... Impastare a mano è una goduria, quando non devi farlo per dieci persone tutte le settimane dell'anno. Sentire cambiare la consistenza sotto il palmo e capire quando la pasta ha preso tutta la sua autonomia, soda, compatta, elastica, è imprescindibile se si vuole padroneggiare la cucina.

Gli ospiti nel frattempo si facevano sempre più impazienti e curiosi: "Sicura che stia lievitando ancora?" "Sì" "Guarda che poi non cuoce" "Sì". "Adesso ti si sgonfia" "No". Vero è che il mio lievito zero ha fatto abbondantemente passare l'ora di cena e quella decente per andare a dormire.
Così l'abbiamo infornato di notte e siamo andati a letto in una nuvola di spesso profumo di pasta lievitata che cuoce ricacciando l'umido della campagna e riscalda la casa.
Si racconta che qualcuno, di coloro che fanno le viste di essere molto, molto discreti, ma devono tenere tutto sotto controllo, si sia alzato alle prime ore dell'alba per andare ad aprire lo sportello del forno e controllare lo stato delle pagnotte.

Io mi sono limitata a ritrarle la mattina successiva e le pubblico qui per mostrarle alla mia guida panificatrice:



Il curioso di cui sopra ha decretato che sono divine per accompagnare l'uovo à la coque o al padellino.

Il vicino di casa, nelle sue deliziose novantacinque primavere, non poteva non avere diritto a un assaggio e l'ha divorato come pan di zucchero, portandosene via per provvista una buona metà.

La mia mamma ha voluto gli avanzi di farina e la ricetta.

Io rimango dell'idea che sia impresa festiva e ludica, e per questo, si sa, non possono mancare le rose.




La ricetta è più o meno quella di Nora già sperimentata una volta da inconsapevole esecutrice.