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venerdì 29 aprile 2022

Il risotto del Primo maggio senza dispensa

 Svuotare la dispensa, tema del risotto odierno,  sarebbe attività piacevole solo ne avessi una.

Quella che il mio superbo salario di dipendente pubblico mi permette di avere, è questo spazio qui sugli scaffali aperti che la parete attrezzata concede:


E fare un risotto alla maizena è un virtuosismo di cui non mi sento ancora capace.
A volte nel frigo però stazionano troppo a lungo verdure appena laboriose, perché il tempo a una sfaticata dipendente pubblica manca, e pure le energie quando torna a casa svuotata da una situazione lavorativa insensata, non perché pubblica ma perché demolita dai tagli della spesa e dei salari - sì proprio quelli richiesti da costui e da questo laido foglio che incita al conflitto intergenerazionale fingendo di non sapere di avere richiesto lui per primo un rinvio dell’età pensionabile, un taglio dei lavoratori dipendenti - e chi dovrebbe pagarle, le pensioni, se viene sostituito un dipendente su tre? E ci facciamo anche prendere in giro da chi parla, falsamente, di spesa pensionistica insostenibile? Date contratti che prevedano contributi, abolite l’infinita fogna normativa giuslavorista che va dal pacchetto Prodi-Treu al Jobs act renziano che hanno distrutto i contributi, invece di nausearci con articoli smaccatamente faziosi e provocatori degni non del pesce ma nemmeno delle lische (che si sa hanno i loro estimatori - non io!!!!). 

Il primo maggio qui si mangiano le fave col pecorino romano, nella gita fuori porta. Si mangiavano. Belle fresche e appena pungenti, crude, sfilate dal baccello. Così ho provato a fare un risotto alle fave pecorino e menta. Gli ingredienti principali stazionavano da un po’ in frigorifero. E ieri sera ho sbollentato e pelato le fave, anche se pelarle a crudo avrebbe dato risultati migliori.
Ho messo a marinare la menta nell’olio d’oliva. E oggi, tornata a casa:




Risotto del Primo maggio con fave pecorino e menta

Fave pelate fresche - consiglio di abbondare
Pecorino rigorosamente romano - idem come sopra

2 pugni di riso

Vino bianco

Infusione di menta fresca

Sedano

Olio aromatizzato alla menta

Soffriggere il sedano a dadini in olio, unire il riso, sfumarlo, portarlo a cottura con l’infusione di menta. Non salare troppo. Unire le fave. Mantecare con il pecorino, eventualmente sciolto in poca acqua calda.
Decorare con fogliette varie e qualche fava pelata a crudo.
Spolverare di pecorino.

P.S.: io l’ho fatto con la cipolla, più che altro per routine, ma la prossima volta userò del sedano. È un risotto fresco e verde e il sedano ci sta molto meglio.
P.P.S.: se ci si riesce unirei anche del dragoncello fresco. Ma in Italia purtroppo è introvabile a meno di non coltivarselo da sé. Secco non vale proprio la pena di usarlo.
P.P.P.S.: a pensarci si potrebbe anche fare un pesto di foglie verdi (dragoncello, sedano, basilico, mentuccia) e pecorino e usare quello per mantecare, aggiungendo poi le fave. Insomma va perfezionato.







mercoledì 13 aprile 2022

Tout compte fait

Aggiornamento dell’aggiornamento: e comunque se fosse possibile la sola cosa che avrei voglia di fare in questo momento è fare una nuotata nel mare. Né il cielo né la temperatura né la stagione purtroppo.

Aggiornamento. Dopo la prova: confermato purtroppo quanto scrivevo ieri. Anche se avessi studiato di più invece di perdere qualche giorno in fantasie tristi, non avrei mai potuto digerire tutta quella roba in tre mesi e mezzo. Come preparare tre esami universitari se non cinque, di cui due tostissimi e potenzialmente sterminati, e un terzo assai dettagliato, da non frequentante in una Facoltà non tua in tre mesi appunto e senza programma di esame. Magari il diciotto in qualcosa lo rimedi, ma se devi competere con centinaia di altri non hai speranza. Da tutte le domande spirava un’aria di famiglia, ma non si riusciva a definirla con l’esattezza necessaria. Mi dispiace in particolare non avere trascritto per ritegno abbastanza stupido una domanda finale che aveva l’aria di interno. Ma non credo che abbia perso il concorso per una sola domanda, ma per molte di più. Non sarebbe grave, vuol solo dire che ho bisogno di più tempo per assimilare e non è un dramma, se... SE il taglio dei dipendenti pubblici e le politiche di austerità non facessero si’ che concorsi del genere invece di essere non dico annuali, ma al massimo quinquennali, come una sana amministrazioe vorrebbe, e non come una improntata al principio dell’economicità maastrichtiana e alle repellenti logiche aziendali, escano a intervalli di oltre dieci anni.

Quindi temo proprio che non risorgeremo :-( mai più in tempo.

Sarebbe stato impossibile prepararsi nel modo giusto nel tempo che ci hanno dato. Ci sarebbero voluti sei mesi in cui non fare quasi nient’altro.

La materia da studiare che non è la mia ha subito troppi mutamenti negli anni neri tra il 2012 e il 2017 - non fatemi dire perché - e l’infarinatura che ne avevo non serve quasi più a nulla. Peggio, sono cambiamenti sotto il segno della prolissità, della farraginosità, della vuotaggine e della caoticità. 

Certo avrei potuto fare meglio, ma non devo rimproverarmi troppo, forse.

La cosa straziante è che non ci sarà un’altra occasione come questa e che i vecchi discorsi della porta e del portone non valgono più da decenni.

Almeno domani a quest’ora sarà finita.


E comunque

 Fissare la data di un concorso di giovedì santo è indubbiamente molto, molto raffinato.

Ora sono certa di non passare, non per il giovedì ma per la non preparazione.

Non sarebbe grave, studiando e facendo s’impara, se non fosse che ormai di concorsi ne esce uno ogni dieci anni, quando esce. E tra dieci anni sarò troppo vecchia.

È questa mancanza di speranza che è sbagliata, che crea masse di candidati sovradimensionate, che porta a esami senza capo né coda, che attanaglia e distrugge.

E perché? Ma « perché bisogna ridurre il numero dei dipendenti pubblici! » Perché ancora dopo due anni di pandemia, in cui la bellezza efficienza e responsabilità della riduzione trentennale dei dipendenti pubblici l’abbiamo potuta assaporare in tutti i modi, c’è chi bela e propaganda attivamente che « bisogna ridurre il debito pubblico secondo i parametri UE, io so l’economia » e perché? Perché n paesi diversi per dimensioni, storia cultura, popolazione usi economie devono fare tutti o quasi la stessa cosa nello stesso momento nello stesso modo. Cioè per una scelta squisitamente politica che di economico ha solo l’ideologia di cui si para e che ci smercia con più successo dell’erba pipa.

Come diceva quello che niente era più ingiusto che fare parti uguali fra diseguali? Ecco, appunto. 

Mi pare un buon momento per ricordarselo tutti.

martedì 12 aprile 2022

Non so

 In queste sveglie mattutine e incongrue alla vigilia dell’esame rifletto.

Avrei potuto studiare di più: si certamente e non solo perché si può sempre studiare di più. Neanche perché mi sia data alla pazza gioia o ai divertimenti - e quali, poi? E con che mezzi? In questo frattempo invece di stare sui libri. 

Avrei potuto studiare meglio, perché prendersi una laurea breve in tre mesi non è esattamente semplice e il concorso di fatto chiede più o meno questo. Mi è mancato, benché l’abbia cercato, uno sguardo da interno sul bando e su come indirizzare la preparazione, con quali strumenti, su quali aspetti delle materie, e quando ho creduto di averli individuati era tardi.  Non sarebbe grave se un concorso così non fosse un po’ l’ultima chance, se non fossero così rari (regole UE e riduzione della spesa corrente oblige, perché quello è non dimentichiamo) da non ritornare più, specialmente a un’età che non è più la prima.

Cosa mi ha impedito di studiare di più? Un insieme di fattori, direi sottesi da una grande rabbia per la condizione di frustrazione che vivo quotidianamente sul lavoro a causa della impotenza in cui sono costretta a svolgerlo, mentre vedo sin troppo bene cosa ci sarebbe da fare. Per troppo tempo sono stata incapace di definirla. È un viluppo che mi avvolge appena mi avvicino alla scrivania, una smania di allontanarmi in qualsiasi modo da lì, di mettere qualche cosa fra me e quella che vedo come una situazione di oppressione insensata, di spreco insensato, di follia alla fin fine. Almeno nell’ufficio entrasse un raggio di sole, macché: non ne ho né lì né in casa - sarebbe costato ventimila euro di più, avere il sole in casa, e quei ventimila non c’erano. Almeno avessi una stanza mia, uno spazio rinchiuso e in qualche modo delimitato dove mantenere un’integrità, respirare, non sentirsi dispersa sotto gli occhi del primo che passa tutto il giorno, tutti i giorni. Alle volte vado sul terrazzo condominiale per studiare, ma non sempre la temperatura lo permette. 

La rabbia mi ha soffocato lentamente, la rabbia inespressa e la totale mancanza di confronto, perché di fatto lavoro da sola. Alla fine mi hanno fatto perdere coscienza sempre più di chi sono e di cosa posso fare, ma pure rivendicare. Malgrado le rare conferme esterne siano sempre state positive, malgrado le mie previsioni siano azzeccate al 90%, pur in uno stato di sostanziale mancanza di informazioni, solo conoscendo il mestiere e il contesto generale. Mi hanno tenuto svegli solo istinti di opposizione per non farmi del tutto schiacciare: ma vivere in questo modo proietta in uno stato di preda che si rintana e esaurisce le sue energie nel nascondersi, nel mettere una barriera fra sé e una situazione troppo deprivante per poterla sostenere tutto il giorno tutti i giorni. Alla faccia di chi ha la sfacciataggine di dire che « il dipendente quando esce dal lavoro non ci pensa più » il lavoro o meglio quello che mia madre, con tutta la sua malattia ha efficacemente definito come « il non lavoro » ti invade pure quando dovresti « recuperare ».

Da lì probabilmente la grande stanchezza, la pesantezza che prendono il sopravvento sempre più spesso.

Perché per dire che, non solo la mia situazione quotidiana, ma quanto sta accadendo da ottobre in poi non fossero mie fisime capricciose e viziate, per crederci davvero, ho avuto bisogno che un’altra persona ci mettesse sopra le parole: « C’est profondément injuste. » Perché io non c’ero arrivata, a dirle che dico? A metterle insieme.  

Mi continuo a mettere non tanto nello stato di vittima ma in quello della bambina di otto anni che ha chiesto qualcosa di eccessivo, mettendosi perciò nella parte di un torto cosmico incomprensibile, di cui non le sono mai state date ragioni condivise né cittadinanza alle sue, in un mondo che aveva perso senso. Penso che questo mi abbia a lungo impedito di sviluppare una parte di me, quella che è cosciente dei suoi diritti a non apprezzare non tanto l’ordinamento del mondo, su quello anzi la critica è sempre stata legittima, ma proprio certe cose che le sono imposte, senza sentirsi in colpa. Quindi quando si tratta di sé stessa, rimane sempre senza le parole per dire di no e le forze per tradurle in atti. Al di là del fatto che allora una sorta di affidamento condiviso, ma con i nonni, chi ci avrebbe pensato all’epoca all’interesse del minore così, sarebbe stata l’idea più lungimirante, mentre mia madre mi vedeva come una sua proprietà non dotata di desideri legittimi, mi è rimasta l’incapacità di vedermi da fuori e di poter dire un « io » staccato dal dovere di non differenziare i miei desideri e la mia persona da lei, che mi chiedeva di non partire, di non volerlo fare, di non voler cercare un altrove che mi era più consono. Questo mi ha invischiato in una lotta devastante con me stessa, in cui le spinte a esistere e a fare e a creare si son sempre urtate in un risucchio invischiante alla passività che assorbiva ogni forza nel tentare inconsciamente di sciogliere un conflitto interiorizzato non risolto. Che mentre mi paralizzava, immobilizzandomi nelle situazioni « perché ci deve essere una soluzione », come allora fui paralizzata dalla sua furia dolore e dal suo ricatto emotivo, perché della sua maledetta casa dove ero sempre sola nulla m’importava io rivolevo la grande famiglia della casa dei nonni, mi suscitava una rabbia profonda che non si poteva esprimere e quindi non poteva esser superata. Questo mi ha bloccato tutta la vita e probabilmente riemerge ogni volta che devo affrontare una situazione frustrante, paralizzandomi in un’ altalena di sofferenza, spinta di fuga (ma non si può fuggire la madre adorata, quella che fin lì ti ha sempre ascoltato in modo leale e ora ti impone per anni cose che ti fanno male, addirittura orripilanti e profondamente ingiuste, fino a subire Mario, una bambina di otto anni non può senza spezzarsi) e incapacità di agire, perché c’è una rabbia non metabolizzata in quanto non espressa che invece di darmi energia per sottrarmi a una situazione infernale me ne sottrae per avvolgermi in sé stessa, ripiombandomi in un conflitto e in una incertezza inespressi, ma  devastante e totalizzante inconsciamente, perché all’epoca non ha potuto essere lasciata andare e esprimersi quando era il momento. Non ha potuto essere riconosciuta e io stessa ho finito con il misconoscerla e con il non sapere più che farne. Soprattutto questo. Ma finché non riuscirà a uscire e evaporare come il fumo malvagio della lamapda mi annerirà ovunque andrà.

Soprattutto mi ha lasciato l’incapacità di definire le cose con il loro nome: una situazione ingiusta è ingiusta, punto e come tale può effettivamente essere riconosciuta.

Poi ci si mettono anche le circostanze esterne ovviamente. In genere ai concorsi arrivo in graduatoria ai primi posti, e parlo di concorsi con centinaia, migliaia di persone, anche se non difficili come questo. Ma non ho mai, dico mai, passato una sola preselezione a quiz. Stavolta non farà eccezione.   

Quindi, da venerdì che fare? Mettere da parte quel che ho comunque imparato in questa preparazione, acquisire possibilmente un titolo nella materia perché servirà, ricominciare a guardare tutti i concorsi di livello superiore... ah già: quali concorsi? Perché di quel livello non ne escono praticamente più. Se ci saranno gli scatti quest’inverno prenderseli, tentare di avere un trasferimento per poter continuare a respirare, e aspettare. Sperare di arrivare in una stanza in cui entri il sole, già servirebbe. Ma non posso aspettare troppo, entro due-tre anni questa cosa dev’essere risolta. 

E tutto sommato non m’importa neppure cambiare lavoro: questo l’ho scelto perché mi ci sono trovata, ma se devo andare a fare il puro passacarte, va bene pure quello.

lunedì 11 aprile 2022

Senza titolo perché non mi viene o forse cos’è Macron

 Passare due ore tra le tre e le cinque del mattino rivoltandosi nel letto alla quasi vigilia di un esame fondamentale - e su cui non ho più molte speranze, avrei avuto bisogno di molto più tempo per affrontare materie che non ho mai studiato - non è la cosa migliore che si possa fare.

Ho notato che mi accade spesso quando ho qualcosa da dire e non lo faccio; per cui, sperando di avere capito bene quale sia la causa di questa irrequietezza, scrivo un paio di osservazioni banali sulle elezioni presidenziali in Francia, mentre si scalda l’acqua per la borsa notturna (altro che un maglione in più), sperando di poter poi recuperare qualche ora di sonno tranquillo e poter studiare meglio.

Prima cosa fondamentale: le elezioni sono le loro e hanno quindi tutto il diritto di votare per chi meglio credono, e ancor meglio farebbero politici italiani e no a rispettare il principio di sacrosanto buonsenso della non ingerenza nelle scelte politiche altrui. Questo sdottoreggiamento ancora una volta declinato nei toni della più stucchevole emotività irrazionale e generica, che diffonde allarmismo senza mai dare elementi precisi di riflessione né analisi minimamente approfondite e razionali delle cause e dei processi scatenanti diverse scelte, ha veramente oltrepassato qualsiasi livello di sopportazione. Le persone votano e possono anche non votare come volete voi: va accettato e se del caso combattuto allo stesso livello, astenendosi da paternalismi e moralismi perché non è semplicemente il caso.

Questo per politici trolletti e media di casa nostra.

Per quanto riguarda i Francesi sono un popolo che tende a dare fiducia alle parole altrui molto più di quanto non accada qui. E di fatto sono generalmente affidabili. L’obnubilazione che si prendono ogni volta che parla l’attuale presidente però ha dell’inverosimile. Perché costui cos’era e cosa avrebbe fatto e farà glielo ha sempre detto chiaramente in faccia. La casse du code du travail sotto Hollande, omologa di quelle che da noi ha iniziato Prodi - no, che dico? L’amato Prodi! - l’ha cominciata lui, da ministro dell’economia e l’ha portata avanti pestando di santa ragione chi protestava. I suoi metodi brutali sono conosciuti da tutti. Nel 2005 un tentativo di introdurre misure simili a quelle di Prodi era stato respinto da studenti e sindacati di tutti i ceti che si erano ritrovati in piazza fino al ritiro del progetto di contratto di primo impiego, preludio alla precarizzazione definitiva di tutti i rapporti di lavoro. Ciancia di uguaglianza ed è stato un banchiere d’affari dei più disinvolti. La riforma delle pensioni contro cui si è battuta mezza Francia ha già detto che in un modo o nell’altro andrà fatta perché sì, cioè perché riducendo le prestazioni sociali sarà conveniente per i privati rilevarne la gestione; e la privatizzazione di tutto ciò che è pubblico, tranne forse la repressione, è il motore primo e immobile delle richieste UE. Questo è Macron, gruppo parlamentare UE dell’ALDE, i più liberisti dei liberisti, che adesso parla di égalité (e per questo piace ai privatizzatori di qui). 

I Gilet jaunes, che in Francia hanno sempre goduto di sostanziale consenso, sono stati oggetto di una repressione tra le più brutali, sia poliziesca sia propagandista, fino a arrivare a inventare un assalto a un ospedale, sia giudiziaria (in sostanza chiunque fosse stato denunciato anche solo per aver partecipato a una manifestazione senza far altro, era condannato senza andare per il sottile) che ha picchiato, ferito, storpiato, accecato, colpendo non solo manifestanti, ma giornalisti medici e avvocati. È stato, dal punto di vista della repressione, un G8 di Genova durato anni che si è esaurito solo a causa della pandemia. Il G8 quando il ministro dell’Interno era il missino Fini e il presidente del consiglio Berlusconi. Questo è Macron. 

Nel clima, già che ci siamo, ci son stati anche un ammazzamento o due del genere George Floyd, non su manifestanti ma in controlli ai posti di blocco, eppure non hanno scatenato la commozione mondiale e Macron è sempre considerato un capo di stato dei più rispettabili: ecco, una minima analisi dovrebbe cominciare a chiedersi il perché invece di agitare lenzuola. Con la pandemia ricorderemo il suo show sull’inutilità delle mascherine perché tanto nessuno avrebbe saputo nemmeno come usarle: per un paese che ha fatto una religione della formation - e infatti i risultati si vedono - cotanta sfacciataggine lascia vieppiù sbalorditi. L’impreparazione, la mancanza di scorte, di posti letto, di medici son stati gli stessi. Se la Francia se l’è cavata un po’ meglio è perché partiva ancora da un livello di servizi pubblici più alto del nostro, prima mai nato e poi abbondantemente seviziato dall’amato Prodi, anzi dai governi Craxi in poi (sempre sinistra, mica estrema destra). Questo è Macron.

Degli scandali delle consulenze agli specialisti in tagli e licenziamenti McKinsey (peraltro attiva anche in Italia sotto Renzi e sotto Draghi, anzi forse non sotto ma sopra), esautorando i funzionari, si è letto recentemente. C’est du pur Macron.

Ora, sapendo tutto questo, come si possa pensare di « faire barrage contre l’extrême droite » votando costui, come dei leader di cosiddetta sinistra possano concepire una simile ipocrisia, passa il limite della credulità. Cosa deve fare ancora costui per non essere etichettato per quello che è, un leader di estrema destra economica e violenta, appunto, che sta spezzando e vendendo qualsiasi resto di stato sociale e servizio pubblico che ancora facevano della Francia il paese più civile della UE e uno dei più vivibili del mondo.

Non ho una particolare propensione per la sua attuale avversaria: come gli omologhi nostrani mi pare una persona di nascosta brutalità, che non eserciterebbe mai nei confronti della gente perbene, ma già i salariati dei ceti popolari qual noi siamo potrebbero diventare assai sospetti. Ma nelle presenti circostanze e dati i precedenti dell’attuale presidente, qui altro che peste o colera, come dicono loro.

Il discorso di Macron ieri sera era l’apoteosi della fuffa, o della langue de bois, una serie di specchietti per le allodole in cui  pronunciare parole senza nemmeno articolarle in concetti, di gran lunga il peggiore tra tutti quelli che ci sono stati, totalmente vuoto di impegni contenuti. Il suo continuo ripetere « Niente sarà più come prima » senza prendere alcun impegno preciso, ad esempio non toccare le pensioni, suonava esattamente come il « Sarà tutto diverso d’ora in poi » detto dal marito alla moglie picchiata cui si chiede di tornare per l’ennesima volta all’ovile a suo rischio e pericolo. Al confronto quello della sua avversaria aveva se non altro un senso compiuto: il recupero di migliori condizioni di vita si raggiunge grazie all’autodeterminazione in una prospettiva di ricomposizione sociale della nazione - concetto quest’ultimo che ha una storia molto più lunga e complessa di quello che vorrebbero attribuirgli gli interessati interpreti di oggi: le saisies révolutionnaires, che hanno creato in Francia un’idea collettiva e pubblica di beni e in qualche senso « servizi » mettevano proprietà un tempo private sous la main de la Nation (le vendevano anche, ma è una storia lunga). A quelle parole ciascuno darà il credito che meritano: di certo non si può darne di più a quelle del suo avversario.

La dichiarazione di Mélenchon non da oggi rappresentante di una sinistra appena appena tinta di rosa, malgrado venga presentato come un radicale scatenato, mentre è solo un abile oratore che guida il suo partito in maniera personalistica e assolutista, ha un senso in vista delle legislative di giugno. Adesso che sei diventato decisivo perché gli altri partiti sono stati azzerati a causa della loro insipienza (con soddisfazione particolare nel caso della sindaca di Parigi, privatizzatrice, tagliatrice e affarista come poche, non a caso difesa da un giornale legato agli ambienti imprenditoriali, e che ha trionfalmente portato il PS ai minimi storici) e l’unico che dispone di un elettorato abbastanza numeroso da essere decisivo se spostato su un altro candidato, sai che puoi mercanteggiare con un presidente di quella risma per avere garantiti dei collegi a giugno, cioè per avere degli avversari deboli e fare eleggere i tuoi candidati. Ciò permetterà alla France insoumise di continuare a esistere senza contrastare le politiche economiche di Macron cioè senza disturbare niente e nessuno, e al suo fallimentare capo di condurre un’esistenza politica e di potere.

Tutto qui, il « barrage contre l’extrême droite ».

Vediamo se riesco a riuscire a dormire.

venerdì 8 aprile 2022

Riso seppie e sedano rapa

Senza fronzoli e di corsa (esame incombe tra sei giorni, anzi cinque e mezzo e io sono indietro come i limoni!!! E tremante come una giuncatina!!! ): )

Il sedano rapa l’ho realmente scoperto in Francia, dove serve, come abitualmente le radici invernali, per preparare insalate e mangiare verdura cruda in un periodo in cui di erbe in giro lassù ce n’eran poche.

È  però anche una spugna formidabile: assorbe magnificamente aromi e condimenti, diventando deliziosamente profumato. Non solo: morbido e avvolgente com’è, serve a dare consistenza e cremosità. Tale da dare una mano a chi vuole evitare latticini o altre temibili sostanze :-P in maniera molto naturale e piacevole. Non riesco più a trovarla ma sono certa che sul blog della Creatrice c’è la ricetta di un dessert al sedano rapa che mi è sempre parso geniale.

E mentre il mondo sembra rivoltarsi su sé stesso, mi pare un talento da sfruttare in maniera ragionevole.

Per rimanere, anche se il tema è libero, nel pesce di stagione, ho sfruttato una meravigliosa seppia venduta non pulita. A me le seppie piacciono nere: non inondate di nero, questo no, ma neanche troppo pulite. Così era questa.

Riso alla seppia mantecato con sedano rapa

1 seppia con i tentacoli

2 pugni di riso cosiddetto Carnaroli

1 falda di cipolla

1 rametto di rosmarino

Pangrattato

Olio

Cannella

Scorza di limone

Vino bianco

Tagliare a pezzi il sedano rapa, lessarlo finché morbido. Frullarlo. Far sudare in padella il rosmarino tritato e unire l’olio aromatizzato al sedano. Più restano insieme, anche un paio di giorni, meglio s’intendono. Sobbollire i tentacoli della seppia, tagliarli a pezzetti.

Rosolare la cipolla, poi il riso, la seppia a striscioline, portare a cottura con acqua bollente.

Rosolare pangrattato con un pizzico di cannella e scorza di limone in padella.

Mantecare il riso con la crema di sedano. Decorare con i tentacoli e finire con il pangrattato e qualche scorza di limone cruda.

P.S.: colgo l’occasione, non avendo account social, per ringraziare Alessandra Roggiero Riccardo Nelli per i commenti di apprezzamento che lascia sui risotti postati per il Clan e ricambiare con una sincera acquolina davanti alla sua mantecatura di sgombro di oggi. 


domenica 3 aprile 2022

Cosa non funziona nella copertura del conflitto russo-ucraino secondo i corrispondenti di guerra della grande stampa italiana

«Undici storici corrispondenti di grandi media lanciano l'allarme sui rischi della narrazione schierata e iper-semplicistica del conflitto. (...) 

«Se ci facciamo la domanda banale e brutale “chi ha ragione?”, la risposta è semplice: Putin è l’aggressore, l’Ucraina aggredita. Ma una volta data questa risposta inevitabile servirebbe discutere come si è arrivati fin qui: lì verrebbero fuori altre mille questioni molto meno nette, su cui occorrerebbe esercitare l’intelligenza» Toni Capuozzo, TG5.

«L'ex inviato del Corriere: "Questa non è più informazione, è propaganda". (...) L’ex TG5: "Sembra che sollevare dubbi significhi abbandonare gli ucraini al massacro, essere traditori, vigliacchi o disertori. Trattare così il tema vuol dire non conoscere cos'è la guerra"»

Dichiarazioni molto interessanti di alcuni firmatari della lettera, riportata integralmente in fondo dal sito Senza bavaglio, si leggono su un articolo del Fatto quotidiano che riproduco anch’esso (sottolineature e ingrandimenti miei). Essi si interrogano non solo sull’atteggiamento che deve tenere chi per professione e non per propaganda informa, ma sul futuro stesso della loro professione: 

«Osservando le televisioni e leggendo i giornali che parlano della guerra in Ucraina ci siamo resi conto che qualcosa non funziona, che qualcosa si sta muovendo piuttosto male”. Inizia così l’appello pubblico di undici storici inviati di guerra di grandi media nazionali (CorriereRaiAnsaTg5RepubblicaPanoramaSole 24 Ore), che lanciano l’allarme sui rischi di una narrazione schierata e iper-semplicistica del conflitto nel giornalismo italiano (qui il testo integrale sul quotidiano online Africa ExPress). “Noi la guerra l’abbiamo vista davvero e dal di dentro: siamo stati sotto le bombe, alcuni dei nostri colleghi e amici sono caduti”, esordiscono Massimo Alberizzi, Remigio Benni, Toni Capuozzo, Renzo Cianfanelli, Cristiano Laruffa, Alberto Negri, Giovanni Porzio, Amedeo Ricucci, Claudia Svampa, Vanna Vannuccini e Angela Virdò. “Proprio per questo – spiegano – non ci piace come oggi viene rappresentato il conflitto in Ucraina, il primo di vasta portata dell’era web avanzata. (...) “Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin e quindi, in qualche modo, di essere corresponsabile dei massacri in Ucraina. Ma non è così. 

Dobbiamo renderci conto che la guerra muove interessi inconfessabili che si evita di rivelare al grande pubblico. La propaganda ha una sola vittima: il giornalismo”.

L’opinione pubblica spinta verso la corsa al riarmo” 

Gli inviati, come ormai d’obbligo, premettono ciò che è persino superfluo: “Qui nessuno sostiene che Vladimir Putin sia un agnellino mansueto. Lui è quello che ha scatenato la guerra e invaso brutalmente l’Ucraina. Lui è quello che ha lanciato missili provocando dolore e morte. Certo. Ma dobbiamo chiederci: è l’unico responsabile? Noi siamo solidali con l’Ucraina e il suo popolo, ma ci domandino perché e come è nata questa guerra. Non possiamo liquidare frettolosamente le motivazioni con una supposta pazzia di Putin“. Mentre, notano, “manca nella maggior parte dei media (soprattutto nei più grandi e diffusi) un’analisi profonda su quello che sta succedendo e, soprattutto, sul perché è successo”. 

Quegli stessi media che “ci continuano a proporre storie struggenti di dolore e morte che colpiscono in profondità l’opinione pubblica e la preparano a una pericolosissima corsa al riarmo. 

Per quel che riguarda l’Italia, a un aumento delle spese militari fino a raggiungere il due per cento del Pil. Un investimento di tale portata in costi militari comporterà inevitabilmente una contrazione delle spese destinate al welfare della popolazione (e vabbé, che esista il deficit e non faccia male quando è governato dalla banca centrale, per chi ce l’ha, come si è visto in pandemia, tranne ai fanatici di Maastricht e della deflazione salariale, non gli entra in testa, passons). L’emergenza guerra – concludono – sembra ci abbia fatto accantonare i principi della tolleranza che dovrebbero informare le società liberaldemocratiche come le nostre”.

Alberizzi: “Non è più informazione, è propaganda” 

Parole di assoluto buonsenso, che tuttavia nel clima attuale rischiano fortemente di essere considerate estremiste. “Dato che la penso così, in giro mi danno dell’amico di Putin”, dice al fattoquotidiano.it Massimo Alberizzi, per oltre vent’anni corrispondente del Corriere dall’Africa. “Ma a me non frega nulla di Putin: sono preoccupato da giornalista, perché questa guerra sta distruggendo il giornalismo. Nel 1993 raccontai la battaglia del pastificio di Mogadiscio, in cui tre militari italiani in missione furono uccisi dalle milizie somale: il giorno dopo sono andato a parlare con quei miliziani e mi sono fatto spiegare perché, cosa volevano ottenere. E il Corriere ha pubblicato quell’intervista. Oggi sarebbe impossibile“. La narrazione del conflitto sui media italiani, sostiene si fonda su “informazioni a senso unico fornite da fonti considerate “autorevoli” a prescindere. L’esempio più lampante è l’attacco russo al teatro di Mariupol, in cui la narrazione non verificata di una carneficina ha colpito allo stomaco l’opinione pubblica e indirizzandola verso un sostegno acritico al riarmo. Questa non è più informazioneè propaganda. I fatti sono sommersi da un coro di opinioni e nemmeno chi si informa leggendo più quotidiani al giorno riesce a capirci qualcosa”.

Negri: “Fare spettacolo interessa di più che informare” 

 “Questa guerra è l’occasione per molti giovani giornalisti di farsi conoscere, e alcuni di loro producono materiali davvero straordinari“, premette invece Alberto Negri, trentennale corrispondente del Sole da Medio Oriente, Africa, Asia e Balcani. “Poi ci sono i commentatori seduti sul sofà, che sentenziano su tutto lo scibile umano e non aiutano a capire nulla, ma confondono solo le acque. Quelli mi fanno un po’ pena. D’altronde la maggior parte dei media è molto più interessata a fare spettacolo che a informare”. La vede così anche Toni Capuozzo, iconico volto del Tg5, già vicedirettore e inviato di guerra – tra l’altro – in Somalia, ex Jugoslavia e Afghanistan: “L’influenza della politica da talk show è stata nefasta”, dice al fattoquotidiano.it. “I talk seguono una logica binaria: o sì o no. Le zone grigie, i dubbi, le sfumature annoiano. Nel raccontare le guerre questa logica è deleteria

Se ci facciamo la domanda banale e brutale “chi ha ragione?”, la risposta è semplice: Putin è l’aggressore, l’Ucraina aggredita. Ma una volta data questa risposta inevitabile servirebbe discutere come si è arrivati fin qui: lì verrebbero fuori altre mille questioni molto meno nette, su cui occorrerebbe esercitare l’intelligenza”.


Capuozzo: “In guerra i dubbi sono preziosi”

“Sembra che sollevare dubbi significhi abbandonare gli ucraini al massacro, essere traditori, vigliacchi o disertori”, argomenta Capuozzo. “Invece è proprio in queste circostanze che i dubbi sono preziosi e l’unanimismo pericolosissimo. Credo che questo modo di trattare il tema derivi innanzitutto dalla non conoscenza di cos’è la guerra: la guerra schizza fango dappertutto e nessuno resta innocente, se non i bambini. E ogni guerra è in sè un crimine, come dimostrano la Bosnia, l’Iraq e l’Afghanistan, rassegne di crimini compiute da tutte le parti”. Certo, ci sono le esigenze mediatiche: “È ovvio che non si può fare un telegiornale soltanto con domande senza risposta. Però c’è un minimo sindacale di onestà dovuta agli spettatori: sapere che in guerra tutti fanno propaganda dalla propria parte, e metterlo in chiaro. In situazioni del genere è difficilissimo attenersi ai fatti, perché i fatti non sono quasi mai univoci. Così ad avere la meglio sono simpatie e interpretazioni ideologiche”. Una tendenza che annulla tutte le sfumature anche nel dibattito politico: “La mia sensazione è che una classe dirigente che sente di avere i mesi contati abbia colto l’occasione di scattare sull’attenti nell’ora fatale, tentando di nascondere la propria inadeguatezza. Sentire la parola “eroismo” in bocca a Draghi è straniante, non c’entra niente con il personaggio”, dice. “Siamo diventati tutti tifosi di una parte o dell’altra, mentre dovremmo essere solo tifosi della pace”».

Ovviamente tali osservazioni non piaceranno a coloro che « essendo studiati » e assidui frequentatori di media paralternativi solerti nel difendere gli interessi del commercio del gas statunitense ché è democratico e soprattutto lavato più verde, mirano ad accreditare le loro fonti come le sole attendibili della rete. Vabbè, non fosse che la reductio ad Hitlerum dovrebbe aver fatto il suo tempo, e che l’effetto di tali invocate reductiones nei passati conflitti, dall’Afghanistan alla Siria, ha lasciato sistematicamente dietro di sé armi in funzione, paesi in macerie, economie in frantumi (citarle oggidi’ va assai di moda, faccoltoeconsapevole) e genti disperate con una certa qual familiarità con le armi e gli esplosivi in giro pel pianeta. Ché una cosa è partire per scelta come vorrei io, altra è partire perché qualcuno ti ha devastato un luogo dove eri contento di vivere. 


 La lettera aperta dal sito: Senza bavaglio

«Osservando le televisioni e leggendo i giornali che parlano della guerra in Ucraina ci siamo resi conto che qualcosa non funziona, che qualcosa si sta muovendo piuttosto male.

Noi siamo o siamo stati corrispondenti di guerra nei Paesi più disparati, siamo stati sotto le bombe, alcuni dei nostri colleghi e amici sono caduti durante i conflitti, eravamo vicini a gente dilaniate dalle esplosioni, abbiamo raccolto i feriti e assistito alla distruzione di città e villaggi.

Abbiamo fotografato moltitudini in fuga, visto bambini straziati dalle mine antiuomo. Abbiamo recuperato foto di figli stipate nel portafogli di qualche soldato morto ammazzato. Qualcuno di noi è stato rapito, qualcun altro si è salvato a mala pena uscendo dalla sua auto qualche secondo prima che venisse disintegrata da una bomba.

Ecco, noi la guerra l’abbiamo vista davvero e dal di dentro.

Proprio per questo non ci piace come oggi viene rappresentato il conflitto in Ucraina, il primo di vasta portata dell’era web avanzata.

Siamo inondati di notizie, ma nella rappresentazione mediatica i belligeranti vengono divisi acriticamente in buoni e cattivi. Anzi buonissimi e cattivissimi. Ma non è così. Dobbiamo renderci conto che la guerra muove interessi inconfessabili che si evita di rivelare al grande pubblico.

Inondati di notizie, dicevamo, ma nessuno verifica queste notizie. I media hanno dato grande risalto alla strage nel teatro di Mariupol ma nessuno ha potuto accertare cosa sia realmente accaduto. Nei giorni successivi lo stesso sindaco della città ha dichiarato che era a conoscenza di una sola vittima. Altre fonti hanno parlato di due morti e di alcuni feriti. Ma la carneficina al teatro, data per certa dai media ha colpito l’opinione pubblica al cuore e allo stomaco.

La propaganda ha una sola vittima il giornalismo.

Chiariamo subito: qui nessuno sostiene che Vladimir Putin sia un agnellino mansueto. Lui è quello che ha scatenato la guerra e invaso brutalmente l’Ucraina. Lui è quello che ha lanciato missili provocando dolore e morte. Certo. Ma dobbiamo chiederci: ma è l’unico responsabile?

I media ci continuano a proporre storie struggenti di dolore e morte che colpiscono in profondità l’opinione pubblica e la preparano a un’inevitabile corsa verso una pericolosissima corsa al riarmo. Per quel che riguarda l’Italia, a un aumento delle spese militari fino a raggiungere il 2 per cento del PIL.

Un investimento di tale portata in costi militari comporterà inevitabilmente una contrazione delle spese destinate al welfare della popolazione.

L’emergenza guerra sembra ci abbia fatto accantonare i principi della tolleranza che dovrebbero informare le società liberaldemocratiche come le nostre. Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin e quindi, in qualche modo, di essere corresponsabile dei massacri in Ucraina.

Noi siamo solidali con l’Ucraina e il suo popolo, ma ci domandino perché e come è nata questa guerra. Non possiamo liquidare frettolosamente le motivazioni con una supposta pazzia di Putin.

Notiamo purtroppo che manca nella maggior parte dei media (soprattutto nei più grandi e diffusi) un’analisi profonda su quello che sta succedendo e, soprattutto, sul perché è successo.

Questo non perché si debba scagionare le Russia e il dittatore Vladimir Putin dalle loro responsabilità ma perché solo capendo e analizzando in profondità questa terribile guerra si può evitare che un conflitto di questo genere accada ancora in futuro. »

Massimo Alberizzi ex Corriere della Sera
Remigio Benni ex Ansa
Giampaolo Cadalanu – Repubblica
Tony Capuozzo ex TG 5
Renzo Cianfanelli ex Panorama
Cristano Laruffa Fotoreporter
Alberto Negri ex Sole 24ore
Giovanni Porzio ex Panorama
Amedeo Ricucci – RAI
Claudia Svampa ex Il Tempo
Vanna Vannuccini – Ex Repubblica
Angela Virdò ex Ansa

Il fatto che siano quasi tutti ex inviati in pensione la dice lunga su quanto e come la stampa sia oggi libera in Italia e quanto e come la precarietà abbia influito sulla libertà individuale dei giornalisti, un tempo categoria protetta e quindi potenzialmente più indipendente.


venerdì 1 aprile 2022

Il riso del pesce d’aprile e della paura (mia) per Il Clan del risotto del venerdì

Aggiornamento: la Creatrice sempre molto paziente con i miei epici post della venticinquesima ora (in realtà ventiduesima) mi chiede di precisare che riso abbia usato. Lì per lì facile rispondere un riso da risotto standard cosiddetto Carnaroli, come raccomandava la mia milanesissima prozia che però penso ne trovasse di migliore di quello comunemente usato oggi, ma la domanda apre più questioni di quanto non sembri.

Tecnicamente non so dire se un riso orientale in un piatto che arieggia quella cucina sia adatto a fare un risotto. Ammetto di non averci mai provato. Se fosse possibile con risultati decenti, ci sarebbe un altro punto da considerare. Al di là dell’aspetto tecnico che è sempre una sfida allettante, ce n’è uno filologico. Risottare un riso orientale con un condimento orientaleggiante a me sa di pastrocchio ‘meregano (che è una roba che mi fa dimenare come il diavolo nella pila dell’acqua santa, dicevano i miei nonni). Semplicemente perché è troppo finto: finto il riso, finto il condimento che si’ usa un mélange di spezie e erbe, che si’ fa stufare un pochino il condimento, ma di fatto non è una preparazione orientale. Quindi, usiamo pure il condimento, ma senza dimenticare che si tratta di assemblare degli ingredienti e non di riprodurre un piatto minimamente vero. 

Diciamo che la cosa cambierebbe aspetto se si potesse risottare davvero un riso profumato orientale, ma con un sugo che di orientale non ha nulla, cioè reinterpretando radicalmente l’ingrediente escogitando un abbinamento apposta per lui, adatto a esaltarlo nella una nuova e diversa tecnica di cottura. 

Comunque, la Creatrice ha avuto un bellissimo riconoscimento della sua bravura nell’animare il Clan, incuriosendo i ristoratori della fiera Pitti alla Fortezza da Basso (con un orripilante nome anglofono che mai riporterò) sul gioco del risotto del venerdì.


Manca un solo venerdì all’esame: tra due venerdì sarò già stata probabilmente eliminata dal concorso :-/ )-:

L’esame è sterminato, sono tutte materie che non ho mai studiato nella mia formazione e su cui è difficile costruire una bibliografia attendibile. Inoltre le preselezioni sono sempre un tiro nel mucchio e andrebbero proprio abolite. Comunque devo andare avanti e la posta in gioco è molto alta.

Largo agli scongiuri.

Appena arrivata a casa dopo essere stata cacciata dall’ultima biblioteca aperta in città fino a lunedì, dove il nervosismo per essere indietro come i limoni mi ha fatto buttare via un bel po’ di tempo invano, mi prendo un po’ di svago per preparare il riso del pesce d’aprile, nel senso letterale del termine. Il pesce è di stagione ed economico, come mio solito.

L’idea è rubata alla Creatrice, nel doppio senso, della preparazione e dello scherzo. Lei usa la fregola al posto del riso, io risotto un riso originariamente previsto per un piatto orientaleggiante. 


Riso ai moscardini bianchi d’aprile e Colombo


Coriandolo 

Semi di finocchi

Anice stellato

Olio EVO

2 pugni di riso 

Zucchina

Carota

Cipolla rossa

Cavolfiore

Sedano

Porro

Cipolla rossa

Moscardini bianchi

Basilico

Mettere a macerare qualche foglia di basilico in olio, anche qualche giorno prima.

Lessare i moscardini nella loro acqua con semi di coriandolo pestati in un mortaio.

Soffriggere in olio altri semi di finocchio e coriandolo, anice, unire la cipolla rossa, poi via via la zucchina a rondelle, poi il cavolfiore in minuscole cimette, il porro a tocchetti, le carote a rondelle, il sedano a tocchetti e fare rosolare. Unire infine il riso e subito prima di unire il brodo di moscardini, anche i moscardini a pezzetti, infine un pizzico di colombo.  

Cotto, mantecare con olio al basilico, foglioline di basilico. 


Il colombo è un mélange di spezie comprato nella mia diletta Francia in una fiera dei prodotti locali a Vincennes, viene assemblato da una signora che coltiva e lavora varie spezie nel sud della Francia. Ci sono coriandolo, circula, carvi, finocchio e alloro.



Speriamo che porti fortuna OÔÔÔ