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Toulouse en érasmienne

martedì 12 aprile 2022

Non so

 In queste sveglie mattutine e incongrue alla vigilia dell’esame rifletto.

Avrei potuto studiare di più: si certamente e non solo perché si può sempre studiare di più. Neanche perché mi sia data alla pazza gioia o ai divertimenti - e quali, poi? E con che mezzi? In questo frattempo invece di stare sui libri. 

Avrei potuto studiare meglio, perché prendersi una laurea breve in tre mesi non è esattamente semplice e il concorso di fatto chiede più o meno questo. Mi è mancato, benché l’abbia cercato, uno sguardo da interno sul bando e su come indirizzare la preparazione, con quali strumenti, su quali aspetti delle materie, e quando ho creduto di averli individuati era tardi.  Non sarebbe grave se un concorso così non fosse un po’ l’ultima chance, se non fossero così rari (regole UE e riduzione della spesa corrente oblige, perché quello è non dimentichiamo) da non ritornare più, specialmente a un’età che non è più la prima.

Cosa mi ha impedito di studiare di più? Un insieme di fattori, direi sottesi da una grande rabbia per la condizione di frustrazione che vivo quotidianamente sul lavoro a causa della impotenza in cui sono costretta a svolgerlo, mentre vedo sin troppo bene cosa ci sarebbe da fare. Per troppo tempo sono stata incapace di definirla. È un viluppo che mi avvolge appena mi avvicino alla scrivania, una smania di allontanarmi in qualsiasi modo da lì, di mettere qualche cosa fra me e quella che vedo come una situazione di oppressione insensata, di spreco insensato, di follia alla fin fine. Almeno nell’ufficio entrasse un raggio di sole, macché: non ne ho né lì né in casa - sarebbe costato ventimila euro di più, avere il sole in casa, e quei ventimila non c’erano. Almeno avessi una stanza mia, uno spazio rinchiuso e in qualche modo delimitato dove mantenere un’integrità, respirare, non sentirsi dispersa sotto gli occhi del primo che passa tutto il giorno, tutti i giorni. Alle volte vado sul terrazzo condominiale per studiare, ma non sempre la temperatura lo permette. 

La rabbia mi ha soffocato lentamente, la rabbia inespressa e la totale mancanza di confronto, perché di fatto lavoro da sola. Alla fine mi hanno fatto perdere coscienza sempre più di chi sono e di cosa posso fare, ma pure rivendicare. Malgrado le rare conferme esterne siano sempre state positive, malgrado le mie previsioni siano azzeccate al 90%, pur in uno stato di sostanziale mancanza di informazioni, solo conoscendo il mestiere e il contesto generale. Mi hanno tenuto svegli solo istinti di opposizione per non farmi del tutto schiacciare: ma vivere in questo modo proietta in uno stato di preda che si rintana e esaurisce le sue energie nel nascondersi, nel mettere una barriera fra sé e una situazione troppo deprivante per poterla sostenere tutto il giorno tutti i giorni. Alla faccia di chi ha la sfacciataggine di dire che « il dipendente quando esce dal lavoro non ci pensa più » il lavoro o meglio quello che mia madre, con tutta la sua malattia ha efficacemente definito come « il non lavoro » ti invade pure quando dovresti « recuperare ».

Da lì probabilmente la grande stanchezza, la pesantezza che prendono il sopravvento sempre più spesso.

Perché per dire che, non solo la mia situazione quotidiana, ma quanto sta accadendo da ottobre in poi non fossero mie fisime capricciose e viziate, per crederci davvero, ho avuto bisogno che un’altra persona ci mettesse sopra le parole: « C’est profondément injuste. » Perché io non c’ero arrivata, a dirle che dico? A metterle insieme.  

Mi continuo a mettere non tanto nello stato di vittima ma in quello della bambina di otto anni che ha chiesto qualcosa di eccessivo, mettendosi perciò nella parte di un torto cosmico incomprensibile, di cui non le sono mai state date ragioni condivise né cittadinanza alle sue, in un mondo che aveva perso senso. Penso che questo mi abbia a lungo impedito di sviluppare una parte di me, quella che è cosciente dei suoi diritti a non apprezzare non tanto l’ordinamento del mondo, su quello anzi la critica è sempre stata legittima, ma proprio certe cose che le sono imposte, senza sentirsi in colpa. Quindi quando si tratta di sé stessa, rimane sempre senza le parole per dire di no e le forze per tradurle in atti. Al di là del fatto che allora una sorta di affidamento condiviso, ma con i nonni, chi ci avrebbe pensato all’epoca all’interesse del minore così, sarebbe stata l’idea più lungimirante, mentre mia madre mi vedeva come una sua proprietà non dotata di desideri legittimi, mi è rimasta l’incapacità di vedermi da fuori e di poter dire un « io » staccato dal dovere di non differenziare i miei desideri e la mia persona da lei, che mi chiedeva di non partire, di non volerlo fare, di non voler cercare un altrove che mi era più consono. Questo mi ha invischiato in una lotta devastante con me stessa, in cui le spinte a esistere e a fare e a creare si son sempre urtate in un risucchio invischiante alla passività che assorbiva ogni forza nel tentare inconsciamente di sciogliere un conflitto interiorizzato non risolto. Che mentre mi paralizzava, immobilizzandomi nelle situazioni « perché ci deve essere una soluzione », come allora fui paralizzata dalla sua furia dolore e dal suo ricatto emotivo, perché della sua maledetta casa dove ero sempre sola nulla m’importava io rivolevo la grande famiglia della casa dei nonni, mi suscitava una rabbia profonda che non si poteva esprimere e quindi non poteva esser superata. Questo mi ha bloccato tutta la vita e probabilmente riemerge ogni volta che devo affrontare una situazione frustrante, paralizzandomi in un’ altalena di sofferenza, spinta di fuga (ma non si può fuggire la madre adorata, quella che fin lì ti ha sempre ascoltato in modo leale e ora ti impone per anni cose che ti fanno male, addirittura orripilanti e profondamente ingiuste, fino a subire Mario, una bambina di otto anni non può senza spezzarsi) e incapacità di agire, perché c’è una rabbia non metabolizzata in quanto non espressa che invece di darmi energia per sottrarmi a una situazione infernale me ne sottrae per avvolgermi in sé stessa, ripiombandomi in un conflitto e in una incertezza inespressi, ma  devastante e totalizzante inconsciamente, perché all’epoca non ha potuto essere lasciata andare e esprimersi quando era il momento. Non ha potuto essere riconosciuta e io stessa ho finito con il misconoscerla e con il non sapere più che farne. Soprattutto questo. Ma finché non riuscirà a uscire e evaporare come il fumo malvagio della lamapda mi annerirà ovunque andrà.

Soprattutto mi ha lasciato l’incapacità di definire le cose con il loro nome: una situazione ingiusta è ingiusta, punto e come tale può effettivamente essere riconosciuta.

Poi ci si mettono anche le circostanze esterne ovviamente. In genere ai concorsi arrivo in graduatoria ai primi posti, e parlo di concorsi con centinaia, migliaia di persone, anche se non difficili come questo. Ma non ho mai, dico mai, passato una sola preselezione a quiz. Stavolta non farà eccezione.   

Quindi, da venerdì che fare? Mettere da parte quel che ho comunque imparato in questa preparazione, acquisire possibilmente un titolo nella materia perché servirà, ricominciare a guardare tutti i concorsi di livello superiore... ah già: quali concorsi? Perché di quel livello non ne escono praticamente più. Se ci saranno gli scatti quest’inverno prenderseli, tentare di avere un trasferimento per poter continuare a respirare, e aspettare. Sperare di arrivare in una stanza in cui entri il sole, già servirebbe. Ma non posso aspettare troppo, entro due-tre anni questa cosa dev’essere risolta. 

E tutto sommato non m’importa neppure cambiare lavoro: questo l’ho scelto perché mi ci sono trovata, ma se devo andare a fare il puro passacarte, va bene pure quello.

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