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sabato 19 febbraio 2022

Salvare capra e cavoli con il miele del compleanno per Il clan del risotto del venerdì (Una tantum)

 La capra si è salvata perché sono riuscita a pubblicare un risotto nel giorno giusto.

I cavoli proviamo a traghettarli adesso. Come vuole il proverbio, è una soluzione macchinosa perché non siamo più di venerdì. Ma siccome già altri membri hanno pubblicato in mezzo alla settimana, forse chissà anche io potrò guidare la mia barchetta di foglie di cavolo verso l’altra sponda con tutto il suo carico.

Questo riso prevede una sola verdura che è il cavoletto di Bruxelles. Di solito non amo affastellare ingredienti e cucino sempre per sottrazione, quella di ieri è stata un’eccezione.

Riso capra e cavoli

2 pugni di riso

6-7 cavoletti di Bruxelles piccoli o più se piace

1 pezzetto di cipolla

Brodo di verdura classico

1 cucchiaio scarso di robiola di capra

Miele, 1/2 cucchiaino

1 spruzzata di vino bianco

1 nocciola di burro

Mettere nel congelatore il miele.

Tagliare i cavoletti a metà, sciacquarli e lessarli in acqua salata. Dimezzarli è importante perché fa perdere quasi completamente l’amarognolo e l’odore intenso ai cavoletti.

Crogiolare la cipolla tritata nel burro, unire il riso, poi i cavoletti ben scolati. Spruzzare con il vino, portare a cottura con il brodo ben caldo.

Mantecare con il formaggio di capra. E qui si apre la questione. Il formaggio avrebbe dovuto essere la bûche de chèvre, comunissimo in Francia ma che a Roma non si trova facilmente. Il solo prodotto caprino morbido che abbia trovato era una robiola pescata in un negozio bio. La robiola ha però sempre una punta di acido che non mi convinceva in abbinamento al possibile amaro dei cavoletti. Come salvare la capra? Ho ripensato al trucco che avevo letto nel libro su cui ho imparato a cucinare a proposito della salsa di pomodoro: aggiungere un cucchiaino di zucchero. Già attratta all’idea della mantecatura con il miele ghiacciato ho iniziato a mangiucchiare i tre mieli che avevo in casa con i cavoletti, per scegliere poi quello più ceroso e bianco, quindi più neutro (il miele di castagno, il mio preferito, si è impetuosamente ribellato).  

Ovviamente alla fine non si sente molto, dato che come ingrediente serviva solo a temperare l’acidità di un altro. Giurerei che però una sfumatura profumata la dà.



Questo vasetto di miele mi è caro perché mi è stato regalato in un negozio di mieli a rue Daguerre il giorno del mio compleanno, il 31 dicembre scorso, in un momento per me difficile, non ancora superato, uno di quei momenti in cui ogni gesto di gentilezza scalda il cuore e può riportare il sorriso. Il negozio conserva il miele in « tini » da cui si attinge alla spina. Era il mio primo acquisto e la commessa mi ha spiegato che avevo diritto a un regalino, che era questo.



E ora bando alle ciance e filiamo a studiare. Il concorso è il 14 aprile. Una chance l’avrei se non ci fossero i quiz di logica. Io sono evidentemente la persona meno logica del pianeta, perché di quei quiz utili solo a sparare nel mucchio, dato che non hanno la minima attinenza con il mio lavoro, non ne ho mai passato mezzo. 
Vorrei prendere un’aspettativa da qui ad allora per prepararmi senza pensieri né doveri, ma ho bisogno prima di un paio di migliaia di euro per poter vivere fino ad allora e iscrivermi a un corso di preparazione.
Non li ho. E so, anche se non posso entrare in dettagli qui, che dal punto di vista concorsi non avrò un’altra occasione. Un giorno vidi un documentario su un villaggio himalayano. Si era rotto il tubo che portava l’acqua dalla sorgente al villaggio. Una cosa da niente, ma in quel luogo non c’era nulla per poterlo riparare. Questo guasto ridicolo aveva semidistrutto la vita del villaggio stesso e la sua produzione agricola, perché i tre quarti del tempo se ne andavano in viaggi per prendere l’acqua e portarla a casa, ma erano tutti così poveri da non poter trovare i mezzi per ripararlo. La sola prospettiva che avessero era continuare all’infinito.
Ecco, mi sento così.





 


venerdì 18 febbraio 2022

« Se il Kuwait avesse prodotto broccoli » per Il clan del risotto del venerdì al petrolio carsico

Il presidente degli Stati Uniti George Bush senior detestava i broccoli al punto da non volerli nemmeno nelle cucine della Casa bianca. Infuriati, i produttori di broccoli partirono dai loro campi per andare a scaricare carrette di ortaggi davanti alla dimora presidenziale. Qualche tempo dopo la considerazione sui broccoli fu il commento del New York Times alla notizia della decisione di Bush di dichiarare anzi non dichiarare ma fare la prima guerra del Golfo. 

La frase restò proverbiale per ricordare il vero movente di quella guerra (1990-1991): il controllo dei giacimenti petroliferi iracheni. 

Contrariamente a Bush io amo molto i broccoli. Specialmente quello romano, che non è probabilmente quello che gli agricoltori gli scaricarono davanti alla porta. Quindi, quando Cristina ha dato il tema del risotto proverbiale al cavolo ho provato un riso con il broccolo e per restare in tema, altre verdure più o meno USA. Sperando che a mo’ di aglio, esorcizzino altre guerre.

Risotto romano al broccolo e altre verdure 

Cimette di broccolo romano 

Due cucchiai di borlotti lessi

Dadini di zucca

Un pezzetto di porro più qualche foglia esterna

1 carota

1 pezzo di sedano rapa

Chiodi di garofano

Timo

Salvia

Olio

Vino bianco

1 cucchiaio di pecorino romano grattugiato

Qualche goccia di nocino

2 pugni di riso

Preparare il bordo con le foglie di porro, la carota, i chiodi e il timo. 

Cuocere al dente le cimette in acqua moderatamente salata. Scolate, passarle in una ciotola di acqua e ghiaccio per conservar il più possibile il colore verde brillante. Cuocere il sedano rapa a tocchetti in acqua salata. Far sudare la salvia a pezzetti in olio EVO, io ho stappato per l’occasione un olio di Vicovaro comprato al mercatino dei piccoli produttori domenica scorsa. La mia nonna prendeva l’olio a Vicovaro e insomma per me è stato come rivivere un ricordo. Questo qui è decisamente meno denso di quello di allora, appena piccantino e con un sospetto di amarognolo, ma insomma con un suo carattere, anche se presentare un olio a una toscana è sempre un azzardo. Di certo il migliore olio della mia vita l’ho assaggiato in una trattoria a Firenze e sembrava una bibita verde come una pozione degli Ent, ma purtroppo il bosco di Fangorn è diventato irraggiungibile. E noi dobbiamo mangiare lo stesso.

Frullare il sedano e unire l’olio aromatizzato e la salvia.

Far sudare il porro nell’olio con una foglia di salvia, unire le cimette, poi i fagioli, il riso e la zucca.  Spruzzare con il vino, portare a cottura con il brodo di verdure.

Mantecare con il sedano rapa frullato all’olio e salvia, unire una bella cucchiaiata di pecorino.

Versare nel piatto, decorare con una fogliolina di salvia, qualche piccola cimetta e dadini freschi. 



E qui, un risotto all’ortolana un po’ arrabbiata si trasforma in una sconfitta delle velleità dell’aspirante moralista cuciniera inesperta.

Avrei voluto mettere delle gocce nere decorative sul risotto, per evocare fino in fondo ciò che faceva da pendant ai broccoli, cioè il petrolio. L’idea era di utilizzare qualche goccia di un nocino alla trentina fabbricato seguendo questa ricetta l’estate scorsa. Cos’altro trovare di nero in natura? Coloranti non ne uso e non ne ho, il nero di seppia avrebbe dato un gusto troppo marcato e pervadente. Lo scopo era puramente rappresentativo-estetico. Non avevo assolutamente calcolato che il mio nocino è liquidissimo anche perché, come sempre faccio nelle ricette, avevo drasticamente ridotto la quantità di zucchero prevista. Per cui c’è stato un inabissamento della pretesa chiazza di petrolio meglio dell’acqua in territorio carsico. E fin li, dopotutto il petrolio sta sottoterra. La conseguenza imbarazzante è l’impossibilità di fotografarlo, se non in una chiazza impresentabile a fianco del riso. 



Con il senno di poi, avrei dovuto fare una riduzione mentre cuoceva il riso e usare quella. Pazienza, ormai non c’è modo di rimediare in tempo. Del resto il tema imponeva di fare la più grande cavolata possibile...

Dichiaro subito qualche spunto. Malgrado io sia assolutamente contraria alla idea di sostituire il più possibile i latticini in tavola, soprattutto con surrogati industriali come la soia o il riso, l’idea della Creatrice di usare il sedano rapa come ingrediente cremoso mi ha letteralmente conquistato. Non vedevo l’ora di metterla in pratica. Un riso con verdure varie mi è sembrata la buona occasione. Sempre al magnifico risotto con verza della Creatrice devo l’idea della salvia con il cavolo (e i fagioli). Il brodo di porro e carota l’ho sbirciato in rete e mi ha fatto comodo per godere qualche foglia coriacea avanzata.

Avevo un’altra idea di risotto al cavolo che non ho fatto in tempo a realizzare. La pubblicherò comunque domani ché l’occasione quando ricapita? Sarà con i cavolini di Bruxelles.

Ma l ‘idea che devo assolutamente realizzare al più presto è la mantecatura al miele ghiacciato!!!



lunedì 14 febbraio 2022

Punire il no dà - Secondo episodio

 Or dunque, nel magnifico luogo che descrivevo nello scorso post si tiene una riunione di lavoro. Partecipano dodici persone in una stanza in cui, siccome bisogna ridurre la spesa corrente e il debbbitopubblicobruttocattivo, la metà delle finestre ha le maniglie rotte. Per fortuna abbiamo tutti la FFP2 incollata al naso.

Il giorno dopo arriva la segnalazione di un partecipante positivo quanto onesto.

Per obbligo siamo tutti vaccinati, bivaccinati, trivaccinati da mesi. Contro un ceppo virale che non esiste più, ma son dettagli, ovviamente.

Come avremmo potuto evitare di diventare casi contatto? Semplice, facendo un test PCR a tutti i partecipanti alla riunione ventiquattro ore prima.

Ma quello mica va bene. Se vuoi il tampone, lo paghi, untore fedifrago. Qui noi siamo persone serie: dobbiamo punire il no dà!

Quindi io adesso per precauzione non posso vedere la mia mamma, né andare al concerto come previsto.

Siamo seri, che vuoi che sia un piccolo sacrificio? Qui si tratta di punire il no dà! 

sabato 12 febbraio 2022

Riassunto: le ragioni di fuga

 E insomma proviamo a tirare le somme di questa mia disperata furia nei confronti del luogo di lavoro.

Cinque anni e mezzo fa, concorso esterno per la qualifica superiore dopo sette anni di immobilismo, quelli dell’austerità espansiva. La normativa renziana impedisce di fare le progressioni interne come è sempre stato. Il concorso esterno ha vincoli stringenti di ammissione, i concorrenti sono oltre un centinaio, molti nomi che conosco cadono alla prima prova (ma io sostengo che in un concorso la fortuna ha un peso enorme e questo non è necessariamente un segno della loro incapacità). Io resisto e come me altri interni. Non vinco, come previsto, però entro in graduatoria (altrettanto previsto) ai primi posti, ed è un felice risultato, dopo i vincitori e gli esterni che per legge ci devono essere ogni tot interni.

Tre anni fa, veniamo a saper che la graduatoria non verrà fatta scorrere « È destinata a non scorrere mai » sono le parole dell’amministrazione. Sindacati: chi non si mette in mezzo, chi è complice e collaboratore dell’amministrazione, la quale ha deciso di tagliare i posti di livello alto diminuendo il numero delle strutture e quindi demolendo il servizio e rendendolo più difficile e scomodo di accesso per l’utenza, la quale ne avrebbe al contrario un grande bisogno. (Bisogna ridurre il debito pubblico: l’ha detto la UE, quindi se l’ha detto lei, è la cosa giusta da fare e che questo lo paghino i cittadini più deboli che sono quelli che più usano i servizi pubblici facciamo finta di non saperlo mentre cianciamo di inclusione.) Il tutto mentre ironia della sorte, il da tutti virtuosamente riprovato governo Conte I proroga tutte le graduatorie fino al 2021.

Altri tentativi di portare dalla nostra parte membri dell’amministrazione cadono nel vuoto perché i miei colleghi, a parole sempre furiosi, vengono colti da attacchi di immobilismo, rivelandosi per parolai, e io, dopo avere smosso cielo e terra per trovare i contatti, non oso proseguire da sola come se parlassi a nome di tutti e mi fermo anche io. Errore.

Due anni fa l’amministrazione decide un ulteriore piano di tagli delle strutture alla Melfi, si quel genere di cose per cui se ti ammali più della media paghi pegno, con il risultato che in capo a pochi anni nessuno si può più ammalare. Poi arriva la pandemia, tutto si blocca, io mi ammalo, probabilmente non di Covid ma all’epoca chi poteva testarsi, e scopro che in confinamento sto molto meglio che in ufficio. Dimagrisco, mi rassereno, divento un figurino. Riposo, sapendo di non dover rendere conto a nessuno se non sto in ufficio all’ora spaccata (ci si era messo anche un mezzo sadico mobbizzatore che sfruttava ogni appiglio formale per tormentare il personale facendolo vivere nell’ansia e nella paura senza motivo). Ringiovanita e piena di energie sto proprio bene con me stessa, tristezza per quel che accade fuori a parte. Mi sento liberata.

Quando ritorno al lavoro in presenza il sadico non c’è più, ma mi rendo conto che questa pausa mi ha permesso di comprendere la profonda e irrimediabile estraneità che le condizioni di lavoro hanno scavato fra me e il luogo dove devo operare. La struttura in sé sarebbe stimolante e interessante, anche se il lavoro che faccio non è quello che avrei voluto nella vita. Ma un sistema perverso di scaricabarile, inadeguatezze umane e tagli di fondi la hanno ridotta da decenni a una fatiscenza di cui vedo con chiarezza perché conosco il mio mestiere come sarebbe perfettamente risolvibile. Non mi si danno i mezzi, come non posso avere neppure il materiale di facile consumo che vengo invitata a acquistare da me. Non se ne parla neppure, perché non si paga per lavorare, punto, altrimenti non è lavoro: è mafia. (Sì è proprio questo il taglio della spesa pubblica perché debbbitopubblicobruuuttooo!! L’ha detto Cottarelli che è tanto una brava personaaa, così disinteressata e Ueuropea, poi.)

Ne discende una sensazione deprimente e oppressiva di impotenza e di inadeguatezza, anche per senso del dovere verso ciò che so andrebbe fatto, di sensi di colpa per l’impossibilità di compierlo e per amore verso una struttura molto bella che vedo lasciar degradare verso la distruzione non solo nell’indifferenza ma con la complicità di tutti.

Nel frattempo la normativa cambia e si riaprono le progressioni interne. Chiediamo quindi che la nostra idoneità venga riconosciuta nel calcolo dei titoli, come prevede del resto la legge. Mentre i nostri colleghi più fortunati che il passaggio l’han già avuto si dimenticano bellamente di noi al punto da negare la nostra esistenza, il sindacato, che pure aveva per primo ventilato questa possibilità di ripescare gli idonei in graduatoria, si rimangia tutto in seguito a una trattativa interna che porta alla smentita di quanto detto da parte di un ducetto locale di cui ci è ormai impossibile dimenticare il nome. La nostra idoneità non vale nulla al confronto con altri tipi di titoli di cui sono abbondantemente provvisti i colleghi che in quella graduatoria si collocavano ben dopo di noi, o che addirittura quel concorso non lo avevano neppure tentato o non lo avevano passato. La sola persona che si fosse realmente presa a cuore la situazione della mia struttura muore improvvisamente lasciandomi una volta di più totalmente sola. 

Alla fine dell’anno va in pensione il mio capo, che da tempo ripeteva la sua intenzione di lasciarmi il posto, il che non sarebbe stato del tutto peregrino visti i miei titoli e la mia esperienza. Ma questa persona aveva il torto di appoggiarsi sempre su un’altra che, per problemi caratteriali forti suoi, non teneva minimamente alla sopravvivenza della struttura, anzi, cosa che peraltro il mio capo sapeva da me da anni, e questa seconda persona si rifiuta di fare alcunché per sostenere il mio subentro al posto del capo. Io scompaio così letteralmente dalla vista di chi decide, e questo fa molto comodo alla persona in questione che può mettere sempre più in luce una altra persona ancora, beniamina che si è portata appresso, ma che si trova in una situazione di fragilità tale che non le permette di affrontare il lavoro nella maniera necessaria, pur godendo di tutte le protezioni, gli aiuti e i mezzi che non ho mai avuto io. Molto più controllabile.

Il mio capo mi esorta nondimeno a scrivere ai livelli gerarchici più alti, per segnalare la mia esistenza dando nel contempo la disponibilità a compiti che non avrei voglia di fare e che forse non spetterebbe neppure a me fare: anche se concordiamo insieme il testo secondo le sue idee, viene meno alla promessa di sostenermi con un suo successivo intervento e se ne lava totalmente le mani dopo avermi mandato allo sbaraglio con i livelli dirigenziali. Meschina vendetta forse per il mio attivismo nel cercare sostegno per la struttura presso referenti interni.

Non appena l’altro sadico cui l’amato Draghi ha ridato in pasto i pubblici dipendenti privatizzati ne ha ventilato la possibilità, l’alta dirigenza ha deciso che i dipendenti nel mio ruolo non hanno in nessun caso diritto al lavoro agile, neppure in piena ondata pandemica, altra cosa che, obbligandomi a entrare in un luogo che ormai detesto per cinque giorni a settimana, aumenta il mio disgusto profondo per tutto ciò che gli si colleghi.

Infine viene nominato il nuovo capo, che non sono ovviamente io, il che non deve nemmeno dispiacere ai titolati extraconcorsuali di cui parlavo prima, specialmente in vista di progressioni e di cui non si può escludere un ruolo attivo in tal senso. Non ha i miei titoli, è più giovane di me, quindi la sua nomina non mi lascia speranza per il futuro, vive una situazione complicata che gli impedirà di prendere di petto le mille problematiche della struttura, condannata a continuare a degradarsi per una nauseabonda serie di circostanze dovute sostanzialmente all’ignavia, alla sfiducia nelle persone che ricoprono il mio ruolo e al disperato e unico desiderio dei referenti di livello medio-alto di non toccare gli equilibri, anche quando non danno alcun vantaggio se non quello di paralizzare una struttura per permettere di sopire le ansie di persone fondamentalmente disturbate ma di tanto buona famiglia.

Io, intanto ingrasso. Decisamente troppo. Decisamente non sto bene. 

Mi sono state chiuse tutte le strade e le prospettive davanti. Ce n’è abbastanza per volermene andare con tutta l’anima?




venerdì 11 febbraio 2022

L’Italia privatizzata e digitale

 Il Poligrafico, come mille altre cose, è stato sciaguratamente privatizzato nel corso degli anni, malgrado l’opposizione dei suoi lavoratori, in omaggio alla mirifica economia di mercato che avrebbe dovuto risolvere tutte le patrie storture con la vendita dei « gioielli di famiglia ». Ah, l’amato Prodi!

Pare che gli efficientissimi, per le loro tasche, privati, ignorino che si possono programmare gli invii online alla mezzanotte del giorno per cui sono previsti.

Da ieri serpeggia un’ansia sotterranea nelle mie vene. Stanotte mi sveglio alle quattro meno un quarto: ci sarà già? Apro, controllo, macché. Stamattina alle otto meno un quarto, apro, controllo: macché. Dall’ansia mi sbaglio: vedo un 11 che scambio per la data, invece è un numero d’ordine, la scorro tutta, ovviamente non c’è.

Scommettiamo che prima delle dieci non se ne parla?

Ah, le privatizzazioni non sono un risparmio né per le generazioni presenti né, questa poi, per le future. Sono un introito in meno per lo stato, altrimenti nessuno se li sarebbe comprati, aziende e enti. E qualsiasi cosa sia volta dal servizio al profitto diventa una fatica in più che deve subire il cittadino, e per il cittadino più povero ancora più dura, non un vantaggio. Bella la retorica degli anni ‘90. Bella la ciancia dell’inclusione degli anni Venti.

venerdì 4 febbraio 2022

Uno dei cinquecento zilioni di motivi per cui detesto 1) Roma 2) l’Italia proprio

 vorrei andare con la mamma a un concerto un po’ piacione, si, tanto per uscire dal solito pianoforte e genere sinfonico tardo ottocentesco che ti propinano ovunque.

Il sito avrebbe bisogno di qualche lezione di logica: nella prima pagina informano che la vendita online è sospesa dal 1 febbraio e due righe sotto che è ripresa dal 10 gennaio, invitando a leggere le nuove istruzioni. Le nuove istruzioni ribadiscono: « Dal 1 febbraio 2022 la vendita dei biglietti online è sospesa.» 

Su un’ennesima pagina del sito viene precisato che se si ha diritto a una riduzione bisogna chiamare un numero di telefono e pagare con la carta di credito. Mi risponde il solito ragazzino romano, scocciato, spocchioso e presuntuoso che mi chiede perché non ho acquistato online. « Perché sul sito c’è scritto che non si può. » Non ci crede, gli leggo le frasi e la testuale risposta è: « Ci può stare. » 

Cioè: oltre alla cialtronaggine di non aggiornare un sito su un aspetto secondario come la vendita dei biglietti, pure la sfrontatezza di non ammetterlo; e per soprammercato l’arroganza di attaccare chi lo mette di fronte all’innegabile dato di fatto facendolo passare per cretino. Scusarsi, poi, deve essere come attraversare le pene dell’inferno.

Ora, in Francia possono essere sprezzanti, certo, e anche molto testardi, fino alla rigidità più eccessiva se hanno l’impressione di trovarsi davanti qualcuno che sta facendo il furbo. Ma se si trovano messi davanti a un errore fattuale, si posternano con il capo cosparso di cenere e mai penserebbero di rispondere in questa maniera.

Io questa cialtronaggine totale spacciata per arte di vivere e superare le difficoltà con un po’ di intelligente astuzia non la sopporto più. Mi ha avvelenato la vita per decenni, perché costruisce una realtà faticosa, dove l’unico livello di interazione ammesso riconosciuto e apprezzato è quello dello scambio di bastonate per issarsi un po’ più su di chi sta nella stessa identica palude.

Mi dà la nausea.

P.S.: capace che il sito adesso lo correggano, per cui magari quegli errori il prossimo non se li ritroverà più. Ma che fatica, mio dio, che fatica.

martedì 1 febbraio 2022

Il pacchetto

 Oggi regressione all’adolescenza. Scappata a rifugiarmi a casa della mamma per trovare un luogo tranquillo dove studiare qualche ora.

Conforto senza lusso di una casa ben rifinita, con tutte le stanze al loro posto, ordinata, ben pulita e molto calda. Un tempo le case bohémien mi piacevano, adesso ne risento la stanchezza, la crudezza.

 AL momento di andare via trovo un bellissimo scatolino rosso sul mobile accanto alla porta, con un fiocchettino in tinta. Dentro c’era questo: 


Ti piace, mi chiede ansiosa. Penso che sarà uno degli ultimi regali che è in grado di farmi, e che è un quadrifoglio come le prove che mi aspettano al concorso per cui son indietrissimo, riuscendo raramente a trovare la calma mentale per dedicarmici. Penso che sono felice che si sia ricordata del mio compleanno e del non avermi fatto regali a Natale perché non c’ero. 
Acchiappo la scatoletta rossa e passo il regalo al braccio come porte-bonheur.
L’uscita delle date è di un giorno più vicina. Non ci ho molte speranze, dovrebbe arrivare un rinvio almeno a fine marzo perché possa mettere insieme una preparazione decente.
Questo oggetto resterà un ricordo a scaldare il cuore il giorno in cui lei sarà risucchiata dalle ombre che le devastano il cervello ora dopo ora.