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giovedì 28 agosto 2014

Il raptus non esiste

"Il raptus non esiste. Neanche la banalità del male. Piuttosto, ci sono persone che arrivano a un punto di rottura con la vita, non riescono più a sopportare la fatica delle relazioni e della quotidianità. Finché, giorno dopo giorno, si trovano in una squallida normalità in cui tutto è lecito, perfino ammazzare qualcuno.
Alla base c’è uno stato depressivo trascurato?
La depressione è una parola contenitore, abusata. Ogni storia è un caso a sé stante. L’uomo aveva la passione delle armi, voleva arruolarsi nell’esercito di Israele ed era pieno di tatuaggi. Sintomi di un pensiero esasperato. Stava elaborando una sua visione del mondo frutto di un malessere. Se però lo fa un jihadista, lo definiamo terrorista. Se lo fa il norvegese che stermina una scuola, è uno schizofrenico. Bisogna stare attenti alle etichette facili. Dietro a gesti del genere, c’è la sofferenza, che si alimenta giorno per giorno finché diventa normale fare del male a sè o agli altri."
Inutile negarlo: per quanto la cronaca nera non sia proprio la mia passione, l'assassinio della colf Oksana Martensciuk et la successiva uccisione dell'assassino Federico Leonelli da parte della polizia, non mi escono di mente. I punti poco chiari sembrano ancora tanti, sia nella dinamica che nelle ragioni delle due morti, così come per la lunga permanenza di Leonelli nella villa.
Ma se pure fosse andata esattamente come si legge, ed è possibile, questa intervista allo psichiatra Giuseppe Dell'Acqua mi sembra la cosa più interessante che sia stata detta in merito; non solo: la trovo applicabile in tanti altri casi, gravi e meno gravi.

"Lei quindi sostiene che la malattia mentale non esiste, ma esistono i problemi che causano disagi, che a volte rimangono senza una soluzione.
È così. Non dobbiamo difenderci dietro lo schermo del disturbo mentale. Siamo sempre in presenza di un’incredibile malessere, di una persona che non si sente parte di questo mondo, che è in cerca di un posto, non si è sentito importante per qualcuno che stimava, con tanti fallimenti e delusioni alle spalle e per cui nessuno ha davvero fatto il tifo."
E' un discorso che non va di moda, perché accettarlo richiede molta onestà - quella di ammettere che il disagio è in ognuno di noi -  e molto coraggio: quello di accettare che il disagio non è qualcosa che dobbiamo difendere, come se fosse la nostra identità più preziosa, ma che dobbiamo saper lasciar andare, voltandogli le spalle e combattendolo, appunto, con onestà e coraggio insieme. Ma anche senza alcun paravento né compromesso. Il disagio è un'autodifesa dal dolore che finisce con il distruggere chi vi si aggrappa.

"Quando è giusto intervenire con lo psicofarmaco? 
Lo psicofarmaco è solo uno strumento. La sua prescrizione deve sempre rientrare in un progetto di recupero più ampio, che prevede un percorso di psicoterapia, di aiuto nella vita quotidiano e sul lavoro. Puntare tutto sulle medicine produce disastri. I medici di base sono addestrati dalle ditte farmaceutiche a prescrivere antidepressivi per i disagi più lievi. Ma è un errore."

E non va di moda anche perché fare questa operazione costa, e oggi si preferisce spendere per spianare le montagne ma non per alleviare le coscienze e ripararne i guasti: lì meglio tagliare, rimbambire di chimica lecita o illecita, sopire con il banale brusio di sottofondo delle macchine e dei consumi, un sospiro dolente e solo che richiede attenzione, lavoro, tempo, fatica, parole. Ma non consumo, non esibizione, non smart.

3 commenti:

  1. Perfettamente d'accordo. Aggiungo che molto spesso si preferisce la maschera della malattia per deresponsabilizzarci. Il farmaco è lo strumento per tacitare la coscienza di aver fatto tutto il possibile.
    E invece no, siamo tutti responsabili di noi stessi e degli altri, perché viviamo in una società.
    Il problema è che costa fatica.
    Lo vedo dal mio piccolo punto di osservazione con i bambini. Nel nostro centro seguiamo un sacco di bimbi che questo moto di deresponsabilizzazione generalizzato ha reso malati "certificati" DSA. Bimbi ai quali con troppa facilità si applica lo stigma del "diverso" e li si spedisce dal neuropsichiatra, che diligentemente stila la sua diagnosi e tutti sentono di aver fatto il possibile.
    Ma io vedo la sofferenza di quei bambini e i cortocircuiti delle famiglie... e quando con attenzione, accoglienza e adeguato supporto questi "malati certificati" recuperano, di fatto sconfessando diagnosi e rivelando l'inadeguatezza di un certo modo di concepire l'insegnamento, ecco, io tremo, mi indigno e penso al dolore di questi bambini e delle loro famiglie, penso a quali cicatrici lasceranno queste ferite, penso infine alla facilità di segnare l'altro dandogli la "colpa" del suo inserimento non ottimale e non standard: non sono io insegnante o medico a pensare di dover fare qualcosa per capire il tuo disagio e aiutarti a trovare i tuoi strumenti, no, sei tu, bambino, che hai un deficit per cui ti segnalo, ti certifico, e sono a posto con la mia coscienza.
    Peccato che, ad oggi, tutti i bambini che abbiamo avuto noi non presentassero altro che i segni della deresponsabilizzazione altrui.
    Questo lungo esempio solo per dire che certe cose accadono sempre per ragioni che affondano le loro radici in un disagio che, se portato al punto di rottura, poi esplode. E nessuno di noi è immune. Ma questo non si può dire, perché fa paura e rende insicuri e, soprattutto, ci dice quanto la responsabilità individuale e collettiva non possa essere derogata.

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    1. Mia cara Ale, ecco un commento per cui val la pena di avere un blog. Quanto hai ragione.

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  2. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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