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Toulouse en érasmienne

mercoledì 2 novembre 2022

Quella bruciante voglia di condividere una frase storica per arrivare da tutt’altra parte: un libro, un pubblico e il passato

 Da un blog:

e poi ho sempre pensato che lavare i panni sporchi in casa sia una stupidaggine, se lo fai al fiume in compagnia diventa tutto meno faticoso.

Non so se sia una citazione, in ogni caso è da monumento.

Ha anche a che fare con una cosa rimuginata da tempo in merito al mio passato, quello delle violenze di cui ho già scritto qui. Più un episodio sgradevole di cui non ho ancora avuto il coraggio di parlare, quello di un’amica di mia madre, di origini medio- alto borghesi, che mi voleva spesso con sé definendosi la mia seconda mamma, colta e con un mestiere affascinante, che durante un viaggio in macchina di notte da sole noi due, mentre guidava mi mise una mano sulla coscia accanto al ginocchio sinistro. E poi, dopo avere scostato la mia gonnellina jeans di denim, spostò la mano verso la parte interna della coscia, un po’ più in alto. Io rimasi gelata, immobile, non sapendo cosa fare. Avevo forse dieci anni. Ancora una volta non ero minimamente eccitata, solo profondamente disgustata. Desideravo solo che togliesse la mano. Per fortuna lei non fece altro e dopo un po’ tolse la mano e non lo fece mai più. Non vi furono contatti con organi genitali o carezze intime, né col resto del suo corpo, per fortuna. All’epoca ignoravo fin l’esistenza della sessualità fra donne. Ma la sensazione di qualcosa di fuori posto fu fortissima, insieme alla confusione per non sapere come reagire. Lei però mi parlava di cose che mi piacevano, mi mostrava e mi faceva apprezzare oggetti ambienti e discorsi che non avrei mai potuto trovare altrove. Non potevo e non volevo perdere quel rapporto. Pensai che fosse una di quelle cose strane che fanno sempre gli adulti. È questa la principale arma di costoro, l’inconsapevolezza e la confusione dei destinatari dei loro gesti ambigui, oltre alla forza fisica.

Se ci ripenso oggi, ero l’identikit della vittima perfetta di azioni di questo tipo. Figlia di madre nubile e sola, con poche relazioni e di condizione economica modesta dalle prospettive incerte. Aspetto da bambina, non sono stata un’ adolescente precoce.

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Ma sulla cosa che volevo dire devo rimuginarci ancora un altro po’:

In sostanza non mi verrebbe mai in mente di definire le violenze sessuali sui minori o su adulti come panni sporchi. Ma l’anno scorso, a Parigi, città di salvezza e meraviglie, sono andata a un incontro organizzato dalla biblioteca di Beaubourg intorno a questo libro che stavo leggendo, una lettura importante e intelligente su un argomento sviscerato come solo i Francesi sanno fare. Quel pomeriggio rimasi tappata in casa malgrado il sole sfolgorante sui tetti, tesa come se ne andasse della vita ripetendomi non so quante  volte che dopotutto non valeva la pena di perdere tempo e che alla fin fine non era poi così convinta di avere voglia di andare. Non riuscivo a decidermi a prepararmi per uscire di casa e poi per entrare nel centro. C’erano ancora le restrizioni e bisognava passare per il controllo delle prenotazioni. Ricordo una lunghissima doccia calda quanto più possibile e il bisogno di indossare per la prima volta una gonna di lana bordeaux a pieghe, ricamata ton sur ton, comprata per 2.50 euro al mercatino dell’usato tempo prima, l’unica cosa nuova che possedessi, poi decidere di mettere le décolletée di camoscio rosse al posto degli stivali e di truccarmi leggermente. 

Come per un appuntamento. Così sentivo in effetti quell’incontro: un appuntamento fatto anche per me. Non era una delle infinite conferenze a cui assisto nella vita: si parlava di me. Questo mi riscaldava internamente e mi faceva battere il cuore.

Non c’erano molte persone ma non importava moltissimo. Quello di cui c’è bisogno, pensavo, è un tipo di incontri diverso dalle sedute di testimonianza e di racconto come dalle conferenze universitarie. Un discorso pubblico in cui si affronti e si discuta non del vissuto, ma delle condizioni che permettono il suo formarsi, della problematica che porta appresso e delle sue implicazioni e lo si fa nell’agorà, non in un’aula di tribunale o di facoltà. Bene, sono anche ma non solo questo, sono una persona di sesso femminile che ha subito violenze e molestie sessuali quando era bambina da parte di tre adulti di sesso diverso, di cui due all’interno della rete di conoscenze più intima (lasciamo perdere le mani morte e altre molestie occasionali per quanto antipatiche che tutte abbiamo subito prima o poi) e posso esserci socialmente come tale e discutere del problema non in quanto vittima, ma in quanto parte di una società portatrice di una certa esperienza. Della costruzione del senso di questa esperienza come di molte altre va discusso in pubblico, interagendo tra i diversi livelli che spesso si sovrappongono o contrappongono. Una circolazione del discorso a livello sociale, citoyenne. Fuori dalle associazioni, dai gruppi di auto-aiuto et similia che preziosi storicamente per prendere coscienza del fenomeno e denunciarlo, rinviano oggi ancora e sempre al proprio e unico status di essere violato, alla propria e altrui « malattia » ed « eccezionalità » in cui la violazione ci ha tutte e tutti trascinato. Noi non siamo un’eccezione, una mirabilia né un club chiuso ben distante dal corpo sociale e fisico degli « altri » che quest’esperienza non l’hanno vissuta - magari però l’han messa in pratica-: siamo il risultato di un fenomeno sociale. E come tale dobbiamo parlare e essere ascoltate e dialogare e avere un livello e un luogo di discorso che ne prenda coscienza e ne tenga conto oltre e al di là degli aspetti legali e terapeutici. Una pubblicità dell’esperienza come di tante altre che nella vita si subiscono o si agiscono: qualcosa che a livello collettivo non si nasconde perché non c’è proprio niente da nascondere. Un livello di discorso pubblico meno spettacolare della denuncia ma infinitamente più intenso e teso che mi pare crudelmente latitare.

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Da quella sera in automobile con la molestatrice non ho più voluto indossare la gonna di jeans. Senza capire perché, mi ripugnava. Non solo, io che amavo il blu sopra ogni altra cosa, probabilmente perché mi ricordava il mio amato mare di Gaeta, e volevo vestirmi solo di quel colore, cominciai a detestarlo e a rifiutarlo. Come pure i jeans che non ho portato e non porto praticamente mai. Soprattutto il denim mi dà fastidio al solo vederlo. «Perché mai?» « Perché è brutto, non sta bene. » era la sola risposta che riuscissi a darmi. Forse oggi ne ho trovata un’altra. E non mi venite a dire che Freud non aveva capito niente. 

Per esperienza ho visto che in genere quelli che se ne escono con frasi del genere sono esattamente quelli che di una bella analisi avrebbero più bisogno, ma, chissà perché, non gli va di farla.

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