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venerdì 12 marzo 2010

Il parere dei giuristi - da Il manifesto 11/3/2010

Una volta si diceva che nessuno può essere distolto dal suo giudice naturale stabilito per legge.


di Piergiovanni Alleva, Giovanni Naccari
Il lavoro al tempo del partito azienda
Siamo alla legge del Comitato d'affari.
Il «Cda» che ci governa ha deciso di festeggiare degnamente i quarant'anni della legge 533/1973 in materia di processo del lavoro, che fu considerata, non solo in Italia, come un modello di garantismo e di civiltà giuridica. Figura centrale di questa legge e del processo da essa istituito era un giudice specializzato, appunto il giudice del lavoro, dotato di incisivi poteri per la realizzazione, e non solo per l'affermazione astratta, dei diritti dei lavoratori. Questa legge viene ora manomessa con un provvedimento legislativo di riforma che ha un senso di classe nettissimo, come emerge dall'analisi già da noi svolta ne il manifesto del 04/03/10 e dall'impegnato articolo di Luigi Ferrajoli di due giorni fa.
Benservito ai «pontieri»
Sembra ora opportuna, e foriera di utili insegnamenti, qualche constatazione e riflessione. Innanzitutto sulle figure di comprimari e protagonisti di quest'operazione, della quale si può dire intanto che ha dato seccamente «il benservito» ad alcuni giuristi «pontieri» che, da posizioni asserite come «progressiste riformiste», hanno da tempo costantemente teorizzato un - malcelato ma evidente - abbassamento delle tutele, per perseguire la conclamata linea della «riduzione del danno».
Linea subalterna, rivelatasi sostanzialmente sintonica a quella neoliberista di smantellamento, da una parte, degli istituti d'intervento e di garanzia nel settore pubblico e, dall'altra, del sistema delle tutele nel rapporto di lavoro. Linea soprattutto fallimentare nel diritto, in economia e in politica, in Italia e nel mondo, come dimostrano gli esiti della crisi globale. Nel caso poi della controriforma in esame, gli esiti della linea sono stati particolarmente disastrosi, perché il «Cda» non ha concesso ai «pontieri» neanche le briciole.
Modernismo riformista
Diversa e coerente con le scelte politiche di cambio fronte sembra, invece, la funzione assunta dai protagonisti dell'operazione «compressione dei diritti». Essendo approdati alla destra berlusconiana da una nobile tradizione socialista, essi esercitano nella nuova direzione la loro capacità tecnica legislativa, e lo fanno con quella sottigliezza e con la dose di perfidia già evidenziate nel nostro precedente articolo. Ma ora, di fronte alle reazioni all'operazione, con la caratteristica tipica degli specializzati nei passaggi al fronte opposto non dominano l'impulso ad esaltare i benefici risultati della loro azione. Per essi - delegati dai dirigenti della destra alla tematica lavoristica - l'arbitrato d'equità sarebbe una «ulteriore opportunità» data ai lavoratori. È questo, davvero, il culmine del trasformismo dei concetti, perché la «clausola arbitrale», che ora potrà essere inserita nel contratto di lavoro autocertificato, esclude, una volta apposta, la possibilità di ricorso al giudice. Si tratta di una vera rinunzia al buio che il lavoratore dovrà sottoscrivere nel momento in cui verrà assunto. Calcolare la distanza siderale che separa i protagonisti socialisti della prima stagione di riforme nell'antico centrosinistra, da questi loro epigoni «sfumati» nell'«azzurro» del partito azienda, dà la misura del triste presente.
Le riforme possibili
Riforme del processo degne di questo nome si potevano pensare. Ben diverso sarebbe, ad esempio, se il ricorso all'arbitro, anziché al giudice, nascesse non dalla «clausola arbitrale» di cui sopra, ma da un «compromesso» cioè da un accordo intervenuto tra le parti dopo che è insorta la lite mentre il rapporto di lavoro è già in corso o è finito. In tal caso il lavoratore sarebbe libero di scegliere se andare dal giudice o invece scegliere, d'intesa con la controparte, di sottoporre la controversia a un arbitro. Non si tratta di tecnicismi, bensì di un fatto decisivo e discriminante. In realtà proposte di vera riforma della materia sono state avanzate a suo tempo, ad esempio, dalla Cgil e dalla sua Consulta giuridica; altresì dalla Commissione ministeriale presieduta da Raffaele Foglia. Il progetto della Commissione è stato ampiamente saccheggiato dai cattivi riformisti con lo stravolgimento di tutti i sui contenuti progressivi.
Vaniloqui sull'occupazione
S'impone ora una valutazione generale e conclusiva della legge varata. Di fronte alla gravità della crisi economico occupazionale, dopo i vaniloqui sulle politiche del lavoro e di difesa dell'occupazione sbandierate dalle autorità governative, sono seguite, adesso, le politiche effettive.
Il provvedimento legislativo in esame così le riassume: a) per i lavoratori: arretramento rilevante e complessivo di diritti e garanzie; svilimento della funzione della contrattazione e del sindacato; ridimensionamento della funzione imparziale e specializzata della giurisdizione; sbilanciamento normativo a favore della parte datoriale nei rapporti di lavoro e nelle relazioni sindacali; arroganti normative in contrasto con Costituzione, Carta di Nizza e importanti direttive della Ue. b) Per i datori: un messaggio dissuasivo a quelli consapevoli dell'importanza della responsabilità sociale d'impresa e del rispetto di corrette regole nell'autonomia collettiva; agli altri, un messaggio compiacente: si può abusare del lavoro dipendente e in particolare precario; l'abuso sarà difficilmente impugnabile; e anche nel peggiore dei casi lo scotto da pagare per chi abusa sarà limitatissimo.
Che fare?
La drammaticità di quanto sta accadendo implica una prima risposta di tipo giuridico, sotto il profilo sia del ricorso al referendum, sia del ricorso alla Corte costituzionale e alla Corte di giustizia Ue. Ma una seconda risposta deve essere una riflessione strategica della sinistra culturale, sindacale e politica, per una reazione a questo punto unitaria, urgente e proporzionata alla gravità della situazione. Noi, per quanto e per come possiamo, non ci sottrarremo né alla prima né alla seconda.

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