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per gli scribi

Toulouse en érasmienne

giovedì 31 dicembre 2020

Ti rendi conto che era una situazione inedita? Si sono trovati sommersi... E poi tu che cosa avresti fatto?

 Questo, proseguendo fino in fondo.

E questo.

E ancora questo (la seconda parte, audizione trasmessa dalla web tv pubblica della Camera dei deputati.)

Invece di frignare sul Natale, sulle chiusure, sui vaccini che manco ci sono, sul mondo che non sarà mai come prima, sui fremiti mortificatori e autopunitivi del niente spiaggia (!!!) e niente sport all’aperto, sul fate shopping ma se lo fate siete dei disgraziati (e via con l’autodenigrazione mortificatoria ché quella ci riesce sempre benissimo), e lascio volutamente da parte le paranoie di taluni sciroccati. Ma pure le siringhe e le rotelle di quei figuri che da maggio in poi non sono riusciti a partorire nulla di meglio.

Invece non s’è fatto, e si continua a morire tanto quanto nella cattiva Inghilterra del cattivo BoJo, mentre noi siamo guidati dai responsabili figli attaccati alle gonne di mamma UE.

Continueremo a morire finché non si raggiungerà una copertura vaccinale sufficiente a arrestare la trasmissione, sempre ammesso che funzioni. Perché si è rinunciato scientemente alla politica di controllo sul territorio e alla costruzione di una rete di sorveglianza dei focolai funzionante e pubblica su tutto il territorio nazionale allo scopo di circoscriverli con le buone o con le cattive, invece di intrappolare un intero paese in una lotteria di distinguo e proibizioni sovente senza capo né coda. Diminuire l’orario dei negozi è il primo esempio di misura insensata che viene in mente. Era successo già a marzo, quando alcune regioni avevano ridotto l’orario dei mercati all’aperto, imponendo l’apertura alle 8 e la chiusura alle 14, risultato: code code e code. Si è rinunciato a agire come stato e come politica di igiene pubblica per concentrarsi sul moralismo spicciolo di colpevolizzazione del singolo. Con il bel risultato, forse manco troppo imprevisto, di scatenare un’ondata di esasperazione che rischia di assuefare alla paura e di conseguenza al rischio pur di non dover continuare a sottoporsi a una serie di impedimenti irrazionali.

Qui in Francia le cose sono meno isteriche, ma la mascherina obbligatoria anche all’aperto tutto il tempo porta a un effetto collaterale ben più rischioso: siccome qui sono in genere disciplinati, per strada ce l’hanno praticamente tutti. All’interno dei negozi invece moltissimi esercenti o commessi la portano abbassata o non la portano proprio, specialmente quando non ci sono clienti. Mentre è proprio nei luoghi chiusi aperti al pubblico che bisognerebbe fare più attenzione. Quanto meno manca formazione in proposito. 

Io ammetto di togliermela quando cammino sui quai del lungo Senna da sola senza nessuno intorno, per poter godere un po’ dell’aria aperta (del resto è ammesso non portarla durante la pratica sportiva anche se passeggiare non è considerato proprio uno sport) ma nei negozi dove noto un comportamento simile da parte degli esercenti non entro più, specialmente quelli alimentari. Così ho dovuto rinunciare a malincuore all’ottima boulangerie-pâtisserie sotto casa dove compravo la colazione tutti i giorni, e in genere a tutti i negozi di immigrati, che sono sempre stati poco ligi anche durante il confinamento duro, sia quelli di origine araba che dell’Africa sub sahariana, mentre gli asiatici sono quasi sempre mascheratissimi. Quindi: stop a tantissimi negozi di ottimo cibo, inclusi molti banchi dei mercati (questi ultimi per la verità non un granché come qualità), forni e ristoranti che lavorano da asporto con cuochi non euroasiatici - lì è veramente irresponsabile non portarla - e praticamente tutti quelli di telefonia, cybercaffè, casalinghi, edicole. Anche molti parrucchieri tenuti da africani. Una geografia dei mestieri. L’atteggiamento è di pura e semplice sfida e strafottenza, dato che la maschera c’è, ma non viene usata in modo appropriato. Man mano che passa il tempo e il confinamento si allenta, però, il comportamento si diffonde. I commessi delle grandi catene sono molto attenti come pure quasi sempre quelli dei negozi di cibo se sono europei. In altri posti non è così e la mascherina si mette quando arriva il cliente. Ovviamente ci sono anche gli europei senza mascherina, come pure l’opposto, che è la stragrande maggioranza: però si registra che la proporzione dei primi è circa il 5-10% tra tutti coloro che non la usano o la usano male. Quello di cui s’è veramente sofferto è la mancanza di musei e mostre: e date le dimensioni di castelli e palazzi si spiega solo con un calcolo al risparmio. Finché la capienza sarà troppo ridotta perché l’apertura sia conveniente, si chiude, si mettono in cassa integrazione i numerosi precari del privato che anche qui hanno cominciato a crescere per il solito motivo e pazienza per chi vorrebbe usufruire dei servizi culturali, peraltro a pagamento. Eh, ma bisogna che siano redditizi, altro che spesapubblicaimproduttiva! Per un caso simile in Italia, vedi qui a Venezia, dove già che c’erano i musei sono diventati una fondazione privata, di quelle tanto efficienti perché prive di pastoie e burocrazia (e dovremmo fare lo stesso anche con le università e la sanità, vero, signora mia? Del resto, dati i precedenti...). Infatti: i dipendenti sono stati messi tutti in cassa integrazione, anche quelli che avrebbero comunque potuto lavorare in servizi non di custodia e guardiania, anzi farlo in migliori condizioni a musei chiusi. Perché il pubblico che si cerca è ormai solo quello del turismo di massa da Italia in mezza giornata USA style che rende uno strazio qualsiasi visita individuale e approfondita in una città mediamente turistica, intruppato in grupponi, preferibilmente stranieri, con guida e microfono e prepotenza, che rendono impossibile godere qualsiasi opera esposta e pure molte strade a causa del loro flusso ininterrotto. Per non parlare degli insopportabili autobus turistici, pachidermi peggio dei tir, che invadono a ogni costo strade e centri storici non concepiti per loro - ché bisogna stare nei tempi, camminare guai. Questo significa avere un’economia che deve puntare solo sul turismo per lasciare ad altri lo sviluppo industriale: rendere le città invivibili, i musei ridotti a baracconi alla Cleopatra (vedi l’Egizio, gli Uffizi, a quanto mi dicono o Venaria) e le loro zone più belle degradate in uno scorrimento infinito di gente forzatamente spaesata dai tempi minimi che cerca solo autoscatto e pacottiglia. Qui a Parigi il turismo di massa c’è, intendiamoci, ma è ben lungi dall’essere l’unico e dall’essere tutta l’economia. Inoltre le dimensioni e la stessa architettura di luoghi come il Louvre (già meno Orsay e del tutto inadatta l’Orangerie, ma insomma ci sono alternative) aiutano a stemperarli. Ma l’Italia è un’altra cosa, l’Italia è un paese dove l’arte nasce e esplode per la maggior parte nella piccola dimensione del Comune medievale o della signoria rinascimentale, non nei palazzi dell’assolutismo o dell’industria culturale di stato colbertiana, e non può né deve piegarsi agli standard di una crociera sul San Lorenzo. Gli USA si scantassero un po’, grazie e  i tour operator stessero al rispetto della civiltà che li fa campare, oltretutto.

Le scelte tecniche e politiche del patrio governo non meritano nessun rispetto: governo, ministri, cts, protezione civile, stampa. Perché non hanno non dico protetto, ma nemmeno rispettato noi. 

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