Questa favolosa
espressione non è, purtroppo, mia, ma di Dino Buzzati. Lo scrittore chiama così
la colata d’acciaio in fusione, ribollente nei nuovi altiforni installati nell’Italia
contadina degli anni’50 (Il pianeta acciaio, 1964). E forse allude all’ambiguità di quella zuppa che gli
operai recentemente inurbati, installati
in prossimità delle ciminiere che oscurano il cielo di fumi, possono versare
nei loro piatti con gli stipendi ricevuti dai padroni dei grandi impianti
industriali.
La zuppa del demonio è un documentario di Davide Ferrario che si propone di indagare l’idea
di progresso in Italia nella prima metà del Novecento, sino alla crisi
petrolifera del 1973. La cosa più bella e interessante è la scelta del
materiale di repertorio con cui è costruito, proveniente da vari archivi
cinematografici del cinema d'impresa. Spesso sono reportage di scrittori e giornalisti noti, da
Buzzati a Zavattini (più l’immancabile Pasolini: una tassa quando si trattano
certe tematiche). Il commento del regista è quasi inesistente, poche parole
recitate da una voce fuori campo. Tutta l’interpretazione è affidata a una
scelta accurata dei materiali e al montaggio.
Mi
piace di questo film l’attenzione a una dimensione troppo assente e spesso
falsata nel cinema: quella dei processi e dei luoghi di lavoro e di produzione.
Le fabbriche sono indagate nella loro dimensione di strutture fisiche, nel loro
inserimento nel contesto geografico e ambientale (la campagna, la spiaggia, la
città), nella loro rappresentazione artistica (Dziga Vertov in primis), poi
nelle persone che le fanno funzionare. Una delle sequenze più straordinarie,
che da sola vale il biglietto, è l’uscita felice e gioiosa degli operai dalle
officine di Mirafiori a Torino nel 1911. In splendido bianco e nero li si vede
precipitarsi fuori dai cancelli, ma genialmente la macchina da presa non è
piazzata davanti al cancello stesso, bensì perpendicolarmente, all’angolo dell’isolato.
Alla sirena del mezzogiorno gli uomini corrono fuori ridenti, si precipitano,
si abbracciano. Sono in tuta, camicia, cravatta. Poi escono i capetti, i futuri
Quarantamila. Sono in completo, portano l’occhialino, la cravatta, la camicia
bianca, la paglietta. Sigaretta all’angolo della bocca e sussiego. Ostentano distacco
dalla fretta degli altri, camminano piano, in gruppo, e non li guardano mai. Perfetti.
Mussolini chiamato a
inaugurare nel 1924 le nuove officine di Mirafiori e la FIAT chiamata a
garantire l’assistenza meccanica con camion attrezzati all’uopo all’ARMIR
durante l’invasione dell’URSS insieme all’esercito hitleriano. Fin qui la parte
più riuscita, mentre il seguito del film, pur presentando materiale molto
interessante – sulla pubblicità, l’arrivo dell’informatica e l’automazione della produzione, la
costruzione di grandi infrastrutture come le dighe, dove ho creduto quasi di
riconoscere le mie montagne, l'estrazione del petrolio, l’Olivetti – rimane troppo muto sulle reazioni che
pur cominciano a manifestarsi in conseguenza di quel progresso. Antagonismo della
natura, come nel caso della frana del Vajont, antagonismo di chi fa vivere la
fabbrica, cioè gli operai, antagonismo di chi vede nello sviluppo industriale
non normato la distruzione di ambiente e salute (quanto attuale quest’ultima!), antagonismo tra industrie e nazioni (Mattei).
Tutto questo dal film scompare: sembra che le fabbriche, gli operai e i
consumatori vivano sospesi in un limbo meccanico che non conosce altro. Ora, certo che di
queste tematiche si è parlato molto di più, ma l’eliminarle completamente non
giova alla comprensione dello scenario complessivo. Che si conclude con le “domeniche
a piedi” del 1973 (“Che pace!” ricordava sempre mio nonno che ci aveva anche
girato un filmino in superotto): una battuta d’arresto, peraltro molto
temporanea, dovuta a una causa del tutto esterna e sovraordinata eppure, alla
fin fine, come nei grandi sviluppi storici, la produzione delle macchine è continuata,
vincente, sopra la testa e il pensiero di chiunque vi fosse coinvolto senza possederle. In Italia
dagli anni’80 è arrivata la deindustrializzazione, a cominciare da quella
avanzata, poi la delocalizzazione. Non sono più gli operai a passare per i giardini
delle palazzine di Olivetti ma l’archivista che
custodisce e riordina le testimonianze visive di un’epoca.
La battuta
indimenticabile arriva nell’intervista a due operai della FIAT. Domanda: “Avete
trovato difficoltà nell’adattarvi al lavoro in fabbrica? Tempi, orari,
movimenti, ambiente, controllati, rigidi?”. Risposta di un immigrato
meridionale dal viso infantile, grande sorriso sotto i baffi e l’aria di chi la
sa lunga: “No. Ti dico perché. E’ che io ho fatto il militare. E qui, faccio
come se fossi sempre militare”.
Ah, quella sopra non è la
zuppa del demonio, ma la mia zuppa estiva di fagioli freschi… o meglio ciò che ne resta, perché si sa, quel che viene al demonio ha anche la proprietà di scomparire quando più gli aggrada.