Alle elementari e per una parte dell’asilo ho frequentato una scuola Montessori. Pubblica, perché per portafogli e per valori mai la mia mamma mi avrebbe mandato in una scuola privata. Tra i motivi della scelta c’era anche la laicità della medesima, e quando le maestre provarono comunque a farci recitare la preghierina in prima elementare (il democristianisstimo tra i ministeri si montessorizzava a modo suo), piovvero le folgori. Le malcapitate provarono a dire che io ero esentata, ma si finì con una rivolta generale delle famiglie e le preghiere rimasero nella dimensione dove dovrebbero stare: quella privata. Benedetta sia la Francia da questo punto di vista.
Non fu la scuola ideale, ma non vorrei averne frequentata nessun’altra.
Di certo fu la scuola dove appresi di più, università esclusa: rigore ma mai colpevolizzazione; curiosità libera; attenzione a episodi di bullismo che mi presero di mira e finirono con l’espulsione mascherata del capobanda, “spontaneamente” trasferitosi in un’altra sede, rompendo così il legame perverso che aveva instaurato con i piccoli complici. Tra i quali si annoverava il mio amichetto del cuore: erano infatti i miei amici che mi aveva aizzato contro. Si seppe dopo che il bambino persecutore viveva, manco a dirlo, una situazione familiare lacerata, con i genitori in rotta tra loro. Questo non giustifica né lui né alcun altro adulto minimizzatore, se non per il fatto che la causa della persecuzione non era “il carattere del bambino” né tantomeno il mio o la “mia maniera di reagire”, le solite frasi fatte degli adulti scansafatiche e scansa problemi, bensì la famiglia cieca e negativa dell’individuo aggressore.
Ma non è di questo che intendevo parlare.
Arrivata in prima media avevo l’abitudine di fidarmi degli adulti e di parlare liberamente con loro, specialmente se insegnanti, in classe.
“La mole magniloquente del Vittoriano...” lessi quel giorno a voce alta durante la lezione di geografia. Alzai il nasetto dalla pagina: “Lola - così si chiamava la professoressa di lettere e così la chiamavamo se volevamo - ma cosa vuol dire ‘magniloquente’?”.
Ne seguirono spiegazioni che non mi chiarirono completamente il concetto, e il compito assegnatoci quel giorno fu un’indagine sul termine. Cosa si poteva definire “magniloquente”?
Peccato che la professoressa, peraltro da me abbastanza amata anche se non come l’adorata Maria Lazzari che la sostituì l’anno successivo per poi scomparire, atroce abbandono, nelle scuole toscane, venendo sostituita dalla più laida opra nomata Italia (sic), non ci abbia indirizzati dapprima a un vocabolario, spiegandoci di tal fonte il senso e l’uso: del resto in classe non ce n’erano. Simili lussi a scuola? Suvvia.
Qualche tempo dopo le nuove compagne di scuola, tutte gomitatine e risatine sforzate e nervose, mi esplosero contro: “Ma perché tu fai le domande? Così poi ‘Lei’ ci dà i compiti!”.
Ecco: la scuola, quella con la S maiuscola.
Che orrore.
Che ottundimento dei cervelli.
Che macchina da guerra per produrre soldati furbi, ignoranti e ottusi.
Che spreco.
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domenica 19 luglio 2020
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