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per gli scribi

Toulouse en érasmienne

venerdì 16 dicembre 2022

Piangere al cinema

 Non mi viene mai. Due eccezioni: la fine de L’attimo fuggente, quando gli studenti, in un chiaro preludio del’68, salgono sui banchi molto determinati a difendere il loro insegnante e la propria curiosità intellettuale e di vita opponendosi alla brutale e ottusa dirigenza del college, e la fine de Il caso Spotlight, quando i camion carichi delle copie del Boston globe partono per diffondere nelle edicole il numero del giornale dedicato alla copertura data dalla santa madre ai preti pedofili durante almeno la seconda metà del XX secolo.

Sono entrambi due finali e non sono del tutto negativi, anzi, sono liberatori. Sono anche due immagini di rivolta e ribellione di gruppo e vincenti all’ingiustizia e all’oppressione.  

Abito a poca distanza dalla sontuosa basilica dove Woytila, si’, il caro santo, accolse il cardinale Law dopo che lo scandalo lo forzo’ a lasciare Boston, dandogli il titolo di Santa Maria Maggiore. La chiesa è magnifica, ma entrarci richiede uno sforzo.

mercoledì 7 dicembre 2022

S

 Sono un po’stanca.

Tipo un uovo caduto da crudo su un piano più duro.

Il mancato scatto di stipendio rinviato sine die mi ha molto abbattuto: volevo iniziare le pratiche del trasferimento subito dopo e invece non ci sono prospettive.

Poi arriva la polmonite.

Il braccio tirato d corde taglienti come acciaio.

Gridare di dolore per infilare un maglione, io che stupivo un intero studio di FKT per la mia soglia altissima del dolore. Dolore tutto il giorno in qualsiasi posizione, sotto cortisone.

La prospettiva di restare nello stesso posto in perpetuo.

Sentirsi esausta per il minimo sforzo fisico.

Non respirare, spenzolarsi fuori dalla finestra per trovare aria.

Vedere ogni tentativo faticosamente perseguito e cercato di migliorare la mia posizione lavorativa ed economica svanire a un passo più senza orizzonte.

Esser sull’orlo delle lacrime senza avere l’energia di piangere.

Il marito di mia madre che mi incalza ogni giorno, velenoso e letale, facendomi sentire un mostro degenere: « Quanti giorni di malattia ti hanno dato ancora? » perché devo precipitarmi là con un’ora e mezzo di metro come se fossi fresca come una rosa a portare in giro mia madre fuori di casa perché lui non la sopporta più tutto il giorno, ai miei parenti non vuole chiedere niente perché non gli garbano, mentre io riesco a fatica a camminare per cento metri e anelo a qualcosa di bello fatto in modo calmo e che ristori me, anzitutto e non perché tirata da un altro. Badante no, eh, sia mai! Io voglio bene a mia madre. Desidero passare del tempo con lei. Magari portarle un dolce fatto in casa. Programmare la decorazione dell’albero di Natale che lei ama fare come quando ero piccola e farlo insieme. Ma non sopporto di essere considerata da suo marito una turnista da sollecitare con aria scontenta perché non risponde presente ogni minuto in cui non lavora non perché ci sia un’urgenza, ma perché lui non ha voglia di chiamare un aiuto neanche qualche ora a settimana. E adesso, dopo cinquantaquattro giorni di malattia, ho bisogno di riprendermi anche facendo qualcosa solo per me stessa. Eppure mi ha vista cadere quasi per terra poche settimane fa!

Mi sento spegnermi e vorrei tanto ridere.  

Mi hanno chiesto un articolo per una bella rivista: non riesco neanche a connettere un germe di proposta. D’accordo per me il tema libero è sempre stato difficile, ma qui va oltre.

E quest’anno sono in Italia per la prima volta dal 2009 non posso nemmeno ascoltare l’inaugurazione  della Scala perché in casa mia radio 3 non prende e non essendo abbonata alla TV che neanche possiedo non mi connetto su internet. Boris non è certo tra le mie opere preferite ma l’avrei ascoltato lo stesso, non fosse che dopo le follie di questa primavera in cui si volevano censurare gli autori russi e chiunque ne parlasse, andrebbe mandato a reti unificate per tre mesi. L’interruzione di questa bella tradizione mi infastidisce parecchio, mi avrebbe distratto.

Non ne posso più.

Aiuto.

sabato 3 dicembre 2022

Corona e lucette

 Per la prima volta ho comprato una corona natalizia. Cinese, ovvio, ma piuttosto di bell’apparenza. Verde, palline rosso satinato, foglie dorate. Per anni ho sognato di farla da me, amerei creare composizioni e decorazioni naturali e naturalmente profumate, ma con mio gran dispiacere non ho mai trovato gli arnesi giusti per fissare i rami e i frutti. 

Avevo voglia di uno sbrilluccichio e di festa, di Natale mentre il diluvio non si arresta e io sono chiusa in casa con la polmonite - in via di risoluzione apparentemente - a lottare contro le regole dell’INPS (dipendenti pubblici sospetti anche nel fine settimana, guai se ti viene sonno durante tutto il giorno e sei da sola) e l’ottusità sul lavoro da dove con malcelata soddisfazione ti comunicano che i turni che hai chiesto e che poi saresti la sola a fare senza togliere niente a nessuno “non si possono dare per contratto” vale a dire un regolamento interno contorto e malfatto dovuto alla mediocrità incapace, cavillosa, insicura e presuntuosa della dirigenza. Dio come detesto fino alla nausea la meschinità stizzosa che si crede fuuurrrrbaaa e che per sua essenza sa controllare solo sulle quisquilie stupide. Cipolla dove sei.

Come nel lockdown quando non ero malata, sto molto meglio fuori di lì. Stavolta sono malata sul serio e soddisfatta comunque di stare lontano da quel luogo, mezza scassata e squassata dalla tosse, dolorante da urlare letteralmente nelle articolazioni, ma preferisco ancora così al dover stare in quel luogo da dove non posso andarmene perché un trasferimento non me lo concederanno mai. Gli servo sottoinquadrata, sottoutilizzata, ogni avvenire precluso, ma guai se chiedo di andarmene, come tutti quelli che si trovano nella mia situazione, non è una questione personale, anche se l’episodio odierno rappresenta una soddisfazione meschina e malcelata da parte di qualcuno perché sono stata malata piuttosto a lungo e quindi faccio stridere l’insieme complessivo. Che spreco, prendersela con una malattia di qualche settimana per poi non darmi i mezzi per lavorare quando ci sono e vorrei agire come dovrei e so fare. 

Non ho la forza di articolare ragionamenti più complessi, ma sono convinta che questo punto sia cruciale.

Poi ci sono le lucette cinesi comprate il primo anno che sono arrivata qui. Sono un globo rosso che emana una luce rasserenante e assolutamente infotografabile da accesa senza fare discoteca equivoca, mentre dal vivo è molto dolce e calma. Ieri sera dopo gli spiacevoli scambi di cui sopra mi sono rasserenata cenando solo alla sua luce. 

Oggi ho spedito via PEC (ansia!) un’altra domanda di concorso, uno dei pochissimi adatti che escono, un solo posto ovviamente già assegnato a qualche precario o facente funzione da anni. Già, perché ormai i concorsi di un certo tipo sono in realtà sanatorie di situazioni distorte durate per lustri, il che rende impossibile agli esterni partecipare con qualche speranza. Non si dovrebbero semplicemente creare situazioni del genere: se c’è bisogno di un profilo lo si cerca regolarmente con concorso, senza aprire posizioni che poi andranno sanate. Già, ma siccome mammà UE dice che bisogna ridurre il numero dei dipendenti pubblici e tutti in coro a applaudire e fustigarci, o a fare tante belle aziende in house o rivolgerci a “gli operatori economici” degli schiavi, anche le amministrazioni più serie spesso non hanno altra scelta che bloccare per anni le carriere dei non più giovani e non aprire mai veri posti di lavoro di livello appropriato agli esterni. Solo che io sono stanca. La situazione della mamma e ancor più la pressione continua di suo marito, che aspetta il week-end quando io sospiro per tirare il fiato, per piombarmi addosso come un avvoltoio perché io lo dedichi a lei, mi stanno prosciugando totalmente e il lavoro non è di alcun aiuto per staccare da questo pensiero. Io rimango senza risorse per concentrarmi davvero su qualunque cosa, dai compiti casalinghi agli hobby allo studio e alla scrittura che avrebbero bisogno di tempo, concentrazione e tranquillità. Ho pensato che questa malattia fosse una vacanza che il mio corpo o meglio ancora il mio spirito mi imponeva perché razionalmente e logisticamente non ero capace di dargliela da anni. Ma il dolore fisico è stato ed è così forte da impedire una reale distensione.

Devo solo trovare la forza fisica e mentale di studiare, mentre non riesco neanche a riordinare la casa per il dolore alle braccia. Se non altro mi sarò riposata un po’. 



Che brutte foto, se non altro perché dietro c’è il bordello. Auff. Torno ad abbattermi sul letto.


giovedì 17 novembre 2022

Un anniversario collettivo.

Quand l’aristocrate protestera,
Le bon citoyen au nez lui rira,
Sans avoir l’âme troublée,
Toujours le plus fort sera.

Quattro anni fa i Gilet Jaunes decidevano di occupare rotatorie e caselli autostradali per protesta all’introduzione di una tassa sugli autoveicoli. La protesta guadagno’ ben presto la forza necessaria per estendersi alla strada più famosa di Europa e una delle più famose del mondo. Sono cose note e queste note non aggiungono in realtà nulla di nuovo. Ricordano. 

Gli elementi erano molteplici e i partecipanti variegati. Sostanzialmente fu una rivolta contro il caro vita e l’immiserimento di strati sempre più larghi della popolazione a causa dei tagli ai servizi pubblici uniti alla politica economica di controllo dei salari attraverso la disoccupazione o sottoccupazione crescenti, fenomeni sempre più avvertiti al di fuori delle grandi città. Senz’altro ereditò i militanti sindacali sconfitti delle battaglie per la difesa del diritto del lavoro di pochi anni prima.

Coraggiosi da sempre fino alla temerità, i Francesi si batterono a mani nude o quasi davanti a una polizia armata fino ai denti e obbediente a direttive repressione sanguinosa se non mortale nel suo insieme. La vecchia dottrina di evitare lo scontro quanto più possibile non serviva più, fu messa da parte. Macron senza sorprese confermò il suo volto spietato di brutale di affarista che aveva già sfoggiato durante i giorni della casse du code du travail sotto la presidenza Hollande.

Le brutalità poliziesche furono ignorate, si fece uso di vernice invisibile e indelebile per marcare i vestiti di coloro che partecipavano alle manifestazioni per in seguito perseguirli e condannarli in vario modo solo per la partecipazione, si usarono le nasse per contenere i manifestanti durante ore e ore, gettando gas e caricando allo scopo di fiaccarne il morale. Si definirono « armi per destinazione » cartelli di cartone pieghevoli, sciarpe, maglioni, occhiali da sole e quant’altro si potesse trovare nelle borse o negli zaini. Si pestarono giornalisti perché documentavano gli scontri, soprattutto i precari che non avevano dietro una testata famosa a proteggerli e medici perché curavano i feriti, molti erano studenti volontari che sia operavano per qualche trauma cranico di troppo.

Non so se avete mai avuto l’occasione di avvicinare un poliziotto francese bardato a manifestazione. Anzitutto sappiate che siete delle formiche, per quanto grandi e grosse possiate essere. Anzi sono loro dei formiconi di 18 metri. Sono in generale alti e atletici, diciamo pure francamente hanno un fisico bellissimo, armonioso e addestrato. Sono coperti di elmetti, paracolpi e scudi semplicemente giganteschi se visti da vicino. Sono armati di manganelli enormi e con un impugnatura a T. Questo è quello che si vede, parlo di quello che ho visto, ma l’uso di manganelli elettrici anche per penetrazioni con conseguenti scosse da parte di alcuni reparti della polizia francese in altri contesti è stato denunciato dalla stampa. 

Forse qualcuno ricorderà l’immagine del manifestante inginocchiato sugli Champs Elysées coperto dalla bandiera francese con scritte sopra le prime parole della Marseillaise, innaffiato dagli idranti in una fredda giornata di novembre (non è solo acqua, ci sono sostanze irritanti dalla varia liceità). Per me è rimasta il simbolo di quei giorni. Io ricordo anche quando vidi i diabolici Jaunes sulle rotatorie: persone anziane che trovavano li’ qualcuno con cui fare quattro chiacchiere e la sensazione di poter darsi da fare per uno scopo collettivo. I camionisti passando suonavano sempre il clacson in loro onore, rallentando e portando qualche piccolo dono: dolci, cibo. Mentre i giovani salivano a Parigi per battersi come da centinaia di anni. Ricordo gli Champs vidés de leur peuple sbarrati da centinaia di camionette e poliziotti, il métro chiuso per metà tre giorni a settimana, perché quella vetrina che tutto il mondo avrebbe riconosciuto non doveva essere turbata dallo scontro sociale. E ricordo una signora turista a Parigi insieme alla figlia che le chiedeva cosa fossero le luci che vedeva: «È per i Gilet Jaunes. Gli hanno impedito di andarci et je trouve que c’est bien dommage.». Ricordo la présidente de salle alla Bibliothèque de l’Arsenal tutti i sabati di servizio vestita di giallo. Insomma non ricordo un rifiuto da parte dei Francesi di quell’esecrabile manifestazione di dissenso, ricordo invece empatia e sostegno per una battaglia che sentivano giustamente anche propria.  Ricordo i poliziotti incontrati a un crocevia al termine di un sabato qualsiasi di marce, io vestita elegantina di seta giallo sole, un innocente vestito vietnamita comprato a Lione, le mie borse cariche di libri. Per fortuna non le presero come armi per destinazione, ma capirono benissimo. E mi sorrisero.

Macron stava cominciando a perdere la fiducia anche dell’alta dirigenza pubblica, disgustata dai metodi brutali da lui applicati. Nascevano tentativi di fare gruppo in rete da parte di chi non poteva sostenere quella situazione. La cosa che i Jaunes avevano ottenuto sugli Champs Elysées era di far perdere la faccia al presidente davanti al resto del mondo e non era poco. 

Macron si salvò grazie alla pandemia che spazzo’ via gli ultimi resistenti dalle strade e concentrò l’attenzione su altre urgenze, altrimenti credo non sarebbe mai stato rieletto. I Jaunes furono spazzati via dalla repressione giudiziaria - chiunque fosse stato fermato alle manifestazioni sarebbe stato condannato indipendentemente da quanto avesse o meno fatto. Si esaurirono per la mancanza di rivendicazioni salde e comuni e alla fin fine per insufficiente coscienza delle ragioni del proprio disagio, vale a dire una politica economica liberista che stava e sta spazzando via les derniers lambeaux di benessere, vale a dire di civiltà, faticosamente conquistato in due secoli e mezzo. 

Fedele al principio della non ingerenza più di quanto non siano i governi marconisti non sono andata alle manifestazioni, ma se fossi stata Francese lo avrei fatto. Fraternité.





 

venerdì 4 novembre 2022

Riso in bianco color seppia del pesce d’aprile

 Passo passo passo. Ma chi me lo fa fare e per cosa poi. I primi freddi non giovano al miglioramento. Il virus non molla. Nausea nausea, debolezza e tutti i fastidi connessi al raffreddore sono au rendez-vous. Poi mi sono detta che dopotutto qualcosa in bocca devo infilare, quindi tanto vale approfittarne per giocare.

Del resto il riso in bianco è raccomandato ai malati. Quanto alla cottura niente di più ristoratore di un brodo che si cuoce piano piano: il caldo caccia l’oppressione al petto, il profumo conforta più di una torta al cioccolato, e il vapore allevia la sinusite. E anche... insomma qualche cosa riesco a fantasticare. Così, approfittando del tema libero recupero il riso del pesce d’aprile e scherzando propongo il riso della settimana: riso in bianco, appunto.

Riso del virus novembrino

Brodo

Avanzi di pollo, nel mio caso dal freezer: punte di ali, zampe, testa con tutti i bargigli... ossa eventualmente

Cipolla, sedano abbondante, carota

Scorze abbondanti di limone, il che mi ha permesso di scoprire che i miei due économes non tagliano un bel niente e ho fatto spazio gettandoli dritti filati nella spazzatura non riciclabile

Chiodi di garofano, semi di finocchio pestati, stella di anice stellato, timo, menta

Coprire di acqua e cuocere 1 h 30. Volendo, filtrare.

Riso

1 pugno di riso (dose da malata).                 

 Semi di finocchio

Brodo

Vino bianco (evapora checché ne dicano)      

Olio aromatizzato alla menta, 1 cucchiaino 

Scorze di limone

Tostare i semi di finocchio in padella secca che aumenta il rischio di bruciarli quindi supplemento di attenzione. Unire il riso, poi sfumare con il vino, cuocere con il brodo. Mantecare con olio in cui si è lasciata in infusione altra menta.

Tavola

Per quanto semplice sia il riso ciò non comporta che lo sia la tavola. E quindi: tappetino di legno comprato nella mia adorata Tolosa, posata d’argento della bisnonna mamma del nonna materna con cui ho visto mangiare mio nonno, suo genero, per tutta l’infanzia, bricchetto di garofanini cinesi che mi piacciono tanto e avevo in casa, e per finire anche un po’ di fiamma:




Guarnire il riso sul piatto con la scorza di limone grattugiata.

E ora corro ai miei fazzoletti! Buon fine settimana a voi.

 

mercoledì 2 novembre 2022

Impastoiata e fremente

 Chi mi legge sa quanto per me contino la Francia e le esperienze che riesco a fare lì, impensabili in Italia nella ristrettezza generale di mentalità e di finanziamenti che rendono ancora più corporativo un contesto che lo è sempre stato al di là di ogni ragionevole misura. Il gruppo in cui sono inserita in questo momento è di un livello altissimo, purtroppo io seguo una disciplina molto collaterale e tra sindrome dell’impostore e sensazione di essere comunque fuori da molti ragionamenti l’ansia da prestazione è alle stelle.

Quindi quando due persone ben due del gruppo pensano a me indipendentemente l’una dall’altra per un’iniziativa da presentare fra qualche mese sprizzo felicità da tutti i pori. Collima perfettamente con alcune riflessioni che sto facendo negli ultimi tempi. Per poi ricadere miseramente quando capisco che è necessario presentare una realizzazione che non c’è sul mio luogo di lavoro. E non c’è perché non mi sono mai stati dati allo stesso tempo due soldi di attrezzatura e di fiducia per realizzare checchessia. 

Frustrazione e rabbia. Sensazione di inconcludenza perenne e forzata. Stupidità senza fine della mia organizzazione che non riesce nemmeno a intuire quanta visibilità potrebbe ottenere con un investimento minimo su chi morde il freno e lo lascia invecchiare così, ingrassare così, esaurirsi così con uno stipendio di miseria, perché fa comodo così.

Io quel luogo finirò con l’odiarlo sul serio.

Cui prodest?

Quella bruciante voglia di condividere una frase storica per arrivare da tutt’altra parte: un libro, un pubblico e il passato

 Da un blog:

e poi ho sempre pensato che lavare i panni sporchi in casa sia una stupidaggine, se lo fai al fiume in compagnia diventa tutto meno faticoso.

Non so se sia una citazione, in ogni caso è da monumento.

Ha anche a che fare con una cosa rimuginata da tempo in merito al mio passato, quello delle violenze di cui ho già scritto qui. Più un episodio sgradevole di cui non ho ancora avuto il coraggio di parlare, quello di un’amica di mia madre, di origini medio- alto borghesi, che mi voleva spesso con sé definendosi la mia seconda mamma, colta e con un mestiere affascinante, che durante un viaggio in macchina di notte da sole noi due, mentre guidava mi mise una mano sulla coscia accanto al ginocchio sinistro. E poi, dopo avere scostato la mia gonnellina jeans di denim, spostò la mano verso la parte interna della coscia, un po’ più in alto. Io rimasi gelata, immobile, non sapendo cosa fare. Avevo forse dieci anni. Ancora una volta non ero minimamente eccitata, solo profondamente disgustata. Desideravo solo che togliesse la mano. Per fortuna lei non fece altro e dopo un po’ tolse la mano e non lo fece mai più. Non vi furono contatti con organi genitali o carezze intime, né col resto del suo corpo, per fortuna. All’epoca ignoravo fin l’esistenza della sessualità fra donne. Ma la sensazione di qualcosa di fuori posto fu fortissima, insieme alla confusione per non sapere come reagire. Lei però mi parlava di cose che mi piacevano, mi mostrava e mi faceva apprezzare oggetti ambienti e discorsi che non avrei mai potuto trovare altrove. Non potevo e non volevo perdere quel rapporto. Pensai che fosse una di quelle cose strane che fanno sempre gli adulti. È questa la principale arma di costoro, l’inconsapevolezza e la confusione dei destinatari dei loro gesti ambigui, oltre alla forza fisica.

Se ci ripenso oggi, ero l’identikit della vittima perfetta di azioni di questo tipo. Figlia di madre nubile e sola, con poche relazioni e di condizione economica modesta dalle prospettive incerte. Aspetto da bambina, non sono stata un’ adolescente precoce.

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Ma sulla cosa che volevo dire devo rimuginarci ancora un altro po’:

In sostanza non mi verrebbe mai in mente di definire le violenze sessuali sui minori o su adulti come panni sporchi. Ma l’anno scorso, a Parigi, città di salvezza e meraviglie, sono andata a un incontro organizzato dalla biblioteca di Beaubourg intorno a questo libro che stavo leggendo, una lettura importante e intelligente su un argomento sviscerato come solo i Francesi sanno fare. Quel pomeriggio rimasi tappata in casa malgrado il sole sfolgorante sui tetti, tesa come se ne andasse della vita ripetendomi non so quante  volte che dopotutto non valeva la pena di perdere tempo e che alla fin fine non era poi così convinta di avere voglia di andare. Non riuscivo a decidermi a prepararmi per uscire di casa e poi per entrare nel centro. C’erano ancora le restrizioni e bisognava passare per il controllo delle prenotazioni. Ricordo una lunghissima doccia calda quanto più possibile e il bisogno di indossare per la prima volta una gonna di lana bordeaux a pieghe, ricamata ton sur ton, comprata per 2.50 euro al mercatino dell’usato tempo prima, l’unica cosa nuova che possedessi, poi decidere di mettere le décolletée di camoscio rosse al posto degli stivali e di truccarmi leggermente. 

Come per un appuntamento. Così sentivo in effetti quell’incontro: un appuntamento fatto anche per me. Non era una delle infinite conferenze a cui assisto nella vita: si parlava di me. Questo mi riscaldava internamente e mi faceva battere il cuore.

Non c’erano molte persone ma non importava moltissimo. Quello di cui c’è bisogno, pensavo, è un tipo di incontri diverso dalle sedute di testimonianza e di racconto come dalle conferenze universitarie. Un discorso pubblico in cui si affronti e si discuta non del vissuto, ma delle condizioni che permettono il suo formarsi, della problematica che porta appresso e delle sue implicazioni e lo si fa nell’agorà, non in un’aula di tribunale o di facoltà. Bene, sono anche ma non solo questo, sono una persona di sesso femminile che ha subito violenze e molestie sessuali quando era bambina da parte di tre adulti di sesso diverso, di cui due all’interno della rete di conoscenze più intima (lasciamo perdere le mani morte e altre molestie occasionali per quanto antipatiche che tutte abbiamo subito prima o poi) e posso esserci socialmente come tale e discutere del problema non in quanto vittima, ma in quanto parte di una società portatrice di una certa esperienza. Della costruzione del senso di questa esperienza come di molte altre va discusso in pubblico, interagendo tra i diversi livelli che spesso si sovrappongono o contrappongono. Una circolazione del discorso a livello sociale, citoyenne. Fuori dalle associazioni, dai gruppi di auto-aiuto et similia che preziosi storicamente per prendere coscienza del fenomeno e denunciarlo, rinviano oggi ancora e sempre al proprio e unico status di essere violato, alla propria e altrui « malattia » ed « eccezionalità » in cui la violazione ci ha tutte e tutti trascinato. Noi non siamo un’eccezione, una mirabilia né un club chiuso ben distante dal corpo sociale e fisico degli « altri » che quest’esperienza non l’hanno vissuta - magari però l’han messa in pratica-: siamo il risultato di un fenomeno sociale. E come tale dobbiamo parlare e essere ascoltate e dialogare e avere un livello e un luogo di discorso che ne prenda coscienza e ne tenga conto oltre e al di là degli aspetti legali e terapeutici. Una pubblicità dell’esperienza come di tante altre che nella vita si subiscono o si agiscono: qualcosa che a livello collettivo non si nasconde perché non c’è proprio niente da nascondere. Un livello di discorso pubblico meno spettacolare della denuncia ma infinitamente più intenso e teso che mi pare crudelmente latitare.

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Da quella sera in automobile con la molestatrice non ho più voluto indossare la gonna di jeans. Senza capire perché, mi ripugnava. Non solo, io che amavo il blu sopra ogni altra cosa, probabilmente perché mi ricordava il mio amato mare di Gaeta, e volevo vestirmi solo di quel colore, cominciai a detestarlo e a rifiutarlo. Come pure i jeans che non ho portato e non porto praticamente mai. Soprattutto il denim mi dà fastidio al solo vederlo. «Perché mai?» « Perché è brutto, non sta bene. » era la sola risposta che riuscissi a darmi. Forse oggi ne ho trovata un’altra. E non mi venite a dire che Freud non aveva capito niente. 

Per esperienza ho visto che in genere quelli che se ne escono con frasi del genere sono esattamente quelli che di una bella analisi avrebbero più bisogno, ma, chissà perché, non gli va di farla.