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Toulouse en érasmienne

domenica 15 marzo 2020

La paura della notte

Da ragazza ho sofferto di una malattia dai sintomi piuttosto dolorosi di cui non si riusciva a capire le cause. Un medico che il mio caso aveva impietosito e la mia persona incuriosito mi suggeri’ di farmi ricoverare qualche giorno per una serie di esami altrimenti troppo complicati da realizzare.
Mi ritrovai in un grande ospedale semifatiscente come purtroppo tutti gli ospedali delle grandi città, isolato e lontano dal mio quartiere. L’attività principale era aspettare in questi grandi stanzoni, facendo ogni tanto un piccolo passo nella routine che precedeva il grande esame e poi la complicata dimissione.

La notte l’ospedale era tragicamente illuminato da fioche luci che creavano un’atmosfera di desolazione. Incapace di dormire  erravo per scale e corridoi fino a percorrere tutto il labirinto dell’edificio. Gli ospedali, giacché nella mia vita ne ho visto da presso più di uno,  hanno un’architettura infinitamente più complicata e disorganica di un qualsiasi altro palazzo. Quello era particolarmente grande e brutto.
La notte del giovedi’, vedendomi errare senza pace, gli infermieri mi fecero sapere che M.A. che in quell’ospedale avrebbe passato tutta la sua vita, era di guardia, mi spinsero quasi a passare da lui.
Sormontato il ritegno e la paura di disturbarlo andai nel suo reparto. Mi disse che prima o poi a stare i quegli ambienti sarebbe venuta una crisi. Non avevo collegato la tristezza indefinita di quei momenti alla nozione di crisi: dare un nome alla cosa mi rassicuro’ anche se mi domandavo con ansia quanto potesse durare una “crisi”.

Venerdi’ è stato il mio momento di crisi, non fisica, ma di tristezza. L’isolamento si faceva sentire. Il breve teatrino verso le sei non l’aveva lenito, anzi. Da due finestre sui due lati del palazzo avevano cominciato a suonare l’inno nazionale; si erano aggiunte le sudamericane del condominio con un cacerolazo, il che dava una sfumatura particolare alla cosa, una di loro aveva sfoggiato un meraviglioso tamburello tintinnante. Dall’altro lato della strada una famiglia di quattro persone occupava il balcone e rispondeva all’inno con Bella Ciao. I bambini erano piccolini: uno o una poco più di un neonato, in braccio alla mamma, scalciava e muoveva le braccine contento e incuriosito dal frastuono. Poi eravamo  rimasti alle finestre per un po’. Rientrare era stato doloroso, la solitudine pesava di più; quell’immagine di fagottino pieno di vita non se ne andava: stringeva il cuore.

La sera avevo cucinato la sua ottima, facile torta di ceci, con un resto di farina rimasta nel frigorifero (150 g. Farina, 450 di Acqua, 2 cucchiai EVO, un po’ di sale, 4 ore di riposo, forno a 240° per una mezz’oretta) accompagnandola con piccole zucchine freschissime e fiorite, trovate qualche giorno prima al mercato, complici queste settimane cosi’ calde e soleggiate.
 

Sbadata, mi addormento sul computer; alzandomi, rompo il termometro che cade di punta sul pavimento. Forse l’oggetto che meno bisognerebbe perdere in questo momento.



 

La notte quando mi sveglio ho paura, è vero. È il momento in cui più sento la malattia, i farmaci, e i suoi disagi appaiono inquietanti.
Ritorna anche il pensiero del mondo di fuori, e che non sarà mutato nella sua inutilmente oppressiva, disperante tristezza.


Dalla Francia mi chiedono notizie, giungono parole di sostegno, preoccupazioni inaspettate, notizie si intrecciano, auguri.

Attendo.
 

2 commenti:

  1. Ė un momento difficile per tutti. Non mi pesa lo stare in casa,né l'isolamento, visto che fra telefono e Skype siamo tutti connessi, ma mi pesa il non sapere come andrà a finire. Occupo la testa col lavoro e la cucina,impegno le mani coi lavori creativi,mi impegno a pensare positivo, ma c'è un'inquietudine di fondo che non viene via

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    1. Ciao Dolcezze, benvenuta e grazie di avermi scritto. Ho leggiucchiato un po' del tuo divertente quarantenario, specialmente l'episodio del canestrello porta focacce.

      Come andrà a finire: passerà come e meglio del 1348. Peccato: non scriveranno il nuovo Decameron e tu non potrai spiegarlo agli studenti. Siamo noi singoli che non sappiamo la nostra sorte.

      Per me la cosa difficile è il fatto di affrontare la segregazione essendo malata, per di più di influenza (speriamo non altro) e avendo al lavoro una situazione per cui qualsiasi cosa possa rendermi disagevole e penalizzante la gestione di questa emergenza verrà fatta per puro accanimento personale (non possono licenziarmi ma per il resto...). La cosa peggiore è il pensiero di chi sta morendo perché non è possibile assisterlo, dei contagiati sul lavoro che non hanno mezzi di protezione neanche se li richiedono con lo sciopero, dei medici che non hanno i mezzi. E tutto ciò per una scellerata scelta politica, in cui si sta peraltro perseverando.

      A Roma stanno allestendo almeno un intero edificio, oltre a quelli che già ci sono, per isolarvi i pazienti di COVID.

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