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giovedì 20 novembre 2014

L'Eletta

Deludiamo subito i mistici di qualunque razza: Eletta è un nome di donna, una persona che ho conosciuto da bambina.
Avevo scritto queste righe per altro, non per essere pubblicate da me sotto qualunque forma, ma adesso penso si possano mettere qua.


Ovviamente non ritraggo lei, ma quel che ora io ricordo di lei. Mi dispiace soprattutto non poter rendere né le sue frasi né il suo dialetto: il tutto ci perde molto.

Eletta era una contadina, una delle poche rimaste davvero tali e che vivevano dei propri campi. Piccola, robusta, le guance arrossate e la pelle sottile, il viso ovale, gli occhi chiari, i capelli castani come le donne di queste parti. Gonna sotto al ginocchio, larga, scura, golfini, grembiule sempre, chiaro, calze pesanti e scarponi ai piedi. Fazzoletto in testa, che lei portava tirato indietro sui capelli, spesso scarmigliati. Tagliava il fieno, in stagione, lungo i pendii, ammucchiandolo poi sul largo quadrato di iuta di cui raccoglieva al centro le cocche per caricarselo addosso, un enorme cuscino sotto cui sparivano la testa e le spalle delle donne di allora. Lavorava nell’orto, sempre, da cui riportava rose di una rara varietà olandese, rosa pallido tendente al violaceo, dal fiore largo e pesante, la bieta, anzi «bieda» da queste parti, e l’insalata. Produceva dolcissime prugne sciroppate, frutto locale, con il cui sugo denso e rosso come un bel vino riempiva grandi vasi di vetro da aprire in onore degli ospiti. Faceva il burro e lo mangiava a cucchiaiate. Metteva sotto spirito le corniole.
Sevror, il suo paese, è un borgo antico. Nelle cronache si nomina la peste secentesca raccontata anche da Manzoni. Rintanato tra le pendici di due colline, s’aggrappa ai versanti là dove la roccia è meno scoscesa, per non rubar spazio prezioso ai campi da coltivare. Le case sono grandi, in pietra, intonacate di grigio, le porte e le finestre bordate di tonalite dell’Adamello. Ben diverso dal più grande borgo giusto due curve in là, opulentemente sparso al sole su una sporgenza del monte, al di sopra dei suoi campi e al di sotto del suo bosco e delle sue malghe.
L’Eletta viveva sola. Era considerata la strana, la matta, quella che non aveva mai imparato bene l’italiano e si esprimeva soprattutto in dialetto, la voce dolce e sottile, la parlata rapida. In realtà l’ho sempre conosciuta gentile, accogliente e contenta delle nostre visite.  Forse aveva semplicemente preferito continuare a vivere come avevano vissuto i suoi antenati, senza troppi cambiamenti né confort moderni.
La sua casa si apriva sulla vallata. Al piano rialzato la cucina, grande e nera, affumicata, aveva ancora il grande camino antico dove si installavano panche e divani mentre le braci ardevano «in parte». All’esterno della cappa, nera come il resto, era arrampicato un presepio che la occupava interamente. Il muschio la copriva tutta, mentre i personaggi salivano e scendevano per quel pendio come i contadini delle valli. Di quella cucina non sarebbe giusto dimenticare l'odore. Denso e dolciastro, non ho mai capito da dove venisse. Dal legno? Dal camino? Dallo zucchero cotto in abbondanza? Non so, ma nelle case moderne non l'ho mai più ritrovato. Al piano di sopra le camere, gelide, con i letti ottocenteschi dall’alto capezzale, preda spesso di mercanti senza scrupoli, i copriletti lavorati a mano.
A quella casa, una notte, avevano bussato gli austriaci, raccontava l’Eletta. Lei era molto piccola. Cercavano suo padre. Lo portavano alla guerra. La mamma non voleva lasciarli entrare, spiegava, ma quelli s’erano fatti strada con la forza e era stato proprio lui a dirle di aprire. Venivano a prendere gli uomini in piena notte per essere sicuri di trovarli. Di giorno infatti parecchi si nascondevano, un modo un po' ingenuo per non ricevere la cartolina precetto. Di notte, invece, gli avevano dato la cartolina e se l’erano portato via tutto in una volta. Così, nel giro di un’ora, il papà aveva dovuto salutarli tutti, abbracciare la moglie (si ricordava Eletta) e partire. La mamma era rimasta sola e senza notizie. Aspettava. Gli uomini erano, si diceva, in un posto lontano: Galizia. Notizie, però non ne arrivavano.
Poi un giorno arrivò una cartolina. Il testo era prestampato. Non c’era spazio per aggiungere molto, lui aveva potuto metterci solo una o due parole, oltre al suo nome. Sapeva scrivere, naturalmente. La mamma, diceva Eletta, era felice. 
Poi il silenzio era ricominciato. Fino all’annuncio ufficiale della sua morte. Quando era arrivata la cartolina che aveva tanto rallegrato sua moglie, il papà di Eletta era già stato ucciso. «I aveva le cartoline, ma no le dava. ‘Spettavan.» Era una scelta precisa dell’Austria consegnare la posta ai familiari dei soldati con grande ritardo. A volte la corrispondenza arrivava quando i parenti erano già morti. Così le famiglie non ci credevano, pensavano che fossero ancora vivi. « Mi ha appena scritto, starà bene… ». E invece no.

L’Eletta raccontava spesso, spontaneamente, questa storia. Ritornavano sempre nel suo racconto la mamma felice dell’ultima cartolina del suo uomo, lei bambina che non aveva più visto, dopo quella notte, il padre partito in Galizia. «Loro» che consegnavano le cartoline quando ormai era già morto.
     
Eletta non poté finire i suoi giorni nella grande casa del suo racconto. I nipoti, o i cugini, vi avevano messo gli occhi sopra. La trasferirono in un stanza nel paese più grande, di certo più comoda e moderna, al piano terreno. Tutti i giorni lei tornava a lavorare l’orto, fino all’ultimo. Preparava ancora le «prugne bune». Quando andai a trovarla nella sua nuova sistemazione mi disse, desolata, come rimpiangesse la grande casa precedente. L’ultimo saluto me lo diede attraverso la finestra che dava sulla strada, in piedi, asciugandosi le mani nel grembiule, sempre più scarmigliata. Rimpiangeva la sua casa, ma era felice di avermi vista. Era una finestra con le sbarre, stranamente, perché in quei paesi raramente ce ne sono. Vederla lì dietro era la solitudine, l'impotenza, l'oppressione. Oggi sarebbe stato un motivo di più per andare da lei. Allora, invece, mi spaventai. Stupidamente, non ci sono più tornata.