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venerdì 20 gennaio 2017

Femmes

1967


1721
"Comment as-tu pensé que je fusse assez crédule pour m'imaginer que je ne fusse dans le monde que pour adorer tes caprices? que, pendent que tu te permets tout, tu eusses le droit d'affliger tous mes desirs? Non: j'ai pu vivre dans la servitude, mais j'ai toujours été libre: j'ai réformé tes lois sur celles de la nature; et mon esprit s'est toujours tenu dans l'indépendance.
Tu devrais me rendre grâce encore du sacrifice que j'ai t'ai fait; de ce que j'ai lâchement gardé dans mon cœur ce que j'aurais dû faire paraître à toute la terre; enfin, de ce que j'ai profané la vertu, en souffrant qu'on appelât de ce nom ma soumission à tes fantaisies.
Mais tu as eu longtemps l'avantage de croire qu'un cœur comme le mien t'était soumis; tu me croyais trompée, et je te trompais.
Ce langage, sans doute te paraît nouveau. Serait-il possible qu'après t'avoir accablé de douleurs je te forçasse encore d'admirer mon courage?"

martedì 10 febbraio 2015

Une femme debout

Il discorso di insediamento della neo presidente del Parlamento greco (in basso sulla destra, seconda icona, si attivano i sottotitoli).
Ora, io non ho un folle entusiasmo per Syriza né per le sue scelte. Malgrado le buone intenzioni proclamate, temo che siano troppo morbidi nella loro posizione (come in questo discorso) e, che a men di drastici cambiamenti di linea, essa si riveli inefficace e finisca con lo stritolare del tutto loro, noi, e l'Europa intera dietro alla follìa economica e politica dominante.
D'altra parte è impressionante la quantità di analogie e di opposte risposte che si trovano in questo discorso con la situazione italiana: ed è molto istruttivo conoscerle.
Ciò posto, questa oratrice la trovo magnifica e allo stesso tempo non riesco a immaginare nessuna delle insulse belle statuine da noi pagate arrivarle alla caviglia per bravura, stile, intelligenza. Come oratrice, ripeto, perché di costei non so nulla. Se non una cosa: sa parlare. Che insomma i Greci qualcosa avrebbero pure da dire in proposito.

P.S.: per chi ha studiato questa lingua a scuola, che emozione risentire quasi le stesse antiche parole, pronunciate a una donna greca là dove esse sono nate.

giovedì 20 novembre 2014

L'Eletta

Deludiamo subito i mistici di qualunque razza: Eletta è un nome di donna, una persona che ho conosciuto da bambina.
Avevo scritto queste righe per altro, non per essere pubblicate da me sotto qualunque forma, ma adesso penso si possano mettere qua.


Ovviamente non ritraggo lei, ma quel che ora io ricordo di lei. Mi dispiace soprattutto non poter rendere né le sue frasi né il suo dialetto: il tutto ci perde molto.

Eletta era una contadina, una delle poche rimaste davvero tali e che vivevano dei propri campi. Piccola, robusta, le guance arrossate e la pelle sottile, il viso ovale, gli occhi chiari, i capelli castani come le donne di queste parti. Gonna sotto al ginocchio, larga, scura, golfini, grembiule sempre, chiaro, calze pesanti e scarponi ai piedi. Fazzoletto in testa, che lei portava tirato indietro sui capelli, spesso scarmigliati. Tagliava il fieno, in stagione, lungo i pendii, ammucchiandolo poi sul largo quadrato di iuta di cui raccoglieva al centro le cocche per caricarselo addosso, un enorme cuscino sotto cui sparivano la testa e le spalle delle donne di allora. Lavorava nell’orto, sempre, da cui riportava rose di una rara varietà olandese, rosa pallido tendente al violaceo, dal fiore largo e pesante, la bieta, anzi «bieda» da queste parti, e l’insalata. Produceva dolcissime prugne sciroppate, frutto locale, con il cui sugo denso e rosso come un bel vino riempiva grandi vasi di vetro da aprire in onore degli ospiti. Faceva il burro e lo mangiava a cucchiaiate. Metteva sotto spirito le corniole.
Sevror, il suo paese, è un borgo antico. Nelle cronache si nomina la peste secentesca raccontata anche da Manzoni. Rintanato tra le pendici di due colline, s’aggrappa ai versanti là dove la roccia è meno scoscesa, per non rubar spazio prezioso ai campi da coltivare. Le case sono grandi, in pietra, intonacate di grigio, le porte e le finestre bordate di tonalite dell’Adamello. Ben diverso dal più grande borgo giusto due curve in là, opulentemente sparso al sole su una sporgenza del monte, al di sopra dei suoi campi e al di sotto del suo bosco e delle sue malghe.
L’Eletta viveva sola. Era considerata la strana, la matta, quella che non aveva mai imparato bene l’italiano e si esprimeva soprattutto in dialetto, la voce dolce e sottile, la parlata rapida. In realtà l’ho sempre conosciuta gentile, accogliente e contenta delle nostre visite.  Forse aveva semplicemente preferito continuare a vivere come avevano vissuto i suoi antenati, senza troppi cambiamenti né confort moderni.
La sua casa si apriva sulla vallata. Al piano rialzato la cucina, grande e nera, affumicata, aveva ancora il grande camino antico dove si installavano panche e divani mentre le braci ardevano «in parte». All’esterno della cappa, nera come il resto, era arrampicato un presepio che la occupava interamente. Il muschio la copriva tutta, mentre i personaggi salivano e scendevano per quel pendio come i contadini delle valli. Di quella cucina non sarebbe giusto dimenticare l'odore. Denso e dolciastro, non ho mai capito da dove venisse. Dal legno? Dal camino? Dallo zucchero cotto in abbondanza? Non so, ma nelle case moderne non l'ho mai più ritrovato. Al piano di sopra le camere, gelide, con i letti ottocenteschi dall’alto capezzale, preda spesso di mercanti senza scrupoli, i copriletti lavorati a mano.
A quella casa, una notte, avevano bussato gli austriaci, raccontava l’Eletta. Lei era molto piccola. Cercavano suo padre. Lo portavano alla guerra. La mamma non voleva lasciarli entrare, spiegava, ma quelli s’erano fatti strada con la forza e era stato proprio lui a dirle di aprire. Venivano a prendere gli uomini in piena notte per essere sicuri di trovarli. Di giorno infatti parecchi si nascondevano, un modo un po' ingenuo per non ricevere la cartolina precetto. Di notte, invece, gli avevano dato la cartolina e se l’erano portato via tutto in una volta. Così, nel giro di un’ora, il papà aveva dovuto salutarli tutti, abbracciare la moglie (si ricordava Eletta) e partire. La mamma era rimasta sola e senza notizie. Aspettava. Gli uomini erano, si diceva, in un posto lontano: Galizia. Notizie, però non ne arrivavano.
Poi un giorno arrivò una cartolina. Il testo era prestampato. Non c’era spazio per aggiungere molto, lui aveva potuto metterci solo una o due parole, oltre al suo nome. Sapeva scrivere, naturalmente. La mamma, diceva Eletta, era felice. 
Poi il silenzio era ricominciato. Fino all’annuncio ufficiale della sua morte. Quando era arrivata la cartolina che aveva tanto rallegrato sua moglie, il papà di Eletta era già stato ucciso. «I aveva le cartoline, ma no le dava. ‘Spettavan.» Era una scelta precisa dell’Austria consegnare la posta ai familiari dei soldati con grande ritardo. A volte la corrispondenza arrivava quando i parenti erano già morti. Così le famiglie non ci credevano, pensavano che fossero ancora vivi. « Mi ha appena scritto, starà bene… ». E invece no.

L’Eletta raccontava spesso, spontaneamente, questa storia. Ritornavano sempre nel suo racconto la mamma felice dell’ultima cartolina del suo uomo, lei bambina che non aveva più visto, dopo quella notte, il padre partito in Galizia. «Loro» che consegnavano le cartoline quando ormai era già morto.
     
Eletta non poté finire i suoi giorni nella grande casa del suo racconto. I nipoti, o i cugini, vi avevano messo gli occhi sopra. La trasferirono in un stanza nel paese più grande, di certo più comoda e moderna, al piano terreno. Tutti i giorni lei tornava a lavorare l’orto, fino all’ultimo. Preparava ancora le «prugne bune». Quando andai a trovarla nella sua nuova sistemazione mi disse, desolata, come rimpiangesse la grande casa precedente. L’ultimo saluto me lo diede attraverso la finestra che dava sulla strada, in piedi, asciugandosi le mani nel grembiule, sempre più scarmigliata. Rimpiangeva la sua casa, ma era felice di avermi vista. Era una finestra con le sbarre, stranamente, perché in quei paesi raramente ce ne sono. Vederla lì dietro era la solitudine, l'impotenza, l'oppressione. Oggi sarebbe stato un motivo di più per andare da lei. Allora, invece, mi spaventai. Stupidamente, non ci sono più tornata.

sabato 27 settembre 2014

Ewa

Ebrea polacca comunista. Tutti i requisiti per garantirsi una vita facile e tranquilla nella prima metà del XX secolo in Europa, insomma. E infatti le vicissitudini di Ewa, nata nel 1909, erano cominciate presto. Non potendo studiare nel suo paese, era emigrata a Parigi, chiamata da un fratello trasferitosi già da diversi anni. Marie Curie arrivò a Parigi, qualche decennio prima, con una storia analoga.
A Parigi Ewa era entrata in una scuola di chimica, perché allora, si racconta nella sua famiglia, gli ebrei studiavano queste materie  per poter lavorare in tutto il mondo, ovunque fossero stati costretti a spostarsi dalle persecuzioni rifiorenti. L’ultima era stata dichiarata dalla Russia zarista nel 1905 all’incirca e si parva licet, secondo una (mia) ipotesi non verificata, avrebbe alla fine e dopo ben peggiori conseguenze, dato origine al cheese cake. Ma questa è un’altra storia, e per Ewa e la sua famiglia doveva essere stata una ragione di più per allontanarsi da una regione troppo vicina alla Russia e prepararsi a ogni evenienza. A Parigi, le “studentesse polacche” erano famose allora per avere una vita estremamente libera, vale a dire quella che oggi giudicheremmo normale. Lo racconta Eva Curie nella biografia di sua mamma, mentre Simone de Beauvoir scrive che l’espressione “studentessa polacca” era proverbiale per indicare una ragazza che usciva da sola, andava in giro la sera, frequentava ristoranti e bar senza chaperon. Come un essere umano, insomma…
Ewa raccontava incantata le sue serate con i compagni nei caffè della Montagne dove l’acqua si chiedeva al cameriere con un “De l’H2O, svp”, la dimensione di vita collettiva che aveva sperimentato, le passeggiate per la città, le mille libere discussioni, l’effervescenza culturale di una città capitale cosmopolita. Diplomatasi, aveva trovato immediatamente lavoro come direttrice di un laboratorio di chimica farmaceutica presso una ditta francese, il tutto, giova ricordarlo, negli anni Venti del XX secolo. Si era sposata e avevano avuto una bambina.
Poi arrivò la guerra, e soprattutto l’occupazione. Suo marito era lontano, sarebbe ritornato a casa molti anni dopo, avendo fatto il giro del mondo dietro alle vicende belliche. Erano venuti a cercarlo, un giorno. Non l'avevano trovato e se n'erano andati. "Per fortuna", diceva, "erano venuti solo a cercare un comunista. Fosse stato per cercare un ebreo, sarebbero rimasti." Militanti politici entrambi, rischiavano come tali, come ebrei e come abitanti di un paese occupato.  Lei si ritrovava sola, nella Parigi occupata dai nazisti tedeschi, con una bambina di pochi anni. Ewa mandò la bimba in Bretagna nella speranza che si salvasse. A quell’epoca molti ebrei si fecero passare per bretoni, perché i cognomi bretoni somigliano ai cognomi tedeschi. O almeno, nell’impotenza e nella paura, lo si voleva credere, perché i tedeschi ci misero poco a decifrare l’onomastica regionale. Rimase a Parigi. Ma come vivere? Passò quattro anni chiusa nella fabbrica di medicine, con la complicità dei suoi padroni, lavorando alle sue polveri e ai suoi dosaggi chimici, come sempre. Arrivò la Liberazione. E si salvò. Anche la bimba si salvò. Non tutti si salvarono. Diciassette morti nei lager nazisti contò la famiglia, più simpatici danni collaterali ad alcuni sopravvissuti all’Arbeit macht frei e ad altri variamente perseguitati e dispersi.
Nel frattempo Ewa si ritrovò senza documenti. Non era infatti tornata in Polonia, perdendo così la cittadinanza. Divenne apolide, con un documento delle Nazioni Unite che la dichiarava tale. Lei e suo marito, peraltro, erano entrambi convinti comunisti, il che per l’epoca e per il luogo significava senza mezzi termini stalinisti.  Si ricordano confusamente negli annali familiari terribili discussioni con i parenti polacchi venuti in visita quando tentavano di raccontare che non andava poi tutto così bene… e altre terribili discussioni in polacco inframmezzato da yiddish con i parenti emigrati in Israele, con valigie impacchettate di fretta quando il livello di dissenso sulle politiche interne di quel paese aveva raggiunto un punto che rendeva impossibile passare la notte sotto lo stesso tetto, a costo di passarla à la belle étoile…  perché nessuna scelta, al di là di quel che si vuol far credere, avveniva nel consenso generale e fuori da ogni contesto.
Quando andò in pensione Ewa partì per l’Italia dove aveva legami familiari. Allora la conobbi. Aveva già quasi cento anni, ma discutevamo reciprocamente incantate della politica francese negli anni’30, alla vittoria del Fronte popolare, che avrebbe creato in quel paese il welfare oggi così minacciato. Leggeva tre o quattro quotidiani al giorno e faceva disperare le sue badanti perché non compitavano l’italiano abbastanza bene. Ripassavamo la storia e la letteratura d’Europa in due lingue e mezza. Il suo francese era delizioso, con una ricchezza sintattica scomparsa nelle ultime generazioni. Le raccontavo i miei soggiorni francesi e i miei guai con i docenti italiani, cui lei suggeriva rimedi tutt’altro che banali. Mi invitava a cene che si aprivano rigorosamente con il potage, che amavamo entrambe, come le uova che spesso seguivano.  Non amava, salvo negli ultimissimi tempi, esssere toccata. Al bacio di commiato, spiegava, preferiva una stretta di mano. Fu all’origine di alcuni incontri in Francia che mi hanno permesso di continuare a passare lunghi periodi in quel paese. E chissà.

Erano arrivati i suoi 105 anni, e una lettera d’auguri firmata dal sindaco con bell’inchiostro verde.
Lei l’aveva sentita, l'aveva detto, ma nessuno l'aveva presa sul serio: il primo giorno d’autunno è arrivata anche, quasi nel sonno, la morte.
Ma qui ritorna il famoso ebreapolaccacomunista. Sì, all’inizio del nuovo secolo. Perché la sua famiglia avrebbe voluto cremarla, riunendone le ceneri a quelle del marito sepolto in Francia, anche lui cremato. Ma Ewa da apolide vive e apolide muore. E allora “non si può”.

“Non si può”, dicono i servizi cimiteriali romani: “Bisogna chiedere allo stato polacco.”
“Non possiamo, ripetono dall’Ambasciata, la signora non è più cittadina polacca.” Proviamo con la Francia?
 “Non si può, ribadiscono i Francesi, la signora non ha mai avuto la cittadinanza francese.” Bisogna rivolgersi all’autorità che ha emanato il documento da apolide.
“Noi inumiamo domani”, incalzano i servizi cimiteriali. 
“Ma…” 
“Noi inumiamo entro 24 ore.” 
“Stiamo cercando…” 
“Non si può. Noi inumiamo domani.” 
“Vorremmo…”
“Non si può.”


Shake hands, Ewa. Come dicevi tu.

sabato 30 luglio 2011

La lettura, di sera, tra donne

Notte di luglio fresca, freschissima, prima banlieu parigina. Una tredicenne (altissima), una quarantenne (piccolissima), una cinquantenne (riccioluta) sdraiate sui sofà davanti alla grande portafinestra spalancata che affaccia su un minuscolo giardino di rose rosse e bambù (più qualche erba aromatica nel vaso in fondo...). L'unico uomo della situazione, un diciottenne, è andato a dormire abbandonando Cyrano sul tavolino. Tisane di erboristeria, miele, cioccolata di quattro qualità. Lingua: francese. "Com'è il castello di Chambord?" per fortuna ho un libro sui castelli della Loira da prestare alla allampanatissima Laura. La quale comincia a leggerlo, poi a leggercelo, partendo dalle introduzioni storiche piuttosto approfondite. Facendoci sfilare davanti trecento anni di storia di Francia. Ogni tanto ci si pongono delle domande, a turno. "Cos'è una joute?", corsa di sopra a prendere il dizionario. "Perché Luigi XIV ha fatto confinare Fouquet a Chambord?". "Perché in Francia si studiano nello stesso anno gli Arabi e la seconda guerra mondiale?". "Luisa di Lorena era la vedova di Henri IV?" "Se Henri II è morto nel corso di un torneo amichevole come sarà stato uno non amichevole?". "Luigi XIII ha fatto il primo bagno a sei anni. Margherita di Valois, sua lontana zia passava le giornate nei bagni caldi. Cos'è successo per cui alla fine del XVI secolo le persone hanno smesso di lavarsi?" "Come mai l'architetto si chiamava Pacello?" "Perché in Toscana ci sono nomi così strani?". "Come sarà un riserva di caccia così enorme?" "Esiste un plastico del castello di Amboise?" "Esistono dei castelli in Italia?" "Perché i re di Francia facevano la guerra in Italia? Non gli costava un sacco di soldi?" "I nuovi manger e tecnici spesso non sanno scrivere un testo sintatticamente organizzato. Chi scriverà per loro tra venti anni? Dei nuovi umanisti?". Il tutto inframezzato dalle frasi del libro, che ci raccontano Chambord, Chenonceaux, Amboise, il castello che era "una vera e propria città".
Rientrano i padroni di casa e filano a letto, senza disturbarci. Noi continuiamo, fino a notte fonda.
Una bellissima serata.